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Erasmo Silvio Storace (a cura di), Carlo Michelstaedter: l’essere come azione , Alboversorio, 2007
di Andrea Bellocci

È indubbiamente nel segno di una forte passione per la figura di Michelstaedter, nonché di una smisurata ambizione, quella di portare a galla la portata ontologica del suo pensiero, “fino ad oggi rimasta nell’ombra” che si apre il volume Carlo Michelstaedter: l’essere come azione (Carlo Michelstaedter: l’essere come azione, Alboversorio, Milano 2007, p. 11).
Esso si compone di alcuni originali contributi che converrà esaminare subito nel dettaglio. Claudio La Rocca (Prima e dopo la Persuasione) individua il nocciolo teoretico della filosofia di Michelstaedter proprio partendo da quelle Appendici critiche che, come lo stesso sottolinea, ignorate e sottovalutate per decenni dagli interpreti, costituiscono davvero una chiave fondamentale per porre e riproporne l’intero pensiero. Ebbene, se nella prima Appendice critica Michelstaedter mette in luce il ruolo della “significazione sufficiente”, ovvero la naturale tendenza del linguaggio a farsi “teoria” e a «fingere una dimensione di senso autonoma, assoluta e stabile, sradicata dall’esperienza vitale, in cui il non-essere viene tendenzialmente occultato» (ivi, p. 21), nella seconda (Nota alla triste istoria) viene approfondita ancor più quest’operazione fallace e mistificante risalendo alle origini, quelle che hanno aperto il campo al suo vero e proprio istituzionalizzarsi: la teoria platonica del   μń őν inteso come έτєρον ha disconosciuto l’originarietà del nulla facendone un nihil relativum, negatività superabile nell’insieme di rimandi del tutto, dunque un nulla addomesticato e addomesticabile, non più in grado di «far risaltare, come esigenza almeno, la dimensione della pienezza parmenidea» (ivi, p. 22). La Rocca scorge in questo fondamentale motivo michelstaedteriano, a nostro avviso cogliendo pienamente nel segno, una grandiosa anticipazione di quanto Heidegger esporrà nella prolusione Che cos’è metafisica? del 1929, in cui, com’è noto, il Niente sarà riconosciuto come originario rispetto al “non” e alla negazione. Se la parola persuasiva è quella che riesce a render conto e a corrispondere al nulla, a quello che Michelstaedter chiama il «dolore cieco e muto di tutte le cose», la rettorica, neutralizzando il nulla, si rende invece colpevole di una vera e propria operazione di occultamento. La Rocca vede nel pensiero della persuasione i caratteri, gli unici ancora possibili, di un pensiero che ha attraversato, e nella maniera più radicale, l’esperienza del nichilismo: non un’utopia impossibile, né quell’aporia in cui si imbatte fatalmente Schopenhauer quando teorizza una volontà che dovrebbe volere di non volere; il fatto che Michelstaedter non indichi in maniera esaustiva quali siano i mezzi per giungere alla persuasione, quale ne sia il vero e proprio contenuto –  «la via della persuasione (…) non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l’indice» (C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Milano 1995, p. 62) – è interpretato dall’autore come un tentativo di render ragione che l’Assoluto non è una “cosa”, come tale esprimibile e comunicabile, e che di esso non si possano a rigore dire i contenuti, ma solo le “condizioni”: e condizione, appunto, davvero essenziale, è «che ci si riesca a porre e a muovere (a permanere) in una dimensione in cui (…) si risponda (…) al dolore cieco e muto di tutte le cose» (C. Michelstaedter, L’essere come azione, cit., p. 27).
Marco Fortunato (Totalità e miseria. Ipotesi per una definizione di “persuasione”) mette in luce anzitutto la struttura ontologica, ancor prima che conoscitiva, della rettorica: essa sta a indicare la struttura stessa del reale, regno del tempo e della molteplicità; l’autore attribuisce a questa struttura, cosi come concepita da Michelstaedter, due grandi idee-parole guida direttamente attinte dalla sapienza orientale: l’“impermanenza” e il “vuoto” (cfr. ivi, p. 34). Ed infatti l’impermanenza esercita un’azione di costante e progressiva erosione, che è quasi un annientamento, tra gli enti nella loro correlatività, il cui approdo è un vuoto che dovrebbe a questo punto addirittura impedire, dato «il loro statuto ontologico prossimo alla fantasmaticità, la loro sostanziale in-esistenza» (ivi, p. 35), che essi possano ancora propriamente definirsi come “essenti”. L’autore prosegue con un suggestivo raffronto con la dialettica del riconoscimento delineata da Hegel, di cui il filosofo goriziano era lettore ben attento ed in cui non poteva che scorgere la propria “antifigura”, che diviene immediatamente in Michelstaedter un «teatrino penosamente grottesco perché ciò che vi accade è che ciascuno insegue la certificazione della propria consistenza (…) da parte di altri che versano nella stessa condizione di intrinseca in-consistenza e vuotezza» (ivi, p. 36). La scelta mistificatoria di occultamento di questo penoso stato delle cose, invalsa in Occidente, è stata allora quella di reagire tramite un’ “opzione”, quella per il sapere, ovvero, come si esprime Michelstaedter, di “mettersi in posizione conoscitiva”; e se la strada spianata dall’ultimo Platone, quello dei cosiddetti “dialoghi dialettici”, colui che ne porta in pieno la responsabilità è Aristotele: egli ha raccolto i dati comuni innalzandoli a luoghi ideali, ha promosso le cose, così come sono, a forme perfette, dando vita, con un gesto di massima trivialità, al più alto grado di acquiescenza alla realtà data, una vera e propria apologia dello status quo: rettorica, dunque, che si aggiunge a rettorica. E per quanto egli dica, prosegue Fortunato, che il persuasore deve persuadere gli altri, è pur vero che in questi il persuaso amerà e rispetterà la propria stessa personalità di persuaso. In ciò l’autore vede «la violenta insofferenza per il fatto di non essere il solo (…) quella che Freud chiamerebbe la ferita narcisistica di non essere l’unico» (ivi, p. 37). Ad ogni modo, all’anti-gnoseologismo di Michelstaedter l’autore lega un marcato ontologismo di provenienza parmenidea: «quello di Michelstaedter, oltre a non essere certamente un pensiero della vita (…) propriamente non è neppure un pensiero dell’esistenza, ma è prepotentemente un pensiero dell’essere» (ivi, p. 45). La vera e propria “prova” di ciò è rintracciata da Fortunato in alcuni appunti dell’estate del 1909, che non solo testimoniano l’intensa lettura dei frammenti parmenidei - e Parmenide, nella Prefazione all’opera viene infatti messo tra i “persuasi”- ma in cui Michelstaedter traduce una parola centrale del poema parmenideo, лєιθώ (persuasione), con essere, scrivendo esplicitamente “essere=лєιθώ”. Probabilmente, aggiunge Fortunato, e ciò in accordo con la sua lettura di Michelstaedter come pensatore “unico” e dell “unicità”, la richiesta “folle” che il filosofo goriziano rivolge a sé e agli altri, è quella di essere - in quell’istante della persuasione che è un momento del tempo che «parla contro il tempo perché in qualche modo lo blocca/ne determina l’arresto» (ivi, p.49), in questa quasi-negazione del tempo in cui si raggiunge la fermezza dello stare e del permanere – proprio come l’essere parmenideo, inalterabile, incorruttibile, svicolato dal tempo, autosufficiente ed autarchico (cfr. ivi, p. 46). La verità, sostiene Michelstaedter, o la si possiede tutta in uno stesso e solo presente o non la si raggiungerà mai: il “pathos della totalità” che anima il pensiero di Michelstaedter non deve tuttavia far pensare a lui come “persuasor di morte”; l’istante della persuasione non è l’istante della morte, ma allude a quello stato che Michelstaedter definisce non-vita.
Erasmo Silvio Storace (L’ontologia morale di Carlo Michelstaedter: l’echontologia) sottolinea il momento in cui Michelstaedter si allontana dal “maestro” Schopenhauer: se ne ripropone la metafisica della volontà – squarciato il “velo” della rettorica, o meglio, approfondita questa nella sua struttura base, l’intimo essere del mondo si rivela come de-esse, mancanza, carenza, dolore, irriducibile volontà di vivere (cfr. ivi, p. 58) – è pur vero che il filosofo goriziano vede in Schopenhauer, che pure ha avuto l’indiscusso merito di svelare la trama del reale, un esempio atipico di rettorica, deprecandone l’approccio meramente descrittivo in ambito morale: la scissione tra teoria e pratica è un tipico modo di “reazione” della retorica, che non implica un coivolgimento diretto nella realtà. All’atteggiamento passivo  e quietistico di Schopenhauer Michelstaedter contrappone l’ “attivismo” di Leopardi, messo infatti – a differenza di Schopenhauer – nella Premessa all’opera nell’“elenco” di coloro che raggiunsero la persuasione. Inoltre, prosegue Storace, Michelstaedter si distacca anche a livello metafisico dal maestro nel momento in cui alla noluntas, ovvero alla soppressione della volontà, contrappone la persuasione: questa si ha «allorché la Volontà stessa è stata compiuta, ogni volere è stato sopito e ogni movimento della vita illusoria si è arrestato, ovvero quando la vita si è compiuta nella vera Vita. Il persuaso è colui che giunge al pieno e totale possesso di sè» (ivi, p. 61). Non solo: l’essere persuaso deve coincidere, o comunque completarsi col persuadere; se persuasione è sinonimo di possedere, ossia di avere, è pur vero che il persuaso deve abbandonare la quiete per tornare nel mondo della volontà, «abitandolo non più secondo la modalità del volere, ossia del voler-avere, bensì in quella del Persuadere, che è un Beneficare» (ivi, p. 63). A tal proposito Michelstaedter scrive testualmente, definendo questo concetto, «Dare è avere». Alla lettura della persuasione in chiave prettamente nichilistica, quella di La Rocca, e a quella in chiave ontologica, quella di Fortunato, ritenute da Storace indubbiamente legittime ma unilaterali, l’autore propone e contrappone una lettura in chiave morale: «Persuasione in quanto Persuadere significa risposta etica del soggetto che ha visto la propria pratica, la Vita, e deve tornare in essa con un equilibrio nuovo, ossia incarnando un’azione uguale e contraria rispetto alla volontà: il Voler-bene, ossia il Dare in quanto beneficare (…) non una Persuasione di morte, bensì una Persuasione di Vita» (ivi, p. 71).
Roberta Visone (La deviazione della “persuasione” dalla Noluntas) mette in rilievo, tamite un puntuale confronto, testuale e concettuale, l’interiorizzazione pressocchè assoluta di Michelstaedter delle tematiche schopenaueriane; eppure non solo, come si è già detto, Schopenhauer non figura nell’elenco dei “persuasi”, ma viene citato nell’opera solo una sola volta, e perdippiù messo “tra parentesi”; negli Scritti Vari viene invece nominato, ma solo per criticarlo ed evidenziarne i limiti: «Egli non si occupa di far vedere la necessità dell’errore stesso implicito nel principio generale della vita che fece vivere chi aveva negato ogni ragione di vivere. Infatti accadde poi a lui stesso che visse tutta una lunga vita a fare professione di pessimismo. Tanto che poi le sue negazioni gli divennero sistema e che morì accarezzando anche lui una certa forma di “assoluto”» (C. Michelstaedter, Scritti Vari, in Id., Opere, Firenze 1958, pp. 839-840). E ancora: «La volontà di vivere attraverso la sua forma più alta: la coscienza arriva alla negazione di se stessa. Vera coscienza è la coscienza della nullità, cioè quella che cessa d’essere coscienza. Tale è l’intima contraddizione e l’estremo sarcasmo di tutta la commedia. Anche l’ultimo compagno serio s’annulla: il dolore» (ivi, pp. 778-779). Visone, dopo aver messo in luce l’ambigua presenza/assenza di Schopenhauer negli scritti di Michelstaedter – pressocchè assente nella Persuasione e la retorica, presente, sia pur criticato negli Scritti Vari dello stesso periodo – ricorda il motto greco ricorrente negli scritti del filosofo goriziano di energeias es argia, tradotto dallo stesso “attraverso l’attività all’inerzia”, e posto anche, significativamente, sotto il ritratto di Schopenhauer conservato nella soffitta di casa Paternolli. Ebbene, l’ipotesi di Visone è che la “messa tra parentesi” di Schopenhauer «avviene nel momento in cui la nozione di persuasione entra in diretto conflitto con quella di Noluntas» (ivi, p. 82). Non bisogna, commenta Visone, lasciarsi trarre in inganno dalla nozione di argia, che sembrerebbe un aperto tributo al concetto di noluntas: Michelstaedter respinge «qualsiasi dottrina che vagheggi un punto d’arrivo, di riposo, come la Noluntas» in quanto «ancora influenzata dalla volontà filopsichica di rimozione» (ivi, p. 84). Michelstaedter non è un “persuasor di morte”, né vagheggia l’estinzione dell’io nella morte; dunque, secondo l’autrice, «l’argia è il pensiero della morte che l’uomo deve tenere sempre davanti agli occhi, come stimolo che lo porta a operare autenticamente qui, intanto, nella sua vita» (ibidem). E dunque, più che l’argia, tappa finale, va posto l’accento sul percorso che a quella conduce; non “quiete” allora, ma “attività” è il termine chiave per comprendere il concetto di persuasione. Respinto l’“Assoluto ascetico” schopenhaueriano, Michelstaedter mostra come il persuaso non possa non persuadere, tornando nel mondo e “amandolo”, educando gli altri alla stessa conquista della persuasione.
Alcune brevi considerazioni necessitano ora di essere svolte per contestualizzare e approfondire e, ove necessario, per criticare le interpretazioni di Michelstaedter che fin qui abbiamo cercato di analizzare dettagliatamente: l’ispirazione da cui il filosofo goriziano prende le mosse è, come mette bene in luce Fortunato, indubbiamente parmenidea: la persuasione è tutt’uno ed anzi si identifica con il sentiero della giustizia, della verità e dell’essere; sennonchè questo, l’essere, e sempre secondo la logica eleatica così come concepita dallo stesso Michelstaedter, è tutt’altro ed eterogeneo rispetto al piano fattuale dell’esistenza, che è a rigore – punto questo sottolineato da La Rocca - il sentiero dell’ingiustizia, dell’errore e del non essere: lo sfondo rigidamente dicotomico di quest’impostazione non può che far problema rispetto alla persuasione, che, a nostro avviso, lungi dall’essere come vorrebbero gli interpreti - quasi tutti tesi a salvaguardare, e fin troppo, la massima coerenza del pensiero di Michelstaedter – una soluzione, è la massima aporia in cui non può che imbattersi ed esemplarmente “naufragare” il nostro pensatore. Ed infatti se tra essere e non essere, ovvero tra persuasione e rettorica non vi è alcuna mediazione possibile e pensabile, l’intenzione michelstaedteriana di tenere unite teoria e prassi, di operare il passaggio - pena la ricaduta nella rettorica - tra i due piani non può che risultare aporetica e di difficile praticabilità: gli scarsi accenni, alcuni dei quali peraltro in contrasto tra loro, che Michelstaedter dedica al vero e proprio contenuto della persuasione debbono in proposito far riflettere; da questo punto di vista ci sembra forzato vedere in questi scarsi indizi, come vorrebbe invece La Rocca, che proprio questa “scarsità” interpreta come positivamente significativa, il tentativo di indicare le “condizioni” anziché i “contenuti” dell’Assoluto, quindi un modo per non “cosalizzarlo”; sotto questo stesso punto di vista a tale “scarsità” attribuiamo valore opposto, e scorgiamo anzi proprio la massima problematicità delle condizioni di pensabilità e praticabilità rispetto all’Assoluto, dato il punto di partenza irrimediabilmente fattuale ed antitetico rispetto ad esso. Non basta dunque, come vuole sempre La Rocca, che nell’uomo riecheggi il nulla, il “dolore cieco e muto di tutte le cose”; occorre altresì che l’uomo giunga alla negazione dell’esistenza, alla negazione del nulla, per essere, come mette in luce Fortunato, come l’essere parmenideo: sennonché, ancora, l’espressione ossimorica vita-non vita è emblematica proprio di quest’aporia che è in se stessa la persuasione: una vita che si annulla come vita per essere: ma, ci chiediamo, la noluntas è davvero concetto così distante da questo? Se, come crediamo, non lo è in alcun modo, la critica che Michelstaedter rivolge a Schopenhauer di contraddirsi nel momento in cui teorizza una volontà che non si vuole non gli si ritorce irrimediabilmente contro? Ad ogni modo, ribadiamo, il dualismo è radicale e insanabile: a rigore, non si può parlare di un male dell’esistenza per Michelstaedter, ma del male costituito dall’esistenza stessa. A questo proposito le letture di Storace e Visone risultano senz’altro preziose in quanto danno spazio all’esigenza michelstaedteriana – certo, bisognerà vedere se quest’esigenza sarà destinata a rimanere mera esigenza – di tenere unite teoria e prassi; non basta l’estinguersi della vita e il possesso di sé; occorre tornare nel mondo e “dare”, ovvero educare gli altri alla stessa conquista della persuasione. Sennonchè i due interpreti non scorgono in alcun modo il carattere problematico ed irrimediabilmente destinato al naufragio di tale tentativo: il persuaso, che in ciò ricalca da vicino l’itinerario mistico ribadendone peraltro l’intrinseca problematicità e autocontraddittorietà, è colui che, scorto il male dell’esistenza, nell’attimo salvifico della persuasione, giunge alla negazione del mondo, del tempo, degli altri e di sé come appartenente a questo mondo; solo così può essere  come l’essere. Quali caratteri potrà mai assumere il “ritorno” nella caverna platonica? Ribadendo il carattere logicamente indebito e della “conquista in Tu” e della “ridiscesa in giù”, ovvero della conquista e del ritorno, questo non potrà che assumere una valenza singolarmente “appropriativa”: nell’altro il persuaso vede ed ama se stesso, si identifica con il mondo nella misura in cui questo è il suo riflesso, ed infatti, sul piano dell’essere, nessuna deficienza o alterazione è possibile; giammai amerà, o meglio, potrà amare l’alterità come tale, non foss’altro per il fatto che questa stessa alterità, la stessa che egli ha negato in sé, è stata definitivamente superata e deprecata come il male assoluto. Gli aspetti “attivistici” messi in luce da Visone e quelli “donativi” messi in luce da Storace hanno dunque il merito di proporre una lettura senz’altro originale, per di più basata su un esame di testi essenziali finora ignorati dalla maggioranza degli interpreti: sennonchè questi stessi testi contrastano apertamente con altri, e, ci sembra, con il nucleo teorico più pregnante della persuasione. Le due letture peccano dunque di unilateralità, finendo col restituirci una lettura moralistica ed irenistica di un pensatore dalle contraddizioni laceranti come Michelstaedter. Quale amore sarà mai possibile per colui che ha posto l’intera gamma dei sentimenti, esclusa l’angoscia del nulla, sotto il dominio della philopsichia?
Un’ulteriore questione: il carattere paradossale e antinomico relativo alla persuasione non riguarda peraltro solo il suo esser “soluzione”, ma il suo stesso iniziale costituirsi come “questione”, dicibile, comunicabile, esprimibile; ed è lo stesso Michelstaedter ad essere tragicamente consapevole che il suo tentativo non può che naufragare: non a caso egli pone come epigrafe all’opera i versi di Sofocle «So che faccio cose inopportune e a me non convenienti», proseguendo «Io so che parlo perché parlo ma che non persuaderò nessuno; e questo è disonestà – ma la rettorica mi costringe a far ciò – o in altre parole “è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi”» (cfr. Prefazione a La persuasione e la rettorica, cit., p. 35). Alberto Asor Rosa, profondo conoscitore e interprete del filosofo goriziano, ha evidenziato come la stessa stesura dell’opera costituisca in verità un tradimento, un cedere ciononostante alla rettorica; e lo stesso Michelstaedter ne era profondamente consapevole, riconoscendo che «il fatto di parlare, in quanto non si può parlare senza immergersi quanto meno nella rete delle relazioni discorsive, che presiedono all’umana comunicazione, implica una sottomissione alla rettorica - quella rettorica, tuttavia, a smontare la quale tutto il suo discorso è dedicato» (cfr. A. Asor Rosa, La persuasione la rettorica di Carlo Michelstaedter, in Letteratura italiana IV. Il Novecento. L’età della crisi, Einaudi, Torino 1995, p. 266). Sulla stessa linea Massimo Cacciari, che ha parlato di un discorso tragico che, dicendosi, si nega in quanto tale, di una rettorica che si accanisce contro se stessa e che “implode”: «La posizione di Michelstaedter sfida il paradosso: cerca la via in parole in cui pure risuoni il timbro della persuasione. Che Michelstaedter sia ben cosciente del carattere più che paradossale, antinomico, del suo tentativo, è evidente dalla Prefazione (…) Dunque anche PR è rettorica! Poiché, appunto (…) rettorica non è una forma del linguaggio, ma il linguaggio nella sua essenza (…) Questo fare-nonostante-tutto segna la tonalità tragica dell’opera di Michelstaedter» (cfr. M. Cacciari, Interpretazione di Michelstaedter, “Rivista di estetica, XXVI, 1986, n. 22, pp. 29-30). Concludendo, ci sembra invero alquanto discutibile presentare la soluzione della persuasione come esente da aporie e contraddizioni nel momento in cui è lo stesso Michelstaedter ad avvertirci che essa, dalla contraddizione, è minata fin dall’inizio.
Infine: è davvero possibile parlare di Michelstaedter come “persuasor di vita”? Se certamente appare forzata e triviale l’espressione “persuasor di morte”, questa opposta sembra ricadere nello stesso vizio di etichettare a tutti i costi un pensiero e un pensatore, e perdippiù si rivela concettualmente insostenibile. Ribadiamo: rettorica è la vita, e questa è il male da superare in vista della persuasione, che, della vita, non conserva più nulla. Al riguardo, se la nota espressione di Papini “suicidio metafisico” si rivelava concettualmente “forzata” (cfr. G. Papini, Un suicidio metafisico, in “Il Resto del Carlino”, 5 novembre 1910, p. 3.), e in tal senso è scalzata dagli interpreti, il suicidio di Michelstaedter, avvenuto com’è noto il giorno immediatamente successivo alla stesura completa delle appendici critiche, deve a nostro avviso essere ridiscusso e problematizzato: esso non è certamente la logica conseguenza del suo pensiero e, tuttavia, non è affatto così distante da un certo nobile e tremendo spirito di fondo che pure lo fende e l’attraversa, e non merita di essere liquidato ignorandolo o spiegandolo/non spiegandolo con circostanze occasionali.
Ricordandoci del tentativo michelstaedteriano di tenere unite teoria e prassi, che nel suo pensiero diviene l’impossibile, tragico tentativo di congiungere vita e non vita, l’essere con la sua più tremenda e “volgare” negazione, esso getta retroattivamente una luce straniante proprio su quel “gesto”: la morte non era certo l’evento completante della vita che, anzi, questa nulla può “togliere o aggiungere” al persuaso. Eppure, forse, l’unico rimedio, umanamente possibile e coerente, di risolvere quell’infinito dolore e quell’ “errore di logica” che è la vita.



PUBBLICATO IL : 11-11-2008

 

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