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Marcello Mustè, La filosofia dell’idealismo italiano , Carocci, 2008
di Stefania Pietroforte

Marcello Mustè è autore ben noto agli studiosi di filosofia italiana. Molti suoi scritti, in forma di saggio, di monografia o di articolo, dedicati per esempio a Omodeo, Croce, Gioberti, si sono distinti come lavori intelligenti e accurati di ricostruzione storiografica e di penetrazione concettuale dei temi volta a volta prescelti. Ora questo studioso, la cui valentìa non ha bisogno quindi di ulteriori riprove, ci propone un diverso studio, che ha ad oggetto la vicenda dell’idealismo italiano, cioè quel crogiuolo di dottrine e concetti che presero forma nella riflessione filosofica di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile e dalle loro opere si trasmisero ad altri importanti pensatori, spesso classificati, in modo semplificato e forse anche superficiale, come loro “seguaci”.
Per eccesso di modestia, Mustè avverte nella Prefazione che il suo studio, «cercando di descrivere il percorso ideale di una tradizione, di enuclearne i concetti-chiave e le principali aporie, intende essere soltanto un contributo, un prolegomeno, se così posso dire, per una storia possibile e non ancora scritta» (p. 9). Per scrivere quella storia, cioè la puntuale ricostruzione di opere e correnti, di influenze e fonti e della relazione che una esperienza culturale ha intrattenuto con l’epoca in cui è sorta, occorrerebbe, dice Mustè, una più approfondita conoscenza di documenti e ci sarebbe bisogno «di una superiore chiarezza d’idee, di un’intuizione di fondo e più penetrante sulla parabola e sul destino di tale vicenda teorica, che ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, tanta parte della filosofia europea» (p. 9). E’ vero che la materia proposta in La filosofia dell’idealismo italiano è davvero complessa e che tanti sono i problemi che essa sottopone al lettore sicché, per questo aspetto, la modestia non è mai troppa. E’ anche vero, però, che il saggio di Mustè non persegue affatto un “profilo basso” né lo si potrebbe dire sguarnito di una idea-guida e il lettore ne è subito avvertito quando, immediatamente dopo questa preliminare captatio benevolentiae, trova indicato il nucleo teoretico attorno al quale, secondo l’Autore, si dipana l’idealismo italiano, cioè da una parte il concetto di idealismo formulato da Hegel nella Scienza della logica e racchiuso nella proposizione “il finito è ideale” e dall’altra l’affermazione, sempre hegeliana, secondo la quale “la filosofia è essenzialmente idealismo”. Il primo concetto viene subito spiegato da Mustè come il riconoscimento, che Hegel aveva richiesto, che il finito fondesse la sua idealità con quella dell’infinito «che lo trattiene in sé, così che la realtà, nella sua struttura totale, si configurasse secondo l’accordo del togliersi (della Aufhebung) e del divenire, insomma come dialettica» (p. 10); della seconda affermazione Mustè precisa che non è da intendersi come dogmatica delegittimazione del realismo, quanto come osservazione intenzionata a «indicare l’orizzonte “aperto” della filosofia, il suo problema, all’interno del quale il pluralismo può dispiegarsi e anche le posizioni non-idealiste, rese consapevoli del loro limite, possono acquistare una luce di verità» (p. 10). Fissate queste premesse, Mustè prosegue annunciando il filo rosso della sua trattazione: «Gli autori dell’idealismo italiano, a partire da Croce e Gentile (e senza dimenticare la lunga preparazione dello hegelismo ottocentesco), hanno assunto in pieno questo orizzonte, che Hegel aveva delineato: un orizzonte, come si è detto, segnato dalla tesi dell’idealità del finito e da quella della sostanziale coincidenza tra idealismo e filosofia. Per quanto Kant o Vico, Cartesio o Spinoza o Fichte siano entrati nel laboratorio di questi pensatori, il problema hegeliano è rimasto, dall’inizio alla fine, il cuore pulsante della loro meditazione» (p. 10). In altre parole, secondo Mustè l’idealismo italiano si collega direttamente a quei due asserti della filosofia hegeliana. Se questo collegamento con l’orizzonte hegeliano è senz’altro il primo elemento caratterizzante della filosofia di Croce e Gentile, il secondo è da ravvisarsi, invece, nel modo in cui quel nesso con la filosofia di Hegel è stato stabilito dagli idealisti italiani, ovvero in quella crisi che, spiega Mustè, è stata il segno sotto cui si è disposta l’analisi e lo sviluppo dei concetti hegeliani: «quel problema è stato vissuto nel segno della crisi e non della quieta accettazione; o, meglio, nel segno della crisi della forma sistematica in cui Hegel lo aveva ricondotto. I grandi motivi del sistema hegeliano, dalla distinzione tra fenomenologia e logica alla deduzione del Dasein dall’indeterminato, vennero, fin dall’inizio, analizzati e respinti. Per quanto possa apparire paradossale, la storia dell’idealismo italiano è soprattutto la storia di una crisi, di una lenta consumazione dell’idealismo stesso, e, con esso, della filosofia» (p. 10). Insomma, se è caratteristico dell’idealismo italiano di aver preso le mosse da alcuni aspetti specifici della riflessione di Hegel, è altrettanto proprio di esso aver stabilito con Hegel un nesso molto problematico, al punto che esso viene definito da Mustè come crisi, cioè come spaccatura della forma sistematica che la filosofia aveva assunto.
A ben guardare, però, in questa definizione c’è di più: la crisi non è solo critica del sistema e della sua tenuta, ma è critica del sistema in quanto è critica degli asserti sui quali quella struttura si erge. Insomma, la critica del sistema non significa, nel caso dell’idealismo italiano, la messa in salvo di altre “parti” della filosofia hegeliana; significa, invece, penetrazione dei principi fondamentali di essa per rivisitarne il senso, per comprenderne la valenza, operazione, questa, eseguita ripetutamente e con il risultato, comunque, di avere ogni volta portato fuori da quel travaglio materia concettuale pensata in maniera più approfondita, più disincantata, ma anche suscettibile infine di un precario equilibrio, fortemente adombrata di aporeticità. Tutto questo è ancora sufficiente, però, a spiegare, sia pure in modo assai abbreviato, quanto Mustè sembra voler dire. Egli mostra l’intenzione di prendere su di sé un carico di responsabilità molto alto quando, chiarito che stare sotto il segno della crisi significa aver dato vita a uno specifico processo elaborativo che nulla vuole lasciare impregiudicato, afferma che crisi significa «consumazione» dell’idealismo e, insieme, della filosofia. In queste battute egli si presenta non più soltanto come uno storico che ricostruisce il quadro d’insieme dell’idealismo italiano, ma come un filosofo che, facendo sua una particolare tesi, quella del coincidere di filosofia e idealismo, la svolge nel senso di rilevare una «consumazione» dell’idealismo e quindi della filosofia. Di questa «consumazione» l’idealismo italiano sarebbe per l’appunto il luogo specifico. Viene allora da chiedere: perché il consumarsi dell’idealismo (ammesso che sia questo che avviene nella filosofia idealistica italiana) sarebbe il consumarsi della filosofia tout court? E, più in generale, che vuol dire che una filosofia «si consuma»? Si osservi, inoltre, come Mustè sembra aver fatto suo il motto hegeliano dell’identità di filosofia e idealismo: «se l’idealismo non indica una “soluzione” per la filosofia -dice sempre nella Prefazione - è pur sempre capace di determinarne la “situazione problematica”. Indica la questione che si deve affrontare e i limiti dentro cui la si può affrontare. Indica, se si vuole, un’aporia, forse destinata a restare sempre aperta. Ma cos’altro può essere la filosofia se non questo, un problema sempre aperto e vivo?» (p. 11). In queste parole l’idealismo non sembra davvero «consumato» né, con esso, la filosofia. Se le sue risposte sono state insufficienti e, indagate meglio, si sono scoperte insostenibili, è pur vero che l’idealismo resta, agli occhi di Mustè, capace di definire il problema filosofico, cioè  capace di delineare il motivo propulsore del filosofare stesso e questo, ben lungi dall’essere la consumazione della filosofia, è la sua posizione. Perché allora parlare di «consumazione» della filosofia? Perché, se l’altro aspetto dell’idealismo, cioè l’affermazione dell’idealità del finito, dovrà essere a questo punto, se abbiamo ben capito cosa intende dire l’Autore, l’orizzonte nel quale rifluiscono o a partire dal quale si definiscono le domande principali della filosofia, se dovrà essere, cioè, esso il vero punto di gravitazione del domandare filosofico?
  Mentre la Prefazione ci affida questo denso nucleo concettuale, il corpo del volume è costituito per metà dall’esposizione e dall’esame delle filosofie di Croce e Gentile, e per metà da quelle di pensatori che, postisi sul loro stesso solco e da essi prendendo le mosse, svolsero, talvolta fino a conseguenze estreme, alcuni concetti fondamentali di esse facendone una critica partecipe e spietata allo stesso tempo. Così Fazio-Allmayer, De Ruggiero, Carlini, Saitta, Spirito, Calogero, Antoni, Scaravelli, De Negri, De Martino, Cantimori, Garin, furono la coda di una cometa luminosissima, non nel senso che furono frammenti di un nucleo più importante, ma nel senso che di quel nucleo seppero accendere gli elementi portanti investendoli di una luce diversa e facendoli brillare di colori variegati. Accomunati da un atteggiamento critico assolutamente coincidente con l’esercizio filosofico, la loro opera arricchì anche ambiti diversi, come quello della riflessione politica o antropologica o religiosa o storiografica, ma fu insieme un lavorìo costante di messa a fuoco dei punti deboli del pensiero di Croce o di quello di Gentile, un cimento instancabile nel quale si ricercava lucidità e rigore. Tutto questo emerge con chiarezza dalla trattazione che ne fa Mustè, che fornisce una spiegazione sempre nitida e mai superficiale dell’opera di pensatori molto diversi tra di loro: diversi per interessi, per sensibilità, per una creatività più dispiegata o più contratta dalle esigenze di un pensiero eccezionalmente esigente, uniti però dal riferimento alla tematica filosofica che Croce e Gentile avevano definito e posto al centro dell’attenzione di tutti fin dall’inizio del XX secolo.
Se quindi le pagine riservate ai personaggi di quella stagione sono interessanti perché, nel riesporre con presa profonda le idee che li impegnarono, ci danno un quadro della ricchezza della filosofia italiana dell’epoca e della qualità indiscutibile che essa aveva raggiunto, tuttavia sono senz’altro i capitoli dedicati a Croce e Gentile a costituire il fulcro del saggio di Mustè, l’asse a partire dal quale tutto il resto si svolge. In questo senso, il luogo comune che vuole Croce e Gentile dominatori della scena e svettanti al di sopra degli altri viene ripreso e ripetuto, ma la valenza che assume è ben diversa da quella che troviamo nelle stanche polemiche che li vogliono “dittatori” della filosofia. Guardato nel suo vero contesto, che è quello della elaborazione concettuale, quel luogo comune mostra un volto diverso da quello di una insopportabile tirannia e ha invece a che fare con il valore, cioè con la novità filosofica che essi rappresentarono proprio in quanto seppero pensare originalmente, novità che dava espressione a esigenze profonde e che dal mondo filosofico italiano venne accolta e riconosciuta come importante anche quando vi si polemizzava. E’ chiaro, allora, che senza nulla togliere agli altri, è decisivo il giudizio dell’Autore proprio riguardo alle filosofie di Croce e di Gentile. E’ soprattutto in questa valutazione che si trova la chiave di volta dell’intero volume e il senso del suo essere una trattazione unitaria. Il luogo più adatto per capire quale sia questo giudizio è il capitolo “Unità dello spirito e realtà delle distinzioni”, breve ma densa sezione del più ampio capitolo intitolato “Le ragioni di un contrasto”.
Qui Mustè cerca di chiarire in cosa consista il contrasto filosofico tra Croce e Gentile e, nel farlo, illumina le rispettive posizioni della loro valenza più propria. Tre sono le questioni, strettamente legate, in cui, spiega Mustè, il contrasto si raccoglie: 1) il problema della realtà delle forme distinte dello spirito rispetto all’unità; 2) l’idea di natura e quindi lo statuto delle scienze empiriche; 3) la concezione dell’errore e del male, ovvero la diversa concezione del non-essere. Questi punti dirimenti avevano direttamente a che fare con il modo in cui ciascuno dei due filosofi aveva fatto proprio il lascito hegeliano, ovvero ne aveva accolto o rifiutato istanze e soluzioni. E’ l’Autore stesso a dire che «non è difficile intendere come, nella sequenza concettuale che questi tre nodi delineavano, si riaprisse il problema che riposava al fondo dell’idealismo moderno, e che entrambi, Croce e Gentile, avevano incontrato nella critica a Hegel. Si riaprivano le questioni che la filosofia hegeliana aveva lasciate oscure e irrisolte, e che ruotavano attorno al difficile rapporto tra fenomenologia e logica e, dunque, a quell’autentico groviglio concettuale che è la prima triade della Scienza della logica, che già aveva impegnato, in Italia, la meditazione di Bertrando Spaventa: triade nella quale, precipitando il percorso fenomenologico della coscienza nell’immediatezza del cominciamento assoluto, del puro essere, questo doveva mostrarsi come nulla, e così accendere la miccia del divenire e, infine, della determinazione categoriale. Nel passaggio hegeliano al Dasein, all’Esserci, erano strette quelle aporie che ora, circa un secolo dopo, tornavano a impegnare la riflessione dell’idealismo: aporie che, tuttavia, si mantenevano all’interno di una struttura comune, condivisa tanto da Croce quanto da Gentile, per cui il non-essere era concepito come “superato” e risolto nella positività del valore, come ciò che è inattuale nell’attualità e nella concretezza della sintesi originaria, che lo stringe a sé e lo pone in quella sua alterità. Questo era, possiamo dire, lo “spazio comune” dell’idealismo, all’interno del quale la divergenza, e anche la polemica, potevano dispiegarsi. Che fosse concepito come l’astratto, posto e in sé risolto dal logo concreto, oppure come la forma decaduta a materia di una forma ulteriore, il negativo restava un termine incluso nella sintesi originaria; un momento interno della realtà positiva – del valore, della forma, dello spirito – e insussistente fuori di essa» (pp. 92-93).
Dunque il nucleo di problemi che si raccolgono nel cominciamento della Scienza della logica, il rapporto dell’essere col non-essere e il passaggio all’esserci, è il punto di riferimento rispetto al quale si possono capire in maniera più illuminata non solo il rapporto dei due filosofi italiani con Hegel ma anche le loro rispettive differenze. Infatti, Croce era convinto che l’unità dello spirito fosse «cooriginaria, e strutturalmente identica, al ritmo del proprio distinguersi nelle categorie fondamentali della realtà» (p. 93). Egli negava, in questo modo, ogni riconoscimento al problema che Hegel aveva messo a fuoco come quello del rapporto tra essere indeterminato e nulla. Per Gentile, al contrario, proprio questo era problema centrale della riflessione filosofica e, per di più, nella sua elaborazione, era caratterizzato dal fatto che il passaggio al Dasein non fosse inteso come altrettanto importante; per Gentile, cioè, era l’affermazione del logo concreto, del pensare, ciò che costituiva il momento davvero significativo dell’indagine filosofica e in questo non c’era posto per la distinzione così come l’aveva ragionata Hegel col Dasein né come l’aveva pensata Croce come sistema dei distinti. Guardate da questo punto di osservazione, le due filosofie non erano l’una l’altra faccia dell’altra, ma due prospettive molto diverse: quella di Croce pensava l’essere come sistema di distinzioni eterne, quella di Gentile lo pensava come essere-non essere e quest’ultima “differenza” non era affatto accostabile alla differenza dei distinti della Filosofia dello spirito. Le differenze di cui parlava Croce erano per Gentile errore. Da quest’ultimo l’essere veniva concepito, pure con tutte le difficoltà che ciò comportava, come immune dalle determinazioni, mentre proprio queste erano per Croce la sostanza vera dell’essere. Per Croce l’essere non fu mai identico al pensiero, la logica non fu mai confusa con l’estetica né, tanto meno, con le categorie della volontà. Per Gentile, che l’essere fosse pensiero, assoluta indistinzione dei due, fu motivo fondamentale della su teoresi. La differenza era inestirpabile dalla filosofia di Croce tanto quanto era spuria o, come si è accennato, sui generis per quella di Gentile. La Scienza della logica aveva fissato con forte energia dialettica, ma anche con enorme strascico aporetico, nella cosiddetta prima triade, l’essenziale nesso dell’essere con il nulla e di entrambi con l’esserci determinato. Si potrebbe dire che di questo nodo, per altro non ben legato, Gentile avesse fatto suo il filo dell’essere-nulla, mentre Croce, convinto che l’essere fosse essenzialmente distinzione, alla questione del rapporto essere-nulla non riconosceva affatto la stessa valenza che le riconosceva Gentile e riteneva che dovesse essere ragionata nell’ambito della determinatezza stessa dove, però, assumeva tutt’altro significato e dove, precisamente, il nulla di un distinto si identificava con l’essere di un altro distinto.
A questo, che era il primo punto del contrasto tra i due filosofi, si connetteva intrinsecamente il terzo punto, quello riguardante l’errore. Mustè stesso lo dice: «Era qui, in effetti, che il nodo dell’unità e della distinzione doveva essere messo alla prova» (p. 94). E fu messo alla prova, con la differenza che per Gentile errore fu, sia negli scritti del primo attualismo che nel Sistema di logica, ciò che di per sé è irreale e insussistente, mentre per Croce esso aveva fondamento ontologico nel differenziarsi dialettico delle forme spirituali. Il divario tra le due posizioni era assai rilevante. Era precisamente quella differenza alla quale faceva riferimento il primo punto che qui, nel tema dell’errore, si rendeva perspicua, cioè è qui che quel diverso modo di concepire l’essere si mostrava come un diverso modo di concepire il rapporto dell’essere col non-essere e, dunque, un diverso modo di pensare la valenza autofondativa e fondativa dell’essere. L’errore era il punto teoretico in cui il nodo dell’unità e della distinzione veniva messo alla prova nel senso che la giustificazione che Croce da una parte e Gentile dall’altra diedero dell’errore erano, insieme, argomentazione di come l’essere articolasse il proprio movimento autofondativo. L’errore era elemento essenziale della mediazione. La mediazione era, però, per ciascuno dei due filosofi, strutturarsi dell’essere come distinti o unità dei distinti (Croce) o invece come rapporto con il non essere (Gentile). Nel primo caso l’ambito dell’errore non era affatto diverso da quello dell’essere; nel secondo, invece, l’errore coincideva con il non essere e la rottura dell’assetto ontologico era minaccia costante, strutturale. In questo quadro, lo «spazio comune» dell’idealismo appare allora come un’idea piuttosto problematica e non basta dire che, «fosse concepito come l’astratto, posto e in sé risolto dal logo concreto, oppure come la forma decaduta a materia di una forma ulteriore, il negativo restava un termine incluso nella sintesi originaria; un momento interno della realtà positiva – del valore, della forma, dello spirito – e insussistente fuori di essa». Non basta, a giustificare questa inclusione nella sintesi originaria, affermare che nel Sistema di logica l’errore si configura come lo scambio dell’astratto con il concreto. Sia pure che nel Sistema di logica Gentile dà conto del fatto che assumere il logo astratto come logo tout court sia errore. Questo scambio però implica una radice più profonda dell’errore che non coincide con lo scambio stesso e che invece è da esso presupposta. Tale radice è quello su cui egli torna a insistere proprio nei primi capitoli della logica del concreto quando, dopo aver a lungo spiegato come la logica dell’astratto debba essere ricondotta a quella del concreto, riprende la questione dell’immediatezza. E’ questo il vero spettro che si agita ora, in questa parte tanto delicata del Sistema, davanti agli occhi di Gentile. Qui non si tratta più di dimostrare che il pensare non presuppone nulla, mentre il pensato presuppone il pensare, per cui, chi non avverta la necessità di questo “passaggio”, scambia l’astratto per il concreto, perché il solo che esista è il pensare. Si tratta, invece, di capire bene in che senso e perché, malgrado quanto Gentile ha fin qui spiegato riguardo al logo astratto, pure del pensato non si possa fare a meno.
La logica, avverte Gentile, ha inizio quando la natura si idealizza: «l’oggetto del pensiero, se non è natura inattingibile al pensiero, ma natura luminosa, intelligibile, è lo stesso soggetto del pensiero». Il pensare non è estraneo al pensato, ma neppure si confonde con esso, «anzi tutta la logica dell’effettivo pensiero si regge sulla distinzione di pensato e pensare». Ma questa distinzione in che consiste? Gentile spiega, subito dopo, che Io=Io è la concretezza di A=A e che questa è cosa da intendersi non superficialmente e, precisamente, bisogna intendere che A=A, nella sua astrattezza, resterebbe inintelligibile come relazione immediata. Anzi, a voler chiamare le cose con il loro nome, «relazione che esista immediatamente, non c’è», ciò che davvero è reale è solo la mediazione. Ma «mediazione, è, per dir così, se stessa e il suo opposto: mediazione e immediatezza … Il soggetto è se stesso … a patto di essere anche altro: soggetto in quanto oggetto. Sicché la sua mediazione termina nell’immediatezza dell’oggetto onde esso si media». Gentile affronta il punto cruciale della sua riflessione: se è vero che il logo astratto deve ridursi a concreto, è altrettanto vero che il concreto, se non vuole cadere nell’immediatezza, che per Gentile significa nella scepsi, deve toglierla facendo in qualche modo riferimento ad essa. Insomma, se non si potesse mediare con altro da sé, il logo concreto sarebbe esso stesso immediato. E’ evidente che, nello svolgere il suo ragionamento, Gentile accetta la prospettiva di Hegel, ovvero la necessità della mediazione che, proprio nella prima triade della Scienza della logica, Hegel vedeva imprescindibilmente misurarsi con l’immediato. A differenza di Hegel, però, egli non chiama in causa la determinatezza per svolgere il problema: nel ragionamento gentiliano la determinatezza né entra a rendere articolabile il rapporto di immediato e mediazione né ne scaturisce come effetto. Se teniamo ben fermo a questa osservazione, ci accorgiamo allora che il logo astratto, figura dell’incontro del logo concreto con l’immediato, non è più di questo “incontro” stesso e della sua possibilità. In altre parole, il logo astratto non è qualcosa di più che, da una parte, logo e logo tout court (come tutto il primo volume del Sistema ha dimostrato), e, dall’altra, qualcosa che, avendo a che fare con l’immediato, chiama in causa l’impensabile. Nel logo astratto, infatti, il logo concreto entra a vele spiegate e dissolve la logica dell’astratto come presunzione di essere essa la logica; ma proprio così facendo esso fa crollare un paravento, assorbe e riconosce come logo ciò che nel logo astratto è tale (cioè tutto) e si trova a dover fare i conti, se non vuole restare esso stesso pura immediatezza, con l’altro da sé, cioè con il “non” del pensiero, con l’impensabile. Per quanto gravi siano le difficoltà concettuali che pervadono il ragionamento di Gentile, non possiamo però non  apprezzare quanto egli in questo modo ha tentato di pensare: la ripresa del problema hegeliano della mediazione, approfondito, però, e liberato da un elemento inquinante (la determinatezza) e portato a considerazione in una maggiore essenzialità e purezza. Questo ripensamento e riformulazione mostra i poli tra i quali si cerca di navigare: il sollevarsi del pensiero dall’essere naturale e il suo essere destinato a sottrarsi da esso, l’immediato e la mediazione, l’astratto e il concreto. Il primo di questi poli – immediato, astratto, natura – è in posizione difficile altrettanto quanto lo è il secondo. E se Gentile ribadisce il dominio del logo affermando che il pensare nega l’astratto «immedesimandolo» con sé, non può esimersi allo stesso tempo di osservare come questa immedesimazione sia impossibile perché, per negare quel «niente», «dovremmo ridurci anche noi allo stato assolutamente naturale e chiuderci in un certo essere, come il suo, affatto immutabile; e cioè dovremmo rinunziare del tutto a pensare, che è mutare, passare da un’idea all’altra». Insomma, in questo importante brano del Sistema di logica, l’immediato ha a che fare con l’impensabilità, con il non-essere, e l’errore, allora, non è da vedersi tanto nello scambio tra astratto e concreto, quanto in questa radice profonda dell’astratto privo di intelligibilità, non diverso perciò dall’astratto dell’Atto del pensare come atto puro. Gentile sembra aver delineato una impensabilità diversa da quella che Hegel tratta come il nulla della prima triade della Scienza della logica e che è a rischio di essere ridotta al rapporto determinato-indeterminatezza. L’immediatezza, l’astratto che Gentile ha concepito, non si profila come un residuo ontologico o ontologizzabile; non è residuale. Per cui, come che sia di questa situazione, non pare si possa dire che l’errore sia implicito all’ambito veritativo, l’astratto al concreto, con ciò intendendosi che la radice dell’errore sia comunque da inscriversi nell’essere. E’ nell’esigenza più profonda del pensiero di Gentile che l’astratto – e non il logo astratto – non sia davvero del tutto immedesimabile col pensare concreto, senza di ché quest’ultimo non potrebbe mai essere ciò che pretende. Diversa è, naturalmente, la questione se Gentile sia davvero riuscito a mettere in ordine e a sviscerare fino in fondo questo problema. Non c’è dubbio, però, che egli abbia compiuto un lavoro di scavo assai importante e penetrante che, rispetto a Hegel, libera la questione dall’ambiguità portandoci in presenza di un non essere più difficilmente sintetizzabile o riducibile. Guardato alla luce di questa considerazione, il nucleo profondo dell’attualismo si propone come un affondo nella questione della prima triade hegeliana che Gentile attraversa senza timori ma con forte consapevolezza delle difficoltà. Proprio di fronte a questa difficoltà egli ci accompagna e ci lascia.
Se riflettiamo, allora, su quanto detto e vi aggiungiamo che la dottrina dell’errore messa a punto da Croce consiste nella teoria dell’origine pratica dell’errore logico, della quale Mustè ha ben detto che contiene l’indicazione di un fondamento ontologico dell’errore nella realtà delle forme spirituali, ci rendiamo conto della differenza che intercorre tra le due filosofie perché esse, nell’indagare questo tema, mettono in luce come l’idea dell’essere sia davvero diversa nell’una e nell’altra.
Si potrebbe ancora affrontare il terzo punto del disaccordo di Croce e Gentile, quello relativo alle scienze naturali. Ma mentre richiederebbe di diffondersi in discorsi che riguardano la storia delle idee per le tante polemiche che a tal proposito sono state sollevate, dal punto di vista del ragionamento filosofico sarebbe sufficiente rilevarne onestamente la scaturigine nel nucleo argomentativo che qui, brevemente, abbiamo accennato, cosa utile e importante, ma che in questa sede allungherebbe di molto il discorso senza aggiungere elementi salienti a quanto si vuole dire.
Così, raccogliendo le fila, possiamo avviarci a concludere osservando come la lettura di pochi passi del saggio di Mustè ci abbia permesso di entrare nel vivo del confronto tra Croce e Gentile, non nel senso che questo ebbe nella realtà storica dove entrarono in ballo anche altri motivi di contrasto e di contrapposizione, ma nel senso tutto filosofico che le loro diverse prospettive e dottrine ebbero e che, ha ragione Mustè, trova una radice profonda in alcuni temi della filosofia hegeliana. Si potrebbe riassumere allora dicendo che mentre la cooriginarietà di essere e distinzione sostenuta da Croce era la fine del panlogismo hegeliano, la concezione dell’atto di Gentile non aveva bisogno di fare polemiche con Hegel per questo verso. Entrambi ritenevano irrinunciabile la dialettica, ma mentre Gentile la concepiva nei termini del rapporto essere-non essere con tutto ciò che ne discende o non ne discende, per Croce la dialettica era sì l’anima della filosofia dello spirito ma il peso teoretico dei distinti era per lo meno altrettanto importante e, se l’essere era irriducibile al pensiero, il rapporto di essere e non essere non poteva mai assumere le sembianze che assunse invece nella filosofia di Gentile. Insomma, le filosofie dei due pensatori, che furono legati da un sodalizio tanto importante e da un’amicizia stretta, mostrano di affacciarsi su mondi speculativi con forti punti di contatto ma con una ispirazione di fondo davvero divergente. Questa osservazione, che è la nostra e non di Mustè, l’avanziamo proprio perché La filosofia dell’idealismo italiano ci sembra essere un saggio importante, dove essa avrebbe potuto trovare riscontro, mentre l’Autore lascia in certo senso indecisa una valutazione di questo tipo che non serve, sia chiaro, per stabilire linee di confine invalicabili, ma per rimarcare l’intonazione diversa della filosofia di Croce da quella di Gentile notando come essa sia da ricondursi a motivi filosofici di fondo, alla scelta di mettere in primo piano una tematica invece che un’altra, a tesi che coerentemente svolte comportano alcune conseguenze e non altre. D’altra parte, il fatto che l’Autore non si sbilanci in un giudizio di questo tipo, più che indurci a pensare che egli lo lasci implicito nella trattazione, ci porta a paragonare questa posizione con quella di un illustre “precedente” al quale l’Autore è profondamente legato.
Solo di sfuggita, ma doverosamente, dobbiamo fare riferimento al lungo e ineguagliato lavoro che Gennaro Sasso ha svolto da alcuni decenni a questa parte sulla filosofia dell’idealismo italiano e sui suoi rappresentanti. Quel lavoro, culminato nella monumentale monografia Benedetto Croce. La ricerca della dialettica e nei volumi Filosofia e idealismo ma sostanziato anche da altri saggi molto importanti, avviluppato nel poliedrico gioco concettuale della dialettica pensata da Croce e da Gentile, ne ha seguito le orme per inchiodarla definitivamente alla croce delle sue polimorfe aporie. Così Sasso ha ricostruito dalla struttura logico-ontologica le filosofie di Croce e Gentile con una operazione di accomunamento e quasi di sovrapposizione che trova la sua vera, ultima, giustificazione nel motivo che informa gli scritti teoretici di Sasso stesso e che consiste nell’abbandono della dialettica come specchio di una filosofia domina mundi e nel suo accomodamento a luogo specifico di una verità identitaria che del mondo nulla sa e che del problema hegeliano della giustificazione dell’incontrovertibile o dell’essere conserva ancora una importante traccia. Ma quell’accomunamento, benché sempre eseguito sulla scorta di un’attenzione scrupolosa ai testi, è per Sasso funzionale alla sua personale teoresi che egli ha sviluppato in volumi importantissimi come Essere e negazione, La verità, l’opinione, Tempo, evento, divenire. Questa produzione di una nuova prospettiva filosofica è intimamente connessa con la critica della filosofia idealistica e, per chi ne abbia seguito l’evoluzione, si mostra esserne il vero cuore pulsante. Ma, per chi non volesse aderire a quella nuova filosofia, la sovrapposizione di Croce e Gentile potrebbe non essere affatto scontata. Infatti, il fatto che la dialettica prenda corpo dal problema della coniugazione dell’identico e del diverso, e che questo stesso problema sia presenti agli occhi dei due filosofi amici, non si traduce né nel fatto che essi si siano interrogati su di esso sostanziandolo della stessa materia filosofica né nel fatto che i tentativi da essi costruiti per organizzare quella materia rispecchino orizzonti coincidenti. Forse allora non è un caso che Mustè, che nella Prefazione sceglie come bandiera dell’idealismo la definizione hegeliana secondo la quale «il finito è ideale», nella trattazione dettagliata dell’unità dello spirito e della realtà delle distinzioni si debba allacciare direttamente alla prima triade nella quale Hegel aveva sì indicato il “passaggio” al Dasein ma aveva trattato anche quel nesso di essere indeterminato e nulla che aveva una funzione rilevantissima nella sua opera e che sarebbe apparso a Croce in una luce ben diversa da quella in cui lo doveva riguardare Gentile per il quale, di conseguenza, diverso doveva essere il senso del “passaggio”. Quel “passaggio” doveva necessariamente essere riguardato alla luce del rapporto essere-nulla, ma con introspezione concettuale più profonda di quanto su questo punto Hegel avesse garantito. E proprio una esplorazione più nelle viscere della questione aveva portato Gentile alla formulazione dell’Atto del pensare come atto puro e aveva segnato, con ciò, una distanza ben misurabile da Croce che subito lo aveva avvertito. Il punto saliente era che per Gentile la dialettica era dialettica di essere-non essere senza determinatezze; al contrario per Croce la dialettica di essere e non essere era solo un aspetto, anche se essenziale, della dialettica dei distinti. Per l’uno si camminava sul bordo del pensiero, per l’altro quella del bordo era una immagine fuorviante per quanto suggestiva.
Indagata con attenzione la filosofia dell’idealismo italiano, tante volta tacciata di provincialismo e di pochezza, appare essere una filosofia del tutto peculiare, ispirata certamente da motivi hegeliani ma fertile anche nell’incontro con voci diverse, il cui “torto” rispetto ad altri sviluppi del pensiero filosofico ad essa contemporanei è stato forse di caratterizzarsi per un tratto ontologico che, affrontando le questioni della dialettica nella loro radicalità di strutture concettuali, ha messo da parte il rapporto con la psicologia che per altri è stato, invece, oggetto di forte interesse se non motivo centrale. Così il soggetto di cui Musté parla in chiusura del capitolo “Le ragioni di un contrasto” non ha niente a che vedere con la psicologia. Esso è l’autoctisi, cioè l’atto del pensiero di cui Gentile fa risaltare per l’appunto l’autoposizione, è la ratio in quanto ratio sui; e la contrapposizione gentiliana all’oggettivismo dello spirito di Croce anch’essa non ha niente a che fare con la psicologia, ma è da intendersi come la sottolineatura del fatto che in Croce era debole proprio la prospettiva di uno spirito o di un Incondizionato che desse conto di sé, del suo essere essere e non nulla. E’ la struttura ontologica e concettuale, sia pure diversamente modulata, quella che impegna le energie di  Croce e di Gentile e che sarà di fatto indagata dai molti altri pensatori di cui il volume di Mustè dà conto. E’ un patrimonio di riflessione ricco di acutezza e profondamente sentito, la cui crisi ci appare come la trasformazione di un nucleo concettuale gravido di valore teoretico che non ha ancora esaurito la sua carica.



PUBBLICATO IL : 12-05-2009

 

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