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Elia Benamozegh, Storia degli esseni , Marietti, 2007
di Gabriella Maestri

«Se ogni individuo ed ogni ceto debbono contribuire, per ciò che lor spetta, a maggior onoranza e gloria della Patria comune, perché questo dovere non incomberà egualmente agli Israeliti e alla scienza israelitica? L’Italia ha il diritto di avere una Scienza ebraica filologica, storica, teologica, erudita quale da gran tempo posseggono altre Nazioni sorelle…». Così si esprimeva il Rabbino livornese, di origine marocchina, Elia Benamozegh nella prefazione alla sua Storia degli esseni, edita da Le Monnier per la prima volta a Firenze nel 1865, riapparsa nel 1979 sotto forma ridotta, a cura di Armando De Francesco, per i tipi dell’Editrice Armenia, con il titolo Gli Esseni e la Cabbalà e recentemente ripubblicata, secondo le parole del suo curatore, Marco Morselli, “dopo un’eclisse di un secolo”, nella Biblioteca Ebraica della Casa editrice Marietti, anche se non integralmente, con ampliamenti e una maggiore fedeltà al testo originale (E. Benamozegh, Storia degli esseni,  a cura di M. Morselli, Marietti, Genova-Milano 2007).
     Ma perché presentare un’opera del secolo scorso, quando attualmente circolano sull’argomento  testi di insigni studiosi, i quali si sono potuti avvalere dell’ausilio di una grande messe di nuovi dati e conoscenze che, soprattutto a partire dal 1947, anno delle prime scoperte archeologiche di Qumran,  hanno fornito preziose testimonianze dirette sulla vita e sul pensiero degli esseni? Perché la figura dello stesso Benamozegh viene di nuovo proposta alla nostra attenzione ?
        La risposta è semplice: perché Elia Benamozegh è stato un uomo di eccezionale levatura culturale e spirituale, il quale, in seguito alle sue particolari e variegate esperienze di vita e alla vastità delle sue conoscenze, ben oltre l’orizzonte dell’Ebraismo, in un periodo storico molto particolare, segnato ancora dall’esperienza risorgimentale, ma al contempo da antiche chiusure e pregiudizi da parte cristiana nei confronti di chi era “diverso”, decise di arricchire, «adempiendo all’officio di buon italiano», il suo Paese d’adozione del suo personale contributo ad una migliore comprensione degli elementi più significativi relativi alla sua fede. Spinto infatti, come lui stesso testimonia, dall’amore del sapere e della verità, volle mettere in luce l’importanza dell’antico Essenato, uno dei frutti più ricchi  maturati nella terra di Israele.
      Tale proposito, volto anche a sottolineare i profondi legami intercorrenti tra Essenato e cristianesimo, poteva considerarsi, in pieno XIX sec., assolutamente controcorrente, ben lontano dal comune modo di sentire: questo  può spiegare l’oblìo che  ben presto circondò l’Autore e la sua opera, che circolò esclusivamente in ambiti molto ristretti e che soltanto negli anni più recenti ha conosciuto un pubblico più vasto di lettori. Benamozegh infatti, pur criticando il cristianesimo per la contestazione e l’abolizione dell’osservanza della Torah e per la teologia della sostituzione da esso elaborata, gli riconosceva tuttavia grande valore, giungendo a definirlo «un capolavoro di un pugno di ebrei», un «ramo del grande albero d’Israele innestato sul tronco dei gentili».               
      Un ulteriore importantissimo ambito di ricerca intrapreso da Benamozegh si attuò nei confronti della Qabbalah e delle sue origini. Egli, allineandosi alle posizioni già espresse dal Munk ed approfondendo ulteriormente l’indagine, sottolineò come la speculazione cabbalista fosse antica e si potesse far risalire nei suoi punti fondanti al pensiero degli esseni. Su di essi quindi  si concentrò l’attenzione dello studioso che aveva ben compreso quanto fosse stato grande l’influsso da loro esercitato su alcuni fondamentali sviluppi della speculazione teologica edella mistica nell’ambito dell’ebraismo.
     Spinto pertanto dalla duplice sollecitazione di approfondire le più antiche origini cristiane e la nascita della speculazione cabbalistica, nella sua Storia degli esseni il nostro Autore, avvalendosi di una profondissima ed ampia conoscenza non solo della civiltà ebraica, ma anche di quella classica e medioevale, esaminò  l’Essenato,  fino allora «coperto da secoli di oblìo», utilizzando in modo magistrale le scarne testimonianze che su di esso il mondo antico aveva potuto fornire. Le conclusioni a cui sono pervenuti i suoi studi sono state in buona parte comprovate dalle testimonianze fornite dai testi ritrovati nelle grotte di Qumran, che sugli esseni hanno gettato nuova e abbondante luce.
     Nei primi capitoli del libro sono affrontati problemi molto complessi che riguardano l’origine degli esseni, il possibile significato del loro nome, forse derivato dal termine ebraico hosem, cioè “forte” o “illuminato”, e le caratteristiche più salienti della loro istituzione. Benamozegh si avvalse nella sua ricerca innanzitutto di testi biblici per ritrovarne le prime tracce, in particolare utilizzando ed interpretando in tale direzione alcuni passi tratti dal I Libro delle Cronache e dai profeti Isaia, Geremia e Daniele. I risultati a cui pervenne la sua indagine respinsero l’ipotesi di un’origine alessandrina, mentre si espressero in favore di un’origine tutta “palestinese”. Nei Qeniti, discendenti da Qeni/Yetro, suocero di Mosè, nei Recabiti e infine nei Nazirei Benamozegh vide le radici  del rigoglioso albero essenico, tra i cui frutti deve essere annoverato l’istituto stesso del Fariseato.  Ampio spazio venne dato all’esame delle testimonianze di due importanti autori dell’antichità: Giuseppe Flavio e Filone Alessandrino. Il primo nel II libro della sua Guerra giudaica aveva descritto le caratteristiche della gerarchia e della società degli esseni, mettendone in evidenza  la divisione tra “pratici”, che potevano formarsi una famiglia e quindi generare figli, e “contemplativi”, totalmente dediti allo studio e alla preghiera. Il secondo nel suo libro Ogni uomo onesto è libero aveva fornito una preziosa testimonianza sull’Essenato palestinese, caratterizzato da una notevole armonizzazione tra la vita attiva e quella contemplativa: «moralmente parlando, l’ebraismo aveva collocato da lungo tempo la terra in cielo, prima che nascesse Copernico» afferma con fierezza Benamozegh, sottolineando come gli esseni che vivevano nella Terra d’Israele possedessero un maggiore equilibrio rispetto ai loro fratelli d’Egitto, i terapeuti, cui pure Filone aveva dedicato il suo La vita contemplativa, mettendone in evidenza il forte ascetismo, la scelta del celibato e il disprezzo del mondo.
Dopo la panoramica generale contenuta nei primi capitoli, l’obiettivo si concentra sulle caratteristiche  dell’Essenato fiorito sulle rive del Mar Morto, con un lungo e interessante excursus sulla sua predilezione (riscontrabile anche fra i terapeuti egiziani)  per i luoghi vicini alle acque, predilezione condivisa peraltro da tanti gruppi religiosi del mondo antico, in special modo dai pitagorici. Benamozegh si sofferma a spiegare il valore simbolico di esse facendo riferimento a molti testi biblici e sottolineando la persistenza di  tali interpretazioni nel mondo medievale. Il tema delle acque gli permette di soffermarsi sull’uso dei bagni purificatori nel miqweh a cui si sottoponevano gli esseni prima di sedersi alla mensa comune, di spiegare il significato della festa dei Tabernacoli, celebrata tuttora con particolare fervore dai hassidim (che hanno ripreso un antico nome degli esseni), e infine di spiegare l’autentico significato di  alcuni passi dei Vangeli, in particolare l’episodio della samaritana  (Gv 4,1-30 ). Un riflesso di tutto ciò, secondo Benamozegh, si poteva riscontrare nella teosofia cabbalistica, la quale chiamava fonte o pozzo d’acqua  viva  (beer mayim hayim ) non solo il Tempio di Gerusalemme, ma anche il suo prototipo emanatistico, la  Sefirah chiamata Malkhut (Regno) che, nella serie delle emanazioni, è il principio dell’incarnazione, la umanazione del Verbo o Logos Tiferet.
     L’Autore nella sua indagine fa affiorare concordanze e affinità fra l’Istituto essenico, i farisei e la scuola mistico-teologica dei cabbalisti; risalto particolare è dato alla  convinzione, da tutti e tre condivisa, che chi si dedicava totalmente allo studio della Legge e all’ascesi doveva ritenersi esonerato da ogni osservanza pratica esteriore.
      Pagine interessanti sono dedicate alla descrizione del culto sia degli esseni che dei terapeuti, in particolare durante la festa che si celebrava nei vespri del primo giorno dei Tabernacoli, caratterizzata  da un grande banchetto, da luminarie, da balli, suoni e canti che dovevano protrarsi fino al giorno successivo. Tali festeggiamenti si potevano osservare diffusi anche più tardi fra i farisei ed i rabbini nel corso della Simhat  bet ha-shoavah e fra i hassidim, i quali, insieme con gli anshè maasè (i pratici) usavano prodursi in particolari danze che volevano raffigurare l’armonia delle sfere celesti, e quella più segreta dell’animo umano e delle sue facoltà.
     La parte centrale del libro è dedicata alla Regola della Comunità e al noviziato, della durata di tre anni, che doveva essere effettuato per entrare a pieno titolo nell’Istituto essenico. Tale noviziato, suddiviso in due periodi, o per meglio dire in due gradi, doveva costituire, fra l’altro, una solenne prova di preparazione ad un momento essenziale nella vita della Comunità: la mensa comune. Benamozegh ne spiega l’importanza «alla luce del sentimento rabbinico», affermando che  la tavola è immagine dell’altare di Dio, figura della mensa dell’Eterno, ed i commensali vengono considerati i commensali di Dio. Si sottolinea a questo proposito quanto tale modo di sentire, ampiamente diffuso fra i talmudisti, i farisei ed i cabbalisti, dovesse esser fatto risalire all’antico Essenato, come pure vi si possano trovare elementi che sarebbero riaffiorati nell’ambito del pensiero e della liturgia cristiani. Canti ed inni risuonavano nel corso del banchetto: sempre, secondo la testimonianza di Filone, essi «coronavano le esseniche agapi con le lodi a Dio e con la memoria dei suoi benefici». Sedere a tavola con chi avesse costumi e sentimenti “impuri” ed eccedere nel cibo e nelle bevande era considerato un comportamento molto negativo: ecco il motivo per cui nei Vangeli vengono riportate le critiche di alcuni farisei al costume di Gesù di sedere a mensa con i pubblicani e con i malfattori. Era invece considerato e chiamato “libero” chi riusciva ad affrancare il suo spirito da ogni mondanità, dallo ol derekh eres (il giogo della via della terra), conseguendo una grande fortezza d’animo, tanto da poter affrontare anche le prove più dure, le sofferenze più atroci, come quelle che furono inflitte dai Romani a quegli Ebrei che si opponevano al loro dominio, fra i quali, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, vi erano numerosi esseni e farisei, accomunati dal desiderio di resistere ai soprusi degli invasori. 
    Il punto cruciale del noviziato, l’atto più solenne che il nuovo esseno, avvolto in candidi lini e chiamato “abitante del cielo”, era chiamato ad adempiere, dopo essersi spogliato di tutti i suoi beni, era il giuramento, la cui formula, conservataci per intero, costituisce un prezioso elemento che ci permette di individuare una piena e profonda corrispondenza tra Essenato e Fariseato. Ogni iniziato innanzitutto giurava di adorare e onorare Dio e di rivolgersi con giustizia e carità verso tutte le sue creature. L’amore di Dio, l’amore della virtù e l’amore degli uomini costituivano infatti il denominatore comune del cammino intrapreso, da cui scaturiva ogni principio morale. La seconda parte del giuramento consisteva nel solenne impegno di non fare del male a nessuno. Tale atto era fondato sull’orrore del nuocere, spinto sino al punto da vietare l’uso e la fabbricazione delle armi da guerra, per non fornire ad altri, nemmeno indirettamente, i mezzi di distruzione. Ci si impegnava poi al rispetto dei magistrati e delle autorità politiche e religiose, poiché si riteneva che il loro potere provenisse da Dio. Benamozegh  sottolinea come tale rispetto avesse antiche radici bibliche e fosse praticato anche nel Fariseato, mettendo al contempo in luce però che l’obbedienza non doveva essere cieca, «non gesuitica, non assoluta, non la teoria assurda, immorale, che annulla l’arbitrio, la responsabilità umana sotto il giogo macchinale inintelligente di un’autorità collettiva». Obbedienza, come dicevano gli antichi, usque ad aram, cioè fino al santuario della coscienza, tanto che, «ove il sommo magistrato della nazione imponga l’esecuzione di cosa che ostacoli direttamente i principi ricevuti, la rivolta, la disubbedienza, non solo è giusta e legittima, ma anche doverosa». Tale modo di sentire può spiegare bene come gli esseni, pur amando la nonviolenza, si opposero fieramente al dominio di Roma. Del resto sia essi che i farisei condannavano duramente quei superiori che esercitavano con arroganza e durezza il loro potere, mentre benedicevano coloro che governavano con mansuetudine e clemenza. L’amore della verità doveva ardere nel cuore di ogni nuovo adepto e doveva ispirarne ogni pensiero ed azione. Intenso era l’odio per la menzogna e per chiunque la praticasse  sia fra gli esseni sia tra i farisei, i quali  giunsero ad insegnare che «miswah le-farsem et ha-hanefim»,  cioè: «è una miswah denunciare gli ipocriti»(Yoma 86b). Si giurava infine di serbare le mani incontaminate da ogni illecito lucro.
     Sempre nell’ambito del giuramento una rilevante importanza era data dall’impegno di «nulla nascondere ai fratelli dei misteri della setta e di tacere di fronte agli estranei anche a costo della vita». L’insegnamento doveva essere autorizzato; i libri in cui esso era contenuto dovevano essere accuratamente conservati. Benamozegh qui fa notare come tali disposizioni fossero scrupolosamente osservate anche dai farisei come pure dai cabbalisti. Gli esseni volevano esatta e fedele la trasmissione delle loro dottrine: perciò imposero la fedeltà della trasmissione orale e la cura delle loro scritture. Si giurava anche, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, di «conservare il nome degli angeli», espressione che ha dato luogo a diverse interpretazioni. Secondo alcuni studiosi con il termine “angeli” venivano designati gli antichi autori dei libri impiegati per la formazione degli iniziati, mentre per altri si alluderebbe ad angeli veri e propri che, in una precisa gerarchia, avevano funzione di intermediari tra la Maestà divina e il mondo creato o che, come possiamo vedere nei cabbalisti, rappresentavano gli attributi di Dio e le sue emanazioni.
     Pagine interessanti sono dedicate alla comunione dei beni attuata nella Comunità (con una serie di riferimenti allo sviluppo che l’ideale di povertà aveva avuto nei diversi ambiti dell’ebraismo), e al celibato, praticato, come si è già detto, non da tutti gli esseni, ma comunque tenuto in grande onore e testimoniato anche da scrittori pagani, come Plinio il Vecchio. Anche su questo punto Benamozegh trova corrispondenza con il Fariseato, il quale «se non ebbe il celibato, certo ne conservò almeno lo spirito e lo applicò ai grandi momenti della vita religiosa».
     Sono poi esaminati due valori fondamentali dell’Istituto essenico: il lavoro e la contemplazione, considerati, insieme all’esercizio della carità, pilastri portanti di tutta la società. Qui Benamozegh dà una interpretazione particolare della parola Avodah, non intendendola solo riferita al culto divino, ma anche al lavoro umano, soprattutto quello agricolo, espletato dagli esseni con particolare abilità e competenza.
      Botanica e medicina furono pure egregiamente esercitate e la loro pratica si trasmise a molti illustri dottori farisei. Ma erano lo studio e la contemplazione ad occupare la parte più significativa della giornata. Più ci si inoltrava nella profondità della meditazione sulla Parola divina, più era necessaria una adeguata preparazione che permettesse di accadere ai sacri misteri. Si leggevano e si studiavano testi molto antichi, destinati esclusivamente agli adepti, che insegnavano ad accostarsi correttamente alle Sacre Scritture soprattutto attraverso un’esegesi fortemente allegorica. Tale esegesi, che tanto riuscì ad imporsi nel mondo antico, anche nell’ambito del cristianesimo, lasciò una traccia profonda nel pensiero religioso ebraico, sfociando naturalmente nel vasto mare della grande scuola  farisaico-cabbalista. Benamozegh ritiene che proprio gli esseni composero i primi testi sui «terribili misteri della Merkavah», confluiti poi nelle produzioni del pensiero cabbalista successivo. Secondo il nostro Autore, furono essi  i progenitori della simbologia cabbalista: il sole da loro adorato insieme alla luna e a tutti i pianeti  rappresentava la luce e lo splendore della divina Maestà, esattamente come lo  troviamo nelle speculazioni della Qabbalah e nelle rappresentazioni  di Cristo-Helios dei più antichi monumenti cristiani. Vengono pertanto confutate le accuse di idolatria che nel tempo erano state rivolte agli esseni, in particolare quella di adorare due fratelli, Elhai e Yesseus, e le loro due sorelle Marta e Martana. A questo proposito Benamozegh, avvalendosi anche di una serie di dati desunti dalle civiltà dell’Oriente antico, spiega come tutto ciò fosse da interpretare in senso simbolico e come tali personaggi, certamente non reali,  rappresentassero i principi che governano il mondo e le cause opposte che presiedono alle azioni umane. Siamo qui di fronte ad uno dei punti più significativi del libro, che mostra con chiarezza esemplare quanto gli sviluppi del pensiero cabbalista, in particolare nella speculazione avente per oggetto le Sefirot, siano da ricollegarsi strettamente alla teologia essenica, anche nella scelta di alcuni nomi (ad esempio lo Yesod della Qabbalah ricorda l’essenico Yesseus). Di estremo interesse è quanto Benamozegh afferma sulle conseguenze del culto delle due sorelle, che secondo la sua opinione, avrebbe avuto sbocco in una duplice direzione: da una parte infatti sarebbe confluito nelle speculazioni cabbalistiche, dando luogo, in seguito ad un’errata interpretazione, alla  particolare venerazione della donna di Shabbatai Zevi, l’ipotetico Messia del XVII sec., considerata l’incarnazione femminile di una delle divine emanazioni, dall’altra avrebbe contribuito in larga misura, nel cristianesimo antico, alla nascita del culto mariano.    
     La successiva parte del libro presenta un lungo excursus sull’antropologia degli esseni, investigando «quella parte che riguarda l’uomo, la sua natura, il suo destino, i suoi rapporti con Dio e con il mondo». Il problema che viene immediatamente affrontato consiste nel come conciliare la libertà dell’uomo e la potenza di Dio, l’arbitrio e la grazia, l’azione di Dio e la responsabilità umana. La posizione degli esseni, secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio, fu quella di riferire ogni atto al destino, differendo totalmente, su questo punto, sia dai farisei, che tendevano a conciliare tra loro la libertà dell’uomo e la potenza di Dio, sia dai sadducei, che attribuivano autonomia assoluta al libero arbitrio. Piuttosto il loro pensiero poteva rispecchiarsi nell’atteggiamento dei cabbalisti,  riscontrabile nell’affermazione dello Zohar che «tutto dipende dal Mazal, fosse anche la Legge di Dio deposta nell’Arca». Ma che cosa significa esattamente Mazal?  E come dobbiamo interpretare il termine “destino” quando leggiamo la testimonianza di Giuseppe Flavio sugli esseni? Benamozegh pensa  che entrambi i termini necessitino di un’esegesi più approfondita ed indichino una realtà ben più complessa e articolata di quanto si potrebbe credere a prima vista, sottolineando pure che la stessa etimologia della parola Mazal è connessa con la dottrina cabbalista delle emanazioni.
    Sempre nell’ambito dell’antropologia viene descritta la relazione dell’anima umana con il corpo, cui si unisce suo malgrado. Si potrebbe vedere qui un influsso platonico o pitagorico. Ma Platone offriva una visione negativa della vita terrena, non condivisa dagli esseni, né dai farisei né dai cabbalisti.
     Secondo Filone, esseni e cabbalisti ritenevano che le anime risiedessero nella Sefirah chiamata Yesod, detta anche rakia, designante non l’atmosfera, ma la matrice, il repositorio di tutte le anime umane, cioè l’anima universale. L’ordine morale e cosmologico si basava sul fatto che ogni cosa terrena era considerata copia, ombra, riflesso di un’idea  eternamente vivente e presente nella mente divina, nel mondo infinito del Logos endiàthetos filoniano. Questo Logos è la vera realtà, di cui le esistenze corporee sono «i rami estremi del grande albero della creazione, il quale ha le sue radici nell’intelletto divino, vero olam-ha-ba, vero paradiso, vera beatitudine».
     Anche sulla trasmigrazione delle anime e la resurrezione dei corpi si trovano collegamenti tra cabbalisti ed esseni. Benamozegh afferma che il dogma stesso della metempsicosi, diffuso tra di essi, «suppone quale suo ultimo corollario l’imminente, ultima e definitiva unione delle due nature… Gli esseni non potevano ricusare il fondo e il patrimonio comune all’ebraismo: l’idea di immortalità. Adamo, Enoch, Elia rapito in corpo e anima sono chiaro segno di questa suggestione».  «Inneni poteah et  kivrotekhem», «eccomi Io apro le vostre tombe», annunciava il profeta Ezechiele (Ez 37,12).
     Ancora per la testimonianza di Filone possiamo conoscere i principi basilari della fisica e dalla cosmogonia degli esseni, che consideravano l’acqua come principio del tutto, materia prima di ogni cosa. Benamozegh sottolinea come tale convinzione, peraltro professata dalla Scuola ionica di Talete di Mileto, si ricollegasse alla cosmologia mosaica e fosse stata condivisa dai cabbalisti e dai talmudisti, i quali arrivarono a far equivalere il vocabolo “acqua” all’idea filosofica  di “sostanza”, tanto che solo sotto questa luce può essere compreso il famoso detto di Rabbi Aqivah ai suoi discepoli: «Quando giungerete a contemplare le pietre marmoree purissime, non dite: acqua! acqua!».
     Filone può essere legittimamente  considerato un punto di raccordo tra esseni e cabbalisti. A questo proposito Benamozegh cita le opinioni di illustri studiosi, in particolare quelle del Nicolas, che afferma quanto segue: «Due filosofie molto simili mi sembrano uscite dall’essenismo: lo Gnosticismo e la Qabbalah… Si può ipotizzare che gli esseni che abbracciarono il cristianesimo se ne fecero una concezione conforme ai loro principi anteriori e fu lo Gnosticismo; e che quelli tra gli esseni che restarono ebrei continuarono le speculazioni della loro setta, e fu la Qabbalah».
     Negli ultimi capitoli del libro vengono descritte ulteriori caratteristiche dell’Essenato, a partire dal suo rapporto conflittuale con il Tempio di Gerusalemme, dovuto soprattutto al momento di crisi in cui versava in particolar modo nel I sec. a. c. il sacerdozio istituzionale, corrotto e asservito ai Romani; si descrivono poi ancora riti e feste, si sottolinea la pratica del silenzio, chiamato milat ha-lashon (circoncisione della lingua), visto come mezzo per dedicarsi alla meditazione, al pensiero di Dio. Attraverso il silenzio ci si concentrava sul grande interrogativo nel quale si risolve tutta la scienza dell’uomo: “Mi ;” (Chi?) e si percepiva la presenza divina. Come avrebbero sottolineato anche i cabbalisti e i farisei per cinque generazioni, c’è sempre stato un totale parallelismo tra il silenzio e la conoscenza estatica, intuitiva.
      Interessanti sono anche le indicazioni delle regole alimentari: sulla tavola degli esseni non mancavano mai il sale e l’issopo, che si accompagnavano al pane, generalmente azzimo. Il sale, proprio della più antica tradizione dell’ebraismo, era collegato all’Alleanza eterna; l’issopo, anch’esso di antica ascendenza biblica, richiamava il perdono di Dio e la perpetuità dei riti e delle leggi mosaiche. Qui Benamozegh afferma  che l’Eucaristia cristiana ci offre il più illustre ricordo dell’antico rito essenico.
     Si parla infine dell’ atteggiamento degli esseni nei confronti della vita politica, per la quale mostrarono interesse, in piena sintonia con i valori dell’ebraismo, e soprattutto si sottolinea, come è stato già detto, la loro netta opposizione al dominio romano fino al martirio, attraverso la testimonianza di Giuseppe Flavio: «Hanno affrontato il ferro e il fuoco, e visto spezzare le loro membra piuttosto che dire la minima parola contro il loro Legislatore, o mangiare carne che il Signore proibisce, senza versare una lacrima per tentare di addolcire la crudeltà dei loro carnefici».
    L’ultimo capitolo è dedicato a spiegare il silenzio della storia intorno agli esseni. Né il Talmud né i Vangeli hanno parlato di loro. Benamozegh pensa che gli autori dei Vangeli non li abbiano citati perché provavano stima nei loro confronti, mentre si scagliavano con durezza contro i farisei;  spiega poi il silenzio del Talmud con il fatto che gli esseni furono presto identificati con una delle Scuole menzionate dal Talmud stesso, in particolare con la parte più eletta dei farisei. Resta aperta comunque l’indagine sulla improvvisa scomparsa dell’Istituto essenico, che ancora nel III secolo era in pieno vigore. Benamozegh ricorda come anche la scuola teologica dei farisei, testimoniata dai più antichi libri del Rabbinato talmudico, sia quasi nello stesso tempo scomparsa dalle scritture rabbiniche. Ma la scomparsa fu solo apparente perché, come dall’antico Fariseato nacque la speculazione teologica talmudica, così dall’Essenato si svilupparono la filosofia alessandrina cristiana e la Qabbalah che pure nel loro netto contrapporsi, germogliarono dalla stessa comune radice.
      Da quanto è stato scritto e che costituisce soltanto un panorama assai parziale di un’opera tanto vasta, si può facilmente intuire che ci troviamo di fronte ad un testo di eccezionale valore. Benamozegh, oltre ad effondervi la sua cultura e le sue straordinarie intuizioni, ha mostrato in esso anche le sue non indifferenti qualità di scrittore capace di affrontare  argomenti estremamente complessi in modo sempre vivo e interessante, impiegando un linguaggio agile ma al tempo stesso incline ad accogliere l’eco dei più grandi autori italiani, come Dante e Machiavelli, di cui era un appassionato cultore. Soprattutto è riuscito a trasmettere un grandissimo entusiasmo per la ricerca, un amore per la verità che lo ha  portato ad andare avanti coraggiosamente fino in fondo, anche a costo di esprimere opinioni che certamente furono contrastate nell’epoca in cui visse e che ancora adesso potrebbero incontrare, soprattutto in alcuni ambienti integralisti, un’accoglienza tutt’altro che favorevole. Mi riferisco in particolare a quegli spunti di riflessione che egli ci offre quando compie nella sua acuta indagine una lettura alternativa di alcune pagine del Vangelo, o quando suggerisce nuove modalità esegetiche alla riflessione su alcuni dogmi cristiani, in particolare quelli della Trinità e del Verbo incarnato, sulla definizione di Cristo come Logos e sul fiorire e espandersi del culto mariano, oppure ancora quando, parlando della Alakhah, che ha la virtù di dispensare, una volta che sia divenuta abito permanente, dalla pratica dei doveri religiosi, afferma che solo alla sua luce è possibile comprendere l’atteggiamento di distacco di Gesù e di Paolo dalla Legge, in quanto «le dottrine cristiane ebbero origine dal centro esseno-cabbalistico, ove il cristianesimo imparò di buon’ora ad anteporre la scienza teosofica alla pratica dei precetti». Lo stesso concetto cristiano di “figli di Dio” in opposizione a quello di “schiavi della Legge”, presente negli scritti paolini, è di radice esseno-cabbalistica.
        Ma anche nell’ambito degli studi sulla spiritualità dell’ebraismo e in particolare sulla nascita della Qabbalah Benamozegh ha offerto un notevolissimo contributo. La sua Storia degli esseni  può essere considerata come vera e propria pietra angolare sulla quale si possono appoggiare le più recenti indagini sulla nascita e sullo sviluppo del pensiero cabbalistico. Nel Sefer Jesirah infatti, testo precabbalistico composto tra il II e il V secolo, troviamo elementi che possono riportarci al pensiero essenico soprattutto nella definizione delle Sefirot belimah, cioè i dieci numeri originari da cui è formato l’universo. Lo stesso Sefer Bahir, definito da Scholem il più antico testo cabbalistico che possediamo, in cui le dieci  Sefirot vengono descritte come le forze di Dio e come i suoi logoi, parole creatrici,  potrebbe affondare le sue più antiche radici nel retroterra essenico.
      Infine, un’ultima considerazione: la Storia degli esseni, al di là della sua importanza dal punto di vista scientifico, è capace di fornire molti spunti di riflessione a livello esistenziale validi ancora oggi, poiché ci propone valori fondamentali quali l’amore e la cura del prossimo, la scelta della nonviolenza, l’amore della verità, la libertà di coscienza, attualmente  ben lontani dall’essere veramente realizzati. Questi sono i doni che ci hanno lasciato gli “abitanti del cielo” prima di scomparire, almeno apparentemente, dalla storia come «quei fiumi che ad un tratto avallando e sprofondando nelle viscere della terra si aprono una via sotterranea per miglia non poche, onde erompere di nuovo alla superficie del globo e lo antico corso seguire alla luce del sole».
I  loro “grandi pensieri”, le loro “grandi dottrine” sono usciti salvi e illesi dal grande naufragio per riaffiorare nelle più alte elaborazioni del pensiero e della spiritualità dell’ebraismo e del cristianesimo.



PUBBLICATO IL : 23-12-2008

 

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