La filosofia di Martin Heidegger è un “sentiero ininterrotto”, un percorso continuo che approfondisce nel corso del tempo le sue istanze e i suoi assunti, che torna incessantemente ad assumere su di sé i propri presupposti cercando di ricavarne le implicazioni ultime, in un dialogo pensante con i filosofi del passato, ma sempre all’interno di quell’‘unico pensiero’ che muove il suo cammino, la questione dell’essere e del suo senso. Questa unità del pensiero heideggeriano è ciò che il libro di P. Vinci cerca di far emergere in tutta la sua multiforme complessità, non attraverso una ricostruzione storica, alla ricerca di una filiazione diretta delle diverse tematiche heideggeriane, ma ponendosi fin da subito nel cuore teorico del suo pensiero: la corrispondenza tra Esserci ed essere e la radicale ‘finitezza’ di entrambi che si palesa al fondo del loro necessario rapportarsi, in ciò che Heidegger definisce con il termine di Ereignis. Nel pensiero dell’Ereignis Heidegger condensa il suo originale ‘contributo’ alla filosofia, il tentativo inusitato di portare il pensiero dell’essere e dell’uomo al di là del terreno della metafisica, che vede la sua ultima propaggine nel dominio della tecnica moderna, in vista di un cambiamento epocale, di un ‘altro inizio’ del pensiero. La ‘svolta’ heideggeriana non è tuttavia un abbandono delle questioni poste della metafisica, ma semplicemente delle soluzioni che essa ha fornito nel corso della sua storia, che sono risultate insoddisfacenti in quanto non hanno saputo problematizzare fino in fondo il loro stesso porsi. Il movimento precipuo della filosofia di Heidegger consiste nel collocarsi nel centro propulsivo della storia della metafisica, che nella sua lettura non è altro che la storia dell’oblio dell’essere, cercando di far emergere l’impensato nel già pensato, di mostrare la necessaria ‘velatezza’ di ogni interpretazione dell’essere da parte dell’uomo, che il pensiero metafisico ha cercato di occultare e di coprire con surrogati di totalità. La tensione tra un pensiero metafisico, che ha l’ardire di spingersi fino al raggiungimento della completa ‘manifestatività’ dell’essere per mezzo del sapere, e un pensiero che si scopre sempre bisognoso, in quanto finito e mai capace di attingere la sua origine infinita, che al contempo lo realizza e lo annichilisce, è racchiusa, nell’interpretazione di Vinci, nella prossimità e lontananza rispetto alle figure di Hegel e di Hölderlin, dal cui interno può esser colto il senso proprio del progetto heideggeriano, il suo voler sancire un’uscita e al contempo un ‘passo indietro’ dalla metafisica.
Heidegger si confronta in diversi luoghi del suo pensiero con Hegel cercando di mostrare la decisiva distanza del suo punto di vista da una filosofia che egli interpreta come l’espressione più compiuta della metafisica oggettivante, di un pensiero che porta a compimento la riduzione dell’essere ad ‘oggetto’, nell’orizzonte di una dispiegata presenzialità, nella completa presenza dell’essere a sé secondo la forma del Sapere assoluto. Nel primo capitolo del suo lavoro Vinci analizza il luogo problematico dell’interpretazione heideggeriana di Hegel, la concezione dell’essere dell’Esserci come temporalità finita. Si mostra come l’intento della filosofia heideggeriana sin dall’analitica esistenziale di Essere e Tempo (1927), per arrivare alle considerazioni mature di Tempo ed essere (1962), si radica nello sforzo di esibire la ‘finitezza’ dell’essere propria dell’uomo e dell’essere stesso in quanto tale, sulla scorta di una corretta interpretazione della temporalità, e in primo luogo attraverso un decisivo confronto con Hegel. Il superamento dialettico di ogni alterità rappresenta, nella prospettiva di Heidegger, l’occultamento estremo della negatività propria dell’essere che giace al fondo della differenza ontologica e che un pensiero non-metafisico ha il compito di riattivare in tutta la sua portata. Ciò che la finitezza testimonia è l’impossibilità di un’illuminazione totale che è la diretta conseguenza della coappartenza reciproca di essere ed Esserci descritta dall’Ereignis. Il radicarsi dell’uomo nell’essere e il manifestarsi dell’essere nella relazione degli uomini alle cose, movimento simultaneo definito in termini di appropriazione-traspropriazione, sancisce l’impossibilità per la loro stessa costituzione, per il loro esser affetti da un’alterità originaria, di esser definiti secondo una stabile relazione.
L’impossibilità di attingere un fondamento ultimo – ‘fatto’ che muove la stessa ricerca metafisica, ma del quale essa resta esizialmente inconsapevole – di non poter raggiungere l’origine del proprio essere, di non poter ‘tornare a casa’, in quanto ci scopre costretti a muoversi in un’autonomia tragicamente eteronoma, segna il significato profondo della lettura che Heidegger compie della poesia di Hölderlin e che Vinci affronta nel secondo capitolo del suo lavoro. Nel confronto con il poeta viene mostrato un altro aspetto decisivo del pensiero heideggeriano: il costellarsi reciproco di essere ed Esserci come un accadere determinato che toglie ogni consistenza metafisica ai membri di questa relazione. Il poeta in Hölderlin si mostra determinato da un’alterità che non può in alcun modo determinare a sua volta, non può costruirsi alcuna consolazione filosofica, in quanto solo nella sopportazione dell’assenza del divino accade la parola poetica che rivela all’uomo la sua stessa essenza. In questa capacità hölderliniana di salvaguardare la presenza del divino nel suo stesso negarsi, Heidegger legge la possibilità di un pensiero non metafisico che non occulti la differenza ontologica, ma che sia in grado di uscire dall’orizzonte di un’autoreferenzialità del soggetto in direzione di un decisivo ritorno ‘alle cose stesse’.
È secondo questa linea interpretativa che Vinci nel terzo capitolo affronta il significato del confronto heideggeriano con la Fenomenologia di Husserl. Contrariamente al suo maestro, infatti, Heidegger pensava che un ritorno alle cose stesse fosse perseguibile abbandonando lo spazio proprio della coscienza, nel senso di una riattivazione radicale della domanda sull’essere degli enti. Infatti «Il completo annullamento e annichilimento delle cose è la conseguenza necessaria dell’assumere l’essere come totalmente dispiegato in un fondamento onnicomprensivo che coincide con l’uomo stesso, in quanto è il risultato del suo pensiero e del suo comportamento» (p. 103). Perché sia possibile un accesso diretto agli enti, alla loro riserva di senso, occorre innanzitutto uscire da un pensiero che vi si riferisce unicamente come ‘fondo’ (Bestand) a nostra disposizione, pensiero che caratterizza nello specifico la tecnica moderna e la totalizzazione della sveltezza propria dell’impianto (Gestell). L’essere è per Heidegger in primo luogo un sottrarsi e questo è ciò che va preservato in ogni incontro determinato con gli enti e che può permettere l’accesso al loro stesso significato. Attraverso la chiarificazione della nozione di Geviert, l’autore mostra come Heidegger ripensi l’esperienza dell’essere attraverso la maniera umana di rivolgersi alle cose, al di fuori della pretesa di un fondamento o una spiegazione ultima, bensì nella situazione emotiva fondamentale del ‘riserbo’ (Verhaltenheit) capace di avvertire e sopportare il sottrarsi dell’essere. Seguendo questi tratti essenziali il pensiero heideggeriano emerge, in questo lavoro, come una profonda esperienza del ‘negativo’. Heidegger scopre al fondo della metafisica occidentale, attraverso la decisiva illuminazione della poetica hölderliniana, la negativa relazione a sé come ciò che struttura tanto l’essere quanto l’Esserci, come la presenza sia nel suo proprio mancanza e la manifestazione nascondimento. La difficoltà del pensiero heideggeriano consiste nel mostrare come questo retroverso negativo che accompagna il fondamento, o la manifestazione dell’essere in quanto tale, e che la metafisica occulta, non sia un errore umano, ma una necessità immanente all’essere stesso, la sua precipua finitezza. Il pensiero non metafisico che Heidegger ricerca deve poter dunque risalire all’essenza stessa dell’essere, compiere un ‘passo indietro’ rispetto alla sua manifestazione sempre parziale, mai definitiva, e cogliere, senza poter svelare, la necessità della sua finitezza. Questo pensiero è ciò che Heidegger definisce ‘pensiero rammemorante’ (Andenken) che nell’interpretazione di Vinci «non è povero o debole, bensì forte abbastanza da sopportare lo spaesamento legato allo sfondamento di qualsiasi certezza ultima e definitiva» (p. 126). Lo sfondarsi del fondamento descrive nella prospettiva heideggeriana la possibilità per l’uomo del radicamento in un’‘etica originaria’, vale a dire la possibilità di un diverso soggiornare o ‘abitare’ nel mondo attraverso la rinuncia al dominio sugli enti e alla trasparenza su se stessi, scoprendosi, sulla scorta del pensiero dell’Ereignis, sempre necessitati dall’alterità.
La frantumazione heideggeriana dell’idea tradizionale di soggettività viene approfondita nel quarto capitolo in cui vengono mese in discussione le tesi di Heidegger con le categorie fondamentali della psicoanalisi. In Heidegger l’ipseità non viene più interpretata come autocoincidenza e stabilità, tuttavia la sua critica alla soggettività si estende al contempo alla stessa idea di soggetto freudiano, interpretata come una concezione «ancora ‘sostanzialistica’, nel quale l’inconscio svolgerebbe il ruolo di dato irriducibile, di termine ultimo d’indagine» (p. 154), e al cui fondamento vige un progetto scientista, vale a dire l’intenzione di illuminare grazie alla scienza, grazie alla spiegazione secondo nessi causali rigorosi, ciò che a ogni individuo è precluso, l’accesso al fondo del proprio essere, la sua totale autocomprensione. Nella critica heideggeriana alla psicoanalisi, contenuta nei Seminari di Zollikon, frutto del suo pensiero maturo, Heidegger ripropone in diversa forma la stessa critica all’ontologia tradizionale sulla base dell’autocomprensione dell’essere dell’Esserci che aveva caratterizzato i primi passi della sua ricerca in Essere e Tempo.
Se l’altro inizio del pensiero deve paradossalmente radicarsi nell’impossibilità di costituirsi a principio esplicativo ultimo, in un’assoluta autoreferenzialità, Vinci, secondo un significativo movimento circolare, torna nel quinto ed ultimo capitolo ad un confronto, questa volta puramente teoretico, della filosofia di Hegel con il pensiero heideggeriano. Proprio nel Sapere assoluto hegeliano, che Heidegger aveva additato quale ultima deriva della metafisica della semplice presenza, è contenuta, a detta di Vinci, quel necessario riferimento all’alterità, quella non chiusura del pensiero su di sé, al cui sviluppo la stessa filosofia heideggeriana intende ‘preparare’ «L’assoluto, proprio in quanto soggetto e spirito, non può restare a casa propria, ed è intrinsecamente necessitato alla sua alienazione […] L’assoluto hegeliano rappresenta quindi la destituzione di qualsivoglia forma di assolutezza chiusa in se stessa […] [in Hegel] il momento conclusivo, pur avendo i connotati del sapere, è appunto conclusivo per la raggiunta consapevolezza di non essere più solo pensiero, ma la contemporaneità di se stesso e dell’altro» (pp. 181-182). Questa relazione virtuosa tra pensiero e realtà è visibile, per ciò che riguarda Hegel, nel modo più chiaro all’interno della sua concezione estetica. Ciò che in particolar modo la critica all’ironia romantica rivela, nella sua incapacità di uscire dal proprio narcisismo, di riconoscersi nell’altro, è la messa in questione, in Hegel, del rapporto tra concetto e apparenza empirica, in cui il secondo termine non può essere annullato dal primo. La struttura del pensiero hegeliano è per Vinci quella di un «sapere che ha la conformazione epistemica dell’esperienza: un movimento circolare in grado di risalire dai fenomeni a se stesso, mantenendo la consapevolezza dell’impossibilità di recidere i legami con esso» (p. 192). La lettura heideggeriana di Hegel, la concezione dell’assoluto come ‘esperienza’ scopre indirettamente, e potremmo dire suo malgrado, il luogo decisivo stesso della filosofia hegeliana, seguendo il quale non è possibile chiuderla nell’orizzonte interpretativo del semplice autoriferimento del pensiero. Il pensiero in Hegel si mostra intrinsecamente riferito alla realtà e solo in tale relazione esso può mostrarsi come assoluto.
Il libro di P. Vinci sembra così avere lo scopo ultimo di mostrare, attraverso la problematizzazione del senso dell’essere come esperienza, la capacità della filosofia heideggeriana, forse la più influente del secolo scorso, di saper parlare oltre la modernità, la capacità di radicarsi al suo interno per mostrare il principio del suo superamento. Tutta la filosofia heideggeriana assume così il senso di un pensiero preparatorio in quanto «innalzandosi a livello del senso metafisico profondo della modernità la intende come un “invio destinale” e non come una condizione ormai definitiva […] Il discorso heideggeriano sulla verità vuole soprattutto prospettarci un fondamento capace di autodestituirsi, vuole dirci che ciò che è in grado di illuminare l’orizzonte di un’intera epoca non è la conquista di una dimensione definitiva e a sé stante» (pp. 198-199). Il pensiero della ‘finitezza’ non vuole così essere uno scacco della filosofia, un suo arretramento, ma una critica storico-filosofica del moderno in grado di cogliere il significato e i limiti del suo imporsi. L’uomo e l’essere trovano il loro senso nello spazio aperto della loro relazione reciproca, e di questa originaria apertura la filosofia deve farsi carico. Come il libro di Vinci testimonia, questo è il compito che Heidegger assegna alla sua filosofia e, al di là dei suoi approdi e delle sue derive, è da questo compito che ogni sua lettura dovrebbe trarre inizio. |