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A. Schinaia, N. Ruggiero (a cura di), Carteggio Croce- De Ruggiero , Il Mulino, 2008
di Stefania Pietroforte

Il carteggio Croce-De Ruggiero, tra gli ultimi carteggi crociani pubblicati dal Mulino nella collana dell’Istituto Italiano di Studi Storici, è un carteggio importante. Costituito di 612 lettere (oltre le quattro in Appendice) che partono dal 12 settembre 1910 e vanno fino al 14 giugno 1947, è certamente un documento prezioso per chi abbia interesse per la filosofia italiana della prima metà del ‘900 e segnatamente per la filosofia idealistica. Chi lo legga, si troverà davanti non pagine dense di riflessioni filosofiche ma una storia, quella di due pensatori, più anziano e maturo l’uno e più giovane e in sviluppo, ma non del tutto acerbo, l’altro, la cui vicenda intellettuale, non solo filosofica dunque ma anche politica e morale, appare unita da legami molto significativi, solidi, anche se non immuni da crisi e distacchi, legami umani e ideali che crescono e si rinsaldano malgrado le differenze di concetto, di stile, di temperamento. E’ una storia capace di restituire un clima spirituale, quello di un’epoca in cui il fervore delle idee andava di pari passo con l’incredibile alacrità dei protagonisti e con il convincimento radicato che studiare, tradurre, riflettere sugli scritti altrui, elaborarne di propri, progettare grandi esplorazioni in regioni o categorie del pensiero filosofico, fosse produttivo di cose nuove e buone, quanto di meglio si potesse fare non solo per se stessi ma per la collettività. Un’epoca lontana, dunque, che consente ora di essere ripercorsa con sguardo e attenzione storica, ma non distante, non priva cioè di un significato che molto ha a che fare con la sostanza morale della vita di uno studioso e della vita tout court. Quanto alle idee, e più precisamente alla filosofia alla quale questa storia si riferisce, anch’essa ha subìto una vicenda: esaltata, abbandonata, disprezzata, dimenticata, ha spesso suscitato reazioni emotive amplificate come sorprende sempre che il pensiero sia capace di suscitare, ma il nucleo concettuale attorno al quale ha preso forma è rimasto acceso e incandescente e, per chi sia stato guidato a conoscerlo più da vicino, costituisce un centro di interesse ricco di possibilità solo in parte dispiegate.
     Se volessimo presentare in modo riassuntivo la storia che il carteggio documenta, potremmo farlo distinguendo alcuni momenti nei quali essa si raccoglie ed esprime il suo significato.
     Il primo di questi momenti è rappresentato dagli anni che vanno dal 1910 al 1915, data dell’entrata in guerra dell’Italia. E’ l’epoca in cui De Ruggiero (nato nel 1888 e laureatosi in giurisprudenza) dopo essersi laureato in giurisprudenza sceglieva di dedicarsi agli studi filosofici e di orientare la sua formazione verso il pensiero idealistico. E’ un momento importante, dunque, per il giovane studioso, e il carteggio con Croce testimonia che, malgrado le sue preferenze andassero a Giovanni Gentile, De Ruggiero guardava a Croce come ad un riferimento più che importante, quasi imprescindibile. Nella lettera del 12 settembre 1910, la prima del carteggio, egli si rivolgeva al filosofo napoletano prendendo spunto da quanto Croce stesso aveva detto in un articolo de “La critica” del 1909 a proposito del suo rapporto coi giovani e dichiarava al filosofo napoletano che «non è quindi petulanza, né vana presunzione giovanile il sentimento che spinge noi altri a sottoporre al vostro giudizio i nostri lavori: per parte mia è una necessità vera e propria»(lett. 1). La necessità della quale parlava De Ruggiero era, con ogni evidenza, il bisogno di essere rassicurato che i primi passi mossi sul sentiero della filosofia calcassero un terreno solido e non fossero fatti sulle nuvole («a volte, dopo aver scritto qualcosa, mi si presenta il dubbio: ho pensato o fantasticato? Le vostre parole mi danno la certezza che non saprei trovare in me stesso»); era anche la ricerca di un giudizio, di una valutazione, che venisse da un giudice autorevole, così autorevole da far considerare accettabile e comunque positiva perfino una condanna («la mia audacia sorge dalla confidenza che si  prova verso persone da cui ci si sente troppo infinitamente lontani per potersi adontare d’una condanna della propria opera. Quella stessa condanna non può valere che come incitamento a far meglio»). Quello che De Ruggiero così esprimeva era un sentimento diffuso tra i giovani dell’epoca, dei quali si sentiva parte e che definiva «tutti noi che, sotto la vostra guida vogliamo fare qualcosa». In quello stesso anno anche Emilio Chiocchetti scriveva a Croce con accenti simili. Anche lui, sebbene in modo diverso da De Ruggiero, desideroso di fare qualcosa, sentiva che quel “fare” doveva far capo a Croce, doveva passare attraverso il suo giudizio e il suo pensiero, doveva affrontare quel vaglio. Croce catalizzava su di sé le attese e le speranze delle nuove leve, che nella creatività e nel rigore del filosofo idealista riconoscevano un vertice della cultura italiana e un punto di rilancio di essa.
     Dunque il carteggio prendeva il via con la conferma di Croce in questo ruolo e con la richiesta di De Ruggiero di poter fare riferimento a lui. Croce non si sottraeva ed era anzi incoraggiante. Così il prosieguo delle lettere testimonia di un giovane impegnato a tradurre una scelta di scritti di Leibniz, che Croce stesso avrebbe fatto pubblicare da Laterza col titolo di Opere varie (1912) correggendo il titolo scelto da De Ruggiero (Opere minori); della sua compilazione di un saggio sulla Filosofia dei valori per il quale riceveva l’assenso di Croce («Ho piacere che lavoriate intorno alla filosofia dei valori. E’ tempo di consacrare un serio studio a questo vario e complesso movimento contemporaneo» lett. 2) e spazio su “La critica”; ma, soprattutto, del lavoro per il volume che apparve nel 1912 con il titolo La filosofia contemporanea, il suo primo importante libro, alla cui riuscita Croce contribuiva sia fornendo a De Ruggiero indicazioni preziose di lettura (Die Hauptprobleme der Philosophie di Simmel, ma anche Vaihinger e Brentano) sia facendogli trovare accoglienza presso l’editore, al quale lo presentava come «un lavoro eccellente».
     Erano legami importanti, dunque, quelli che si strinsero in poco tempo tra De Ruggiero e Croce. Importanti non solo per l’aiuto che il più giovane ne riceveva da un punto di vista del suo orientamento, ma anche per quanto riguardava l’equilibrio del suo ragionare. Così sembra naturale che egli scrivesse il 1 aprile 1912: «Lavoro alacremente alla mia filosofia contemporanea. Ho scritto già la metà del mio lavoro in quindici giorni, tutto d’un fiato. Mi sento esaurito, ora, perché ho lavorato come un dannato notte e giorno. Ma credo d’aver concluso qualche cosa, d’aver capito lo svolgimento della filosofia contemporanea. I tedeschi sono tutti a posto; i francesi, quasi tutti. Ora mi resta la parte più facile. Sono molto ansioso di far leggere a voi e a Gentile quello che ho scritto. Così organizzato com’è il mio lavoro, sento che non può essere una ‘mezza cosa’: o è sbagliato di sana pianta, o ho fatto una cosa buona» (lett. 41). Tuttavia le parole di De Ruggiero non devono trarre in inganno: se è vero che era ansioso di sottoporre il suo lavoro al giudizio di Gentile e di Croce, è altrettanto vero che è con Gentile che egli discusse la parte di La filosofia contemporanea dedicata al neoidealismo italiano, cioè proprio il punto per lui filosoficamente più delicato di tutto il lavoro. Era un segnale da non sottovalutare, perché in questo modo si metteva in chiaro che egli sentiva il baricentro del suo pensiero più vicino all’attualismo che alla filosofia dello spirito, più in sintonia con il filosofo per il quale in quegli anni traduceva la Storia della filosofia di Windelband, con il quale progettava quella che sarebbe stata la sua grande Storia della filosofia, e che raggiungeva a Palermo per fare, insieme a Fazio Allmayer, quello che chiamava «un banchetto filosofico» (lett. 49), cioè un incontro di quelli che può realizzarsi solo tra individui legati da un comune spirito, dal sentimento di appartenenza ad uno stesso programma filosofico, ad un medesimo sentire. Di questo fatto era riprova che fosse proprio Gentile a far pubblicare, in questo stesso arco di tempo, altri due lavori di De Ruggiero più teoreticamente caratterizzati, La redenzione come svolgimento dello spirito. Saggio di una dialettica della coscienza morale e La scienza come esperienza assoluta, e che si preoccupasse di scriverne a Croce come di saggi importanti, parole che, dalla penna di Gentile, non suonavano invano.
     Che le cose stessero così, che cioè De Ruggiero pur collaborando con Croce si trovasse più decisamente “spostato” nel campo attualistico, era testimoniato anche dal libro su La filosofia contemporanea ed era Croce a sottolinearlo: «Ho letto tutto il vostro volume, e l’ottima impressione che riportai dalla lettura frammentaria, si è confermata ed accresciuta. Ne scrissi al Cecchi e al Prezzolini, perché l’annunziassero. Per la Critica avevo pensato di fare io un piccolo annunzio, e anzi l’avevo già abbozzato … Voi sapete qual è il punto dei miei dubbi. A me pare che voi non abbiate affrontato il problema delle forme particolari dello spirito. Avete fatto un’eccellente polemica contro tutti i tentativi di naturalizzare l’oggetto, di porre una realtà fuori dello spirito; ma questa polemica e l’affermazione, su cui si fonda, dell’unità spirituale, lascia intatto il problema della distinzione. La scienza è filosofia, l’arte è filosofia, la religione è filosofia, la praxis è filosofia, ecc. Sta bene: ma perché parlate poi di scienza, di arte, di religione ecc. come forme distinte? E come giustificate i giudizi (che sono poi tutti i nostri giudizi), nei quali opera quella distinzione?»(lett. 52). La questione che Croce sollevava con De Ruggiero era precisamente quella che stava discutendo con Gentile e che di lì a poco li avrebbe visti contrapposti su “La Voce”: si può parlare di unità spirituale negando che essa sia unità di distinzioni? Era questo il punto dirimente delle loro filosofie e De Ruggiero, pur con tratti peculiari, stava dalla parte di Gentile e rispondeva: «Vi ringrazio del giudizio espresso sul mio libro, che in parte già conoscevo, ma che mi ha fatto piacere sentire di nuovo, ora che tutta la materia vi era presente. Questo mi rassicura dal dubbio che avevo da tempo, che cioè, data la vastità dell’oggetto, il libro potesse apparire pesante e farraginoso. Quanto ai dubbi più propriamente filosofici, spero che
il mio saggio sulla scienza potrà meglio chiarire il senso di talune mie affermazioni che sono a prima vista strane e paradossali, e cioè che tutto sia filosofia: e l’arte, e la scienza, e la religione, e la praxis. Dov’è la distinzione? Dite giustamente voi. Ma per me l’identità di tutte le forme spirituali con la filosofia non significa l’assorbimento di tutte in una, ma semplicemente l’identità di ragione spirituale, attuale, concreta di tutte. In altri termini, la filosofia non rappresenta una forma spirituale a sé, ma è invece l’attualità di tutte le forme o meglio è l’identità di tutte le forme in quanto sono concepite nella loro attualità spirituale. Da questo punto di vista, il problema della unità-distinzione delle varie forme spirituali a me pare che non esista più, appunto perché la filosofia non è più intesa come una forma coordinatrice delle varie forme, bensì come l’identica anima informatrice di tutta l’attività spirituale. Dato invece il concetto della filosofia come forma coordinatrice di varie forme, l’identità che si stabilisce è sempre, in certo modo, estrinseca, perché cade fuori di ciascuna non contenendo essa in sé la ragione immanente a tutte»(lett. 53). La risposta del giovane pensatore era chiara e netta e non lasciava adito a molti dubbi. La sua idea di filosofia non coincideva con quella della filosofia dello spirito crociana e su questo le loro posizioni apparivano inconciliabili.
     Non fu questo, tuttavia, a determinare un cambiamento nei loro rapporti. Fu invece lo scoppio della Grande Guerra che, nel 1915, li vide contrapposti: non interventista Croce e interventista, invece, De Ruggiero. Qui è da vedersi, se si vuole, il secondo momento della loro storia.
     Il diverso atteggiamento riguardo alla guerra non si limitò ad essere un’opinione, ma fu esperienza. Esperienza di combattimento per chi, come De Ruggiero, era giovane, esperienza di solitudine per chi, come Croce, si trovava contro corrente, e per questo più volte attaccato personalmente, ad assistere a uno dei più grandi disastri della storia. Nessuno dei due perse il contatto con gli studi: Croce seguitando senza posa a lavorare alla sua filosofia, De Ruggiero facendo quanto gli era possibile per leggere, correggere bozze, scrivere qualche piccola cosa. Ecco allora che il 31 ottobre 1916 Croce scrive a De Ruggiero in zona di guerra: « Noi stiamo materialmente bene … Ma io soffro moltissimo del deserto intellettuale. Tutti sono sotto le armi, e a Napoli non c’è più alcuno che lavori o almeno legga. Dico, nella cerchia delle mie conoscenze. Tuttavia, mi do forza e seguito a lavorare come posso. Ho anche ripreso alcuni problemi filosofici. Ho in corso di stampa il 4° vol. della Filosofia dello Spirito, che raccoglie le mie memorie sulla storiografia, con parecchie aggiunte. Vado sempre più elaborando il concetto della filosofia come metodologia: che è il sol modo di farla finita coi sistemi chiusi che gli ingenui tutt’ora vengono proponendo. L’ultimo è stato, in Italia, il Pragmatismo trascendentale del nostro Tilgher … In questo, almeno, io sono antitedesco: niente sistemi chiusi» (lett. 107). Non bastava però essere antitedesco per questo verso per colmare la distanza che lo separava da De Ruggiero, distanza ora politica e filosofica. E che non bastasse lo attesta tutto il tono delle poche lettere della guerra, nelle quali emerge tra l’altro esplicito il timore di De Ruggiero di una separazione da Gentile. Di queste, una in particolare, quella del 31 agosto 1917 ancora dalla zona di guerra, documenta in modo evidente lo scarto concettuale tra il più giovane e il più maturo dei due filosofi. Scriveva infatti De Ruggiero commentando alcune postille di Croce sulla questione del “preteso problema fondamentale”: « Ieri ebbi la Critica e la lessi con vivo piacere. Mi piacque molto la ‘postilla’; specialmente la nota sul ‘problema fondamentale’ mi chiarì molto il vostro pensiero in proposito. Vi confesso che me n’ero formato un’idea diversa. Effettivamente non esiste più un problema oggettivamente (ontologicam.) fondamentale; ma solo soggettivamente. Ciò che val quanto dire che il soggetto, lo spirito, è problema fondamentale a sé medesimo. Il problema è così evidentemente assorbito; mentre aveva una ragion d’essere distinta solo nel presupposto oggettivistico» (lett. 117). Dove si percepisce subito che la critica di Croce all’idea che la filosofia avesse un problema fondamentale veniva torta per un verso che la piegava ad un significato attualistico, la scandiva secondo categorie tipiche di quel pensiero, conferendole infine un alone diverso da quello che le era proprio. Il carteggio non ci fornisce una replica immediata di Croce. Ma una lettera del 14 gennaio 1918, scritta quindi a distanza di quattro mesi, suona tale e aggiunge un elemento importante al rapporto tra Croce e De Ruggiero. Scriveva dunque Croce: «Ho piacere che abbiate potuto riprendere in qualche modo il lavoro. Io vi esorto a meditare assai bene sui pericoli del misticismo e del contingentismo, ai quali è ora esposto l’idealismo o spiritualismo assoluto. Persuadetevi che i fatti sono duri e richiedono pazienza ed ostinatezza per essere penetrati e dominati. Ogni volatilizzazione di essi è fantastica e non logica. C’è un mio scritto nel quale ho esposto nettamente come io consideri la filosofia e il suo problema odierno: è quello Metodologia e filosofia, stampato nella Critica del 1916, e ristampato nella mia Teoria della storia. Sarebbe bene che lo leggeste. Voi avete molta freschezza d’impressioni e agilità d’ingegno; ma sono doti verso le quali, pure adoperandole, dovete stare in guardia. Forse il vostro studio della filosofia diventerà più profondo se lo congiungerete con gli scrupoli della vita morale. Scusate la predica, che è fatta da peccatore a peccatore, ma da vecchio peccatore, che in certi peccati non casca più. Che il nuovo anno ci rechi un po’ di fiducia e d’interiore lietezza. Io bramo ciò come uomo, perché come studioso e pensatore le ansie e i dolori mi giovano e rendon più acuto il mio pensiero e più seria la mia mente» (lett. 119). Di queste poche ma dense righe salta agli occhi non solo il richiamo che Croce faceva a De Ruggiero perché stesse in guardia dai pericoli insiti nello sviluppo che l’attualismo gentiliano aveva avuto, ma anche quel consiglio, quasi una necessità, di studiare la filosofia congiungendo questo studio con la coscienza morale. Parole che allo stesso tempo descrivono quello che si agitava nell’animo di Croce e che suonano premonitrici di quanto di lì a poco accadrà allo stesso De Ruggiero.
     A partire dal 1919 si apre un nuovo periodo nella vita di De Ruggiero e, di conseguenza, una nuova epoca nel suo rapporto con Croce. Questa fase ebbe inizio con la collaborazione alla rivista inglese “The Athenaeum”, per la quale scrisse tra il 1919 e il 1920 una serie di articoli sulla cultura italiana; continuò con un soggiorno a Londra dove fu corrispondente de “Il Tempo” e “Il Resto del Carlino” ; si concluse, potremmo dire, con la pubblicazione nel 1924 di quella che forse resta l’opera più importante di De Ruggiero, cioè la Storia del liberalismo europeo. Quello che per comodità di esposizione chiameremo dunque il terzo momento della storia fu caratterizzato, quindi, dal rapporto che De Ruggiero ebbe con il mondo anglosassone e dal soggiorno londinese che fece maturare in De Ruggiero una posizione politica ben chiara e definita. In Inghilterra ebbe contatti con l’ambiente di Oxford, con Wildon Carr, traduttore di Teoria generale dello spirito di Gentile (1922) e autore di The Philosophy of Benedetto Croce (1917), e con Collingwood, traduttore dell’Estetica di Croce ( Aesthetics as Science of Expression and General Linguistic, 1909) e della Filosofia di Giambattista Vico (The Philosophy of Giambattista Vico, 1913). Quest’ultimo avrebbe tradotto anche, insieme a Hannay, La filosofia contemporanea (Modern Philosophy, 1921) e il volume sul liberalismo europeo (The History of european Liberalism, 1927). Ma, a parte Collingwood, il panorama filosofico gli sembrò poco interessante. Scoprì, invece, le idee politiche. Così descriveva il 20 luglio a Croce la situazione: «Vedo spesso Wildon Carr; una persona molto simpatica e alla buona. E’ spaventato dalla produttività dei filosofi italiani. A mia volta, mi sono ingannato sulla laboriosità degli inglesi, filosofi e non filosofi. Qui non hanno che una sola attitudine, quella dell’ordine, e se ne avvalgono meravigliosamente per sfruttare il loro passato e il presente del loro prossimo … In filosofia, tranne quel po’ che imparano dall’Italia, sono d’una infantilità stupefacente. Qui Russell passa per un grandissimo filosofo; e quando si parla di realismo, la gente si leva il cappello … Invece, il pensiero politico inglese contemporaneo ha una notevole importanza: vi sono delle correnti vive nel socialismo e nel partito liberale indipendente. Comincio un po’ a capire come si fa la critica politica. Vi sono qui delle riviste politiche come la Nation, il New Statesman, la Round Table, lo Spectator, che sono dei veri modelli. Quando penso che in Italia noi non abbiamo, di riviste politiche, altro che Politica, così goffamente appesantita nel suo gretto nazionalismo, comprendo che stiamo molto più giù. Spero di poter concentrare un po’ il mio lavoro in questo campo; sarebbe il frutto migliore della mia visita all’Inghilterra» (lett. 136).
     Fu davvero il frutto migliore di quel soggiorno, anzi fu un risultato importante in senso assoluto. Qualche giorno dopo insisteva ancora con Croce «Sto lavorando molto … preparo una serie di articoli sull’Inghilterra … Li pubblicherò insieme in un volumetto, che potrà riuscire di qualche interesse, dato che in Italia si sa poco o nulla dell’Inghilterra … Sto meditando seriamente grandi cose: penso di fondare una rivista politica settimanale (una ventina di pagine e non più), aderente agli avvenimenti, non astrattamente articolistica, che potrà essere molto utile nella formazione di una coscienza politica liberale. Sto studiando le riviste inglesi, che formano un modello veramente ottimo; e sto ora per la prima volta approfondendo sul serio le dottrine politiche»( lett. 138). Se la rivista, che De Ruggiero intendeva far sorgere «sotto gli auspici del partito liberale» e della quale discusse con Gobetti, Murri, Missiroli, Cesarini Sforza e Prezzolini, non riuscì a metterla in cantiere per motivi economici, da quegli studi uscì, invece, oltre al volume L’impero britannico dopo la guerra (1921), La storia del liberalismo europeo (1924), opera che segnò una svolta per De Ruggiero e che importanti conseguenze ebbe nei suoi rapporti con Gentile e con Croce. Fu la contrapposizione netta al fascismo e, se si riflette agli anni della sua gestazione (1920-1924), si capisce anche con che tempismo De Ruggiero venne in chiaro della sua posizione rispetto alla nascente dittatura. Di qui iniziò una nuova fase di collaborazione con Croce al quale ora lo univa una coincidenza d’intenti mai così stretta e mai così profonda. Di qui anche la consapevolezza della divergenza, che sarebbe diventata radicale, da Gentile. «Voi mi considerate ancora come un attualista», diceva De Ruggiero nella lettera a Croce del 10 agosto 1924, e voleva dire, con questo, che ormai dall’attualismo si sentiva lontano e che dentro di sé riconosceva il valore di quei «tempi lontani ma indimenticabili» nei quali si era costruito il suo rapporto con Croce. E Croce sentiva allora di dover rafforzare l’intenzione di De Ruggiero apprezzando la sua scelta e mostrandoglisi solidale: «Credo che facciate benissimo a lavorare allo studio sul liberalismo: tema veramente attuale, come non è l’idealismo attuale, il quale del resto si è punito da sé, fondendosi col fascismo. Vorrei raccomandarvi (ed è il frutto della mia esperienza di storico) di non perdere mai di vista i problemi morali, decisivi nelle tendenze politiche, come non possono essere i motivi economici. Questo ho mostrato nei fatti, col narrare la storia di un liberalismo, di un piccolo liberalismo, quello nostro, napoletano»(lett. 163). Nelle parole di Croce risuonava un motivo che il filosofo napoletano aveva già usato con il suo più giovane interlocutore, quello dell’importanza dei problemi morali: erano questi a fare serio lo studio, aveva detto Croce nel 1918, sono questi, diceva ora, nel 1924, a risultare decisivi negli orientamenti politici. E quell’affermazione, scritta subito di seguito al riferimento alla filosofia attualistica, non poteva non far pensare al confronto tra De Ruggiero e Gentile, al diverso esito della loro elaborazione filosofica: se quest’ultimo si era punito da sé cacciandosi nella spirale, che sarebbe stata distruttiva, dell’identificazione col fascismo, il primo, invece, aveva trovato il modo giusto per esprimersi e per dare senso alla sua riflessione filosofica rintracciandone una sostanza morale, una forma politica. Il consenso di Croce al volume di De Ruggiero era dunque più che un consenso politico, era quello di un filosofo che riteneva necessario costruire il proprio pensiero muovendo dal concreto della vita, anche di quella politica; era il consenso di chi, convinto che i problemi filosofici non siano slegati da quelli letterari, politici, storici, economici, sentiva proprio per questo che il lavoro filosofico, senza presupporre alcuna fede, ha una tonalità etica, morale. E si capisce che così dovesse essere: se lo spirito, per così dire, non è slegato dalle cose della vita, dall’empirico, è ovvio che a questo dovrà costantemente, essenzialmente tornare per lasciar emergere quella razionalità invisibile altrimenti, per “portar fuori” la sua sostanza e dispiegarla più compiutamente. Con questo convincimento -che sarebbe stato messo a dura prova proprio dagli eventi tragici della seconda guerra mondiale, del fascismo, del nazismo, e di tutto ciò che di irrazionale questi fenomeni portarono alla luce- era comprensibile che Croce toccasse con De Ruggiero proprio il tasto dei problemi morali e che, toccandolo, rivelasse che la mano tesa verso di lui non era soltanto quella di un liberale per un neoadepto del liberalismo, ma era molto di più: era l’invito a quella “serietà” dell’esser filosofi, alla “responsabilità” concettuale e morale insieme che, come si è accennato, stavano nel cuore della filosofia dello spirito come il nesso dello spirito stesso e delle sue forme, e stavano nel cuore di Benedetto Croce come un modo di sentire e di vivere con il quale la sua filosofia, il suo pensiero, avrebbe anche lottato tutta la vita.
     Il 6 agosto 1926, in un’intervista rilasciata al corrispondente dell’ “Associated Press” e pubblicata dal “Il Corriere”, Mussolini aveva dichiarato che la libertà individuale era una concessione dello Stato e non un diritto. Erano gli anni della dittatura, dell’arbitrio, della violenza e nello scambio epistolare tra Croce e De Ruggiero, anche se non si diffondeva in particolari, si sentiva l’eco del fatto che la vita politica, sociale e culturale italiana era precipitata in quella terribile condizione. In questi anni e in quelli a venire le lettere sarebbero state punteggiate di notizie di amici e conoscenti messi al confino e sarebbero risultate poco eloquenti sugli avvenimenti in corso. Questa laconicità rispetto agli eventi aveva però la sembianza, più che di un costume di asciuttezza, di una specie di autocensura protettiva di sé e degli altri.
     Col passare del tempo il giudizio di De Ruggiero su Gentile si inaspriva. “Il grande Bonzo”, come a un certo punto lo chiama lui, veniva bollato in più occasioni: per esempio a proposito dell’edizione gentiliana degli Scritti politici di Cavour, oppure per la competizione accademica nella quale De Ruggiero entrava a contrastare Carabellese sostenuto da Gentile, o infine riguardo alla rottura di Gentile con Laterza che De Ruggiero commentava scrivendo a Croce: «Ho saputo che G. spinge più avanti la rottura con Laterza togliendogli le sue opere per darle a Bestetti-Tuminelli. Ma perché non lascia anche le collezioni? Una volta sulla via delle “pulizie” sarebbe desiderabile che gli stabilimenti Laterza si disinfettassero del tutto»(lett. 215). Quello di Croce attingeva una severità senza ritorno: «Leggendo il vostro articolo sul Cavour e quel che dite del Gentile, pensavo che io ero stato ben avvisato nel restaurare la teoria morale dell’errore. E’ mai possibile che quelle cose il Gentile le scriva in buona fede? Che egli le veda veramente così? Sono enormità che solo il partito preso può spiegare. Ma tal sia di lui: io non vorrei essere nei suoi panni» (lett. 168). E non si può non pensare a Gentile leggendo un toccante passo della lettera del 26 novembre 1926, dove Croce mostrava come l’amicizia fosse in lui la barriera più grande per fronteggiare le difficoltà del presente, come essa non potesse concepirsi a prescindere dalle scelte politiche e dalle loro implicazioni morali, come infine fosse da lui sentita quale prova del fuoco di ogni profondo legame: «Ora il legame di sincera e seria amicizia è quanto di meglio ci resti e valga a farci sopportare la durezza del presente; e io penso sempre ai pochi e scelti amici, non della ventura. E’ vero che a quelli della ventura non ho mai dato importanza: il che mi rende indifferente al loro preveduto abbandono. Anch’io mi sono attaccato al lavoro, sebbene anch’io lo continui senza entusiasmo. Ho teorizzato tante situazioni morali, che nessuna di esse mi riesce nuova; ma nuovo è il doverle attuare e vivere, e questa è ora la nostra sorte. Confidiamo nella Provvidenza, nella vichiana Provvidenza»(lett. 176). Non si può non pensare a Gentile, dicevamo, se si seguano anche con il cuore le parole con cui Croce voleva sancire la sua indifferenza per coloro che si erano rivelati solo compagni di ventura e non stretti dal vincolo umano più profondo, e si avverta come la distanza che Croce segnava con nettezza, distanza anche dai sentimenti e dall’affetto, non fosse guadagnata senza dolore.
     Negli anni che segnarono questa nuova fase dei rapporti tra Croce e De Ruggiero accaddero cose importanti per i due pensatori. Anzitutto De Ruggiero riprese la collaborazione a “La critica” e gli articoli che scrisse tra il 1928 e il 1934 attestano una vastità di letture e un ampliamento dei suoi studi che riguarderanno il realismo e l’idealismo inglese, Whitehead, la filosofia delle scienze naturali, Bergson, Meyerson, Hamelin, Dilthey, Husserl e la fenomenologia, Dewey, Freud, Santayana, lo storicismo tedesco, Russell, Langevin, Brunschvicg, il darwinismo, e altro ancora. De Ruggiero continuava, quindi, l’esame critico del pensiero contemporaneo e, allo stesso tempo, portava avanti la sua grande Storia della filosofia che con il volume Da Vico a Kant avrebbe forse offerto la sua sostanza migliore. Quanto a Croce, sarebbero stati anzitutto gli anni della Storia d’Italia(1928), che De Ruggiero accoglieva così: «Ho ricevuto e, come potete ben immaginare, ho letto tutto d’un fiato la vostra storia che ha attanagliato il mio interesse dal principio alla fine. Credo che non si possa desiderare niente di più esauriente. Il capitolo su Crispi –con cui s’inizia la parte che ancora ignoravo- è bellissimo e, col fatto stesso che il tono è simpaticamente umano, il giudizio appare tanto più nettamente negativo o limitativo. La genesi culturale politica degli odierni indirizzi nazionalistici è colpita dall’interno; ma appunto perciò mi fa nascere nell’animo qualche preoccupazione. Speriamo che tutto vada bene! Ho ammirato il modo con cui avete saputo porvi al di sopra della mischia, nella spinosa questione dell’intervento e nel giudizio sulle maggiori personalità politiche dell’anteguerra. Io credo che la vostra valutazione possa appagare tutti, tranne naturalmente i potenti. Il libro avrà  un’influenza incalcolabile sulla vita italiana. Esso è il primo, vero esame di coscienza della nuova Italia; un esame le cui conclusioni stanno molto al di sopra del catastrofico pessimismo e del retorico ottimismo, e che, appunto perciò, possono avere una risonanza in tutti gli animi»(lett. 210). Dove si capiva che l’eccitazione di De Ruggiero andava ben al di là del giudizio positivo sul lavoro dell’amico; aveva a che fare con il bisogno di riscatto, per così dire, dei valori di libertà e del vivere civile schiacciati dal regime fascista, con il bisogno di uscire dallo stato di mortificazione che questa situazione produceva, con il desiderio di riconoscimento di un’Italia che si opponeva al fascismo, che lottava contro la sua barbarie, che resisteva alla sua violenza. Da questo punto di vista, le parole di De Ruggiero non solo erano appropriate, ma non facevano che descrivere quello che effettivamente già il saggio di Croce stava producendo, non erano insomma parole profetiche, ma constatazione dell’effetto che quel libro riscuoteva. Croce era, insomma, il grimaldello di una coscienza sana, positiva, moralmente non smarrita e tale si sarebbe confermato di lì a poco con la Storia d’Europa. Anche in questa occasione De Ruggiero si mostrava in immediata sintonia con le intenzioni di Croce, cogliendo senza alcuna difficoltà e immediatamente il motivo dominante del lavoro crociano nel concetto di libertà: «Ho ricevuto inaspettatamente i capitoli introduttivi e li ho letti due volte, di furia prima, riposatamente la seconda. Mi paiono una cosa superba. Vi si vede in atto quella dialettica storica, che era ancora un po’ nel limbo delle idee. Ed è una dialettica che stringe tutti gli elementi della storia di quel tempo. Molto chiarificatrice la distinzione del romanticismo. Era capitato anche a me d’impuntarmi sul doppio senso della parola (e della cosa), che ottenebrava tutto, mentre ora invece mi pare che tutto si spieghi e si metta a posto. Quanto al tema della libertà, vedo che ne avete cavato una sinfonia beethoveniana. Il giudizio sulla chiesa è il più tranché che mi sia mai accaduto di leggere. Apriti cielo!»(lett. 330). Sarà proprio questo della libertà infatti il punto su cui  Croce insisterà per caratterizzare il suo pensiero.
     Se tra i due pensatori si era instaurata questa sintonia, non c’è da meravigliarsi, allora, che Croce girasse a De Ruggiero il compito a lui affidato di scrivere la voce “idealismo” per l’Encyclopaedia of The Social Sciences (per la quale De Ruggiero compilò anche “liberalismo” e “positivismo”), pregandolo, però, laddove la redazione richiedeva «a brief account of the relations of idealist philosophy to various modern political movements and practical polities», di distinguere bene  e di «rompere questa diade, parlare di me in un punto; e lontano da me del Gentile e regalargli anche la glorificazione dello stato e del nazionalismo. Soprattutto bisogna rivendicare il carattere dell’idealismo o spiritualismo assoluto, che è fondato sul concetto dell’unità spirituale; e spiegare come mai si sia contaminato di nazionalismo, autoritarismo, statalismo, prussianesimo ecc. E qui si può parlare del Gentile»( lett. 354). E ribadiva la richiesta solo pochi giorni dopo: «Vi mandai giorni sono la lettera d’incarico della Enciclopedia di scienze sociali, e vi raccomandai di svolgere la traccia in modo che venga dissociato l’idealismo dallo statalismo, statolatria, attualistiche sudicerie ecc. Mi pare che quegli americani vivano nella credenza di tale identità»(lett. 356).  La preoccupazione di Croce in queste lettere del 1931 era chiaramente non solo quella di distinguere il suo dall’idealismo di Gentile per chi, come sembra degli americani, ancora non lo sapesse, ma soprattutto quella di mostrare con chiarezza che la filosofia idealistica non aveva a che fare con autoritarismi e nazionalismi, non aveva parentele col fascismo anzi, essendo pensiero che sempre più aveva lasciato emergere come suo centro il concetto della libertà, rispetto al fascismo e ad ogni altra statolatria non poteva che trovarsi sul fronte opposto e nella necessità di combatterlo. Si sentiva, insomma, che anche dove gli accenti erano personali (e difficilmente avrebbero potuto non esserlo del tutto) la questione era comunque un’altra e fatta di sostanza filosofica. Per De Ruggiero le cose non stavano altrimenti. Anzi, a fare da contrappunto si possono segnalare le battute con le quali commentò la messa all’Indice delle opere di Croce e Gentile nel 1937: «Ho letto la notizia dell’indice; mi avrebbe fatto maggior piacere, se non aveste avuto quella compagnia. Spero almeno che all’altro la cosa possa nuocere negli affari. Ma col sistema delle partite doppie, che è prevalso, la speranza è molto dubbia»(lett. 453), parole che colpiscono per lo scarso rilievo dato alla censura della Chiesa e per il desiderio che esprimono di voler togliere assolutamente il nome di Gentile dall’elenco dei nemici dell’autoritarismo, sia pure ora quello della Chiesa. Parole che, comunque, consuonano con quelle di Croce e, dato che il personaggio era di certo più “sanguigno”, le estremizzano, ma il cui sarcasmo non scaturisce da fatti personali, a meno che non si vogliano considerare tali le scelte di campo ideale che Croce, Gentile e De Ruggiero avevano fatto e maturato ormai da lungo tempo.
     Molto altro si potrebbe e forse si dovrebbe dire di queste lettere degli anni ’30 e ’40. Ci limiteremo a precisare, per non offrire al lettore un’immagine edulcorata, che malgrado la comunità di intenti i rapporti tra De Ruggiero e Croce non furono sempre e comunque idilliaci. Basti pensare che il progetto di De Ruggiero di scrivere una serie di articoli sugli storici europei dell’800, dopo i primi due dedicati rispettivamente a Thierry e Michelet, si interruppe per la contrarietà di Croce e questo fatto mise fine nel 1938 alla collaborazione di De Ruggiero a “La critica” (continuò a pubblicarvi solo recensioni). Era il segnale vistoso di un disaccordo non superficiale per quanto concerneva il modo di intendere la storiografia. Dall’altra parte anche De Ruggiero non si premurava di risparmiare a Croce la sua critica come avvenne per esempio quando, a proposito della recensione scritta da Omodeo per La Chiesa romana di Buonaiuti, gli scrisse che «la recensione era forse troppo aspra. Ora io trovo che a noi non conviene far gli interessi della chiesa (che ha messo il libro all’indice) nel dare addosso al Buonaiuti. In fondo il libro è abbastanza buono; è certo il migliore che B. abbia scritto. Voi sapete che io non sono tenero con quel signore; ma non vorrei che ripetessimo gli errori del tempo del modernismo»(lett. 410). Gli errori dei quali parlava erano chiaramente gli errori che De Ruggiero riteneva avesse commesso Croce, e con lui Gentile, quando, all’epoca del Modernismo avevano colpito con tale durezza i rappresentanti di questo movimento da dare l’impressione di “fare il gioco” delle gerarchie ecclesiastiche. (Si noti, di passaggio, che l’interesse di De Ruggiero per gli autori modernisti non era affatto estemporaneo, ché egli aveva tradotto L’azione di Blondel proponendone la pubblicazione a Codignola nell’anno del suo soggiorno a Londra e che si faceva portavoce, nel 1937, presso Croce per la traduzione de L’essence du Christianisme di Loisy). Molto più forte delle divergenze era però il vincolo che li accomunava e la drammaticità dei tempi lo rinsaldava ancor più, quella drammaticità che nell’epistolario tocca il vertice con la notizia laconicamente ma funestamente comunicata da Croce dell’uccisione dei fratelli Rosselli: «oggi sono sotto l’orrore dell’assassinio dei due Rosselli!»(lett. 499), seguita, di lì a pochi mesi, dall’omaggio da Croce stesso reso alla loro famiglia.
     Si potrebbe parlare, a proposito di questi anni, della questione del “giuramento” dei professori e di come fosse stata affrontata da De Ruggiero; di Croce evacuato da Napoli o del coinvolgimento di De Ruggiero nelle prime fasi dell’organizzazione politica di un’Italia non ancora del tutto liberata. Ma più interessante ci sembra riportare quest’ultimo episodio.
     Nel 1941 De Ruggiero ottenne di poter ripubblicare Storia del liberalismo europeo, ma poiché lo fece stampare rifiutandosi di modificarlo come gli aveva richiesto Bottai fu destituito dall’insegnamento e anche incarcerato. In quel frangente, quando era venuto a sapere della ripubblicazione e non ancora delle sue conseguenze, Croce gli scriveva: «Laterza mi scrive che ha avuto il nulla osta per la ristampa della vostra Storia del liberalismo: il che mi ha fatto molto piacere. Voi, in un certo punto di essa, citate un mio articoletto occasionale; ma, poiché negli ultimi diciotto anni ho intensamente meditato su quel concetto e vi ho consacrato le mie migliori forze, credo che sarebbe opportuno richiamare su ciò l’attenzione dei lettori, nell’interesse della cosa stessa. Probabilmente, voi non rielaborerete quel volume; ma non è necessario che vi distendiate a parlare dei miei teorizzamenti. Basterà che, magari in nota, rimandiate ai libri che li contengono, che sono in ordine di tempo: 1°) Etica e politica (Bari, 1931); 2°) Storia d’Europa nel secolo decimonono (ivi, 1932); 3°) La storia come pensiero e come azione (Bari, 1938); 4°) Il carattere della filosofia moderna (ivi, 1941). In quest’ultimo volume c’è un saggio riassuntivo:  Principio, ideale, teoria (a proposito del concetto di libertà), che scrissi l’anno passato come introduzione a un volume americano col titolo: Freedom (presso Harcourt a. Brace). Forse l’avete letto: se no, vi prego di leggerlo … Scusate questa mia richiesta, che, come ben intenderete, non nasce da amor proprio di autore, ma da dovere verso la verità che si è pensata e alla quale si crede»(lett. 553). La richiesta di Croce è interessante  perché era la riprova dell’importanza che egli riconosceva a quel volume di De Ruggiero, nel quale ci teneva a comparire come un pensatore appartenente all’universo delle idee liberali rappresentate, secondo il suo stile e modo di pensiero, dalle opere che citava. La Storia del liberalismo europeo non era stata solo una fiammella accesa per i cuori degli antifascisti degli anni ’20 e ’30, ma era un testo di riferimento teorico e storiografico nel quale Croce sentiva necessario che fosse rappresentata quella sua personale, filosofica, idea di libertà, elaborata per difenderne con pari dignità il valore teorico e quello morale. La richiesta mostrava che si era compiuto così un percorso nel quale la serietà dei problemi morali, invocata dal filosofo più anziano, aveva agito così in profondità nel più giovane che il primo non disdegnava, anzi aveva in pregio, di figurare nella sua trattazione della libertà. Era l’ultimo segmento di un arco di vita vissuta e di vita di pensiero che aveva profondamente accomunato Croce e De Ruggiero tenutisi vicini nella ricerca e nella lotta per la libertà.
     Oltre a quelleuelle che si sono fin qui dette, molte altre cose non meno interessanti troverà il lettore nel carteggio, molto ben approntato da Angela Schinaia prima e da Nunzio Ruggiero poi. Così come troverà nella Introduzione scritta da Gennaro Sasso non solo e non tanto un commento alle lettere, quanto un approfondimento delle questioni storiche e filosofiche che questi documenti contengono, questioni numerose e rilevanti, che non possono essere contenute in una battuta. Di queste però è indispensabile segnalare almeno quella del rapporto tra attualismo e fascismo (da Sasso già ampiamente esaminata in Le due Italie di Giovanni Gentile), quella del concetto della storia della filosofia e della storia della storiografia nell’attualismo e in Croce, infine quella che potremmo definire del carattere paradossale del sistema concettuale proprio della filosofia dello spirito, questione che Sasso ha rilevato con movenza originale e con il gusto di chi sa portare alla luce il doppio fondo che il pensiero filosofico prepara per se stesso.



PUBBLICATO IL : 29-09-2009

 

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