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Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista , Il Mulino, 2009
di Andrea Pinazzi

Nel libro «non si affronteranno questioni di metafisica» afferma l’autrice nella prima pagina, subito dopo la dedica alla memoria di Renzo De Felice, che del libro fu l’ispiratore.
Quello che Alessandra Tarquini vuole offrirci non è uno studio filosofico sulla reale o presunta coincidenza della filosofia gentiliana con l’ideologia del regime fascista. Con questo libro ci viene, invece, fornito un prezioso strumento che, attraverso articoli, lettere e documenti di vario genere, ricostruisce la storia dei rapporti del filosofo siciliano con esponenti della politica e della cultura fascista, nonché con lo stesso PNF.
Molto si è dibattuto se Gentile fosse o no fascista, su quali furono i motivi che lo spinsero ad aderire, fino alla fine, al regime. La tesi più diffusa – ricorda l’autrice – è quella di Garin secondo cui Gentile non fu uno degli ideologi del fascismo, ma «un filosofo liberale che espresse una cultura assai diversa da quella fascista» (p. 12). Di opposto parere è Del Noce che rifiuta di descrivere Gentile come un liberale. Il libro della Tarquini, nel suo carattere di ricostruzione storica ampiamente documentata, offre un ampio panorama che può aiutarci a mediare tra queste opposte posizioni.
Nel volume si seguono percorsi diversi anche se intrecciati. Diversi perché diverse furono le nature – e le motivazioni –  degli oppositori di Gentile. Si parte quindi dall’opposizione degli anni Venti, incentrata soprattutto sull’azione politica del filosofo in qualità di ministro dell’istruzione; si prosegue, nel secondo capitolo, con quella di natura cattolica; nel terzo, con quella dei giovani, che negli anni Trenta si opponevano a Gentile; per passare poi alle interpretazioni che vari teorici del fascismo davano del pensiero gentiliano, e concludere con l’opposizione che Gentile trovò anche all’interno del partito.
Nonostante l’intenzione iniziale, Alessandra Tarquini non può fare a meno di confrontarsi con la filosofia di Gentile e, soprattutto, con i dibattiti che da questa sono scaturiti durante il ventennio in cui la vicenda biografica del filosofo siciliano fu intrecciata con quella storica del fascismo.
Da un lato molti tra i fascisti della prima ora accusavano Gentile e i suoi di essersi accostati al fascismo solo dopo che questo aveva preso il potere e «solo perché il capo del governo gli offriva l’opportunità di realizzare la riforma scolastica» (p. 23). Ipotesi che trova, tra l’altro, conferma in una lettere di Carlini a Lombardo Radice, in cui si ammette «che l’interesse dei gentiliani nei confronti del partito di Mussolini fosse nato solo alla vigilia della marcia su Roma e derivasse dalla possibilità di realizzare la riforma scolastica» (p. 73). Si dà dunque origine a un contrasto di natura essenzialmente politica tra il gruppo di Gentile e i suoi oppositori, che troverà appiglio anche nelle origini liberali del filosofo.
D’altro canto, però, convergono nell’opposizione politica vecchi e nuovi contrasti filosofici, animati da motivi più o meno nobili.
Il mondo cattolico «tranne rare eccezioni fu radicalmente antigentiliano» (p. 107). Non era un contrasto nuovo, fin dall’inizio del secolo scorso i cattolici avevano accusato Gentile di aver formulato una filosofia atea e immanentista e, pertanto, da combattere. Speravano, quindi, che il regime allontanasse Gentile, in modo da poter «costruire uno stato in cui la religione cattolica avrebbe avuto un ruolo fondamentale» (p. 107). E’ evidente, dunque, come, soprattutto col concretizzarsi delle possibilità del Concordato, antichi contrasti filosofici abbiano finito per rivestire il carattere di nuove controversie politiche, allo scopo di raggiungere un ruolo dominante e nel partito e nel panorama culturale italiano. Sebbene il Concordato non sancisse, di fatto, la vittoria dei cattolici sui gentiliani, è pur vero che, agli inizi degli anni Trenta l’attualismo non è indiscusso protagonista della filosofia italiana.
Iniziano così a nascere riviste di giovani fascisti antigentiliani, animate dalle ispirazioni più diverse. E’ il caso de Il Saggiatore i cui membri, insoddisfatti dall’idealismo di Gentile considerato «trionfo del puro pensare» (p. 173), si rivolgono alla psicanalisi presentata come «“un acido dissolvente” in grado di sgretolare ogni tipo di “costruzione mentale fasulla”» (p. 174). Ma anche di L’universale che si dichiara «nemico di ogni retorica, di ogni accademismo parolaio e servile» (p. 181). O del Secolo fascista, il cui direttore, Fanelli, non menzionerà Gentile nell’antologia di scrittori fascisti da lui redatta nel 1931. Fino ad arrivare a La Sapienzadi Spinetti che afferma apertamente che il fascismo debba farla finita con l’idealismo, considerato una «filosofia celtica» (p. 203) slegata dalla storia e dalla cultura italiana. Nelle riviste che Alessandra Tarquini cita l’antigentilianesimo assume un carattere profondamente diverso da quello dei fascisti reazionari degli anni Venti che accusavano Gentile di essere un liberale o di non aver capito lo spirito del fascismo.  Accanto alla volontà di rinnovare la cultura italiana qui, con l’antigentilianesimo, si fa strada una «polemica generazionale che esprimeva l’esigenza dei giovani di avere uno spazio maggiore all’interno del regime» (p. 203).
Ciò che in questo inizio di anni Trenta si cerca, dunque, non è più la preminenza esclusivamente politica, ma, piuttosto, culturale all’interno dell’ideologia fascista.  Se Carlini notava, nel 1929, che nel fronte idealista si andava sviluppando una varietà d’atteggiamenti assente un decennio prima, Papini – avversario di Gentile – si spingeva fino ad affermare che «una filosofia dura trenta anni o poco più» (p. 213) e che l’idealismo di Gentile aveva ormai compiuto i suoi. Appare dunque naturale presentare quei personaggi che, a dieci anni dall’instaurazione del regime, contendevano a Gentile il ruolo di ideologo del fascismo. Le motivazioni di Francesco Orestano sembrano intrise di ragioni personali: un’idiosincrasia nata quando entrambi insegnavano a Palermo e maturata quando – ministro Gentile – l’Orestano decise di chiedere il collocamento a riposo. E che lo porterà –con motivazioni simili a quelle de La Sapienza– ad affermare l’estraneità della filosofia idealista al fascismo. Il contrasto di Sergio Panunzio nasce, invece, da una differente interpretazione del liberalismo, inteso come «espressione di gruppi sociali, regolati da un sistema normativo in grado di costruire l’architettura dello stato» (p. 248). Visione che sfocerà poi in una concezione del fascismo come  «stato-partito antigentiliana e totalitaria» (p. 252). Se Carlo Costamagna accusava Gentile di essere «uno dei maggiori responsabili nei ritardi della fascistizzazione della cultura italiana» (p. 265), bisogna ricordare che Ernesto Codignola poteva definirlo un «perfetto italiano» che «per garantirsi le simpatie di alcuni esponenti del partito fascista, nella seconda edizione del suo manuale di diritto corporativo […] aveva difeso “idee del tutto opposte a quelle che aveva sostenuto nella commissione dei 18”» (p. 259). Julius Evola è, senz’altro, uno dei personaggi più interessanti. Inizialmente vicino a posizioni gentiliane, di cui è comunque un interprete originale, accusava gli antigentiliani di essere animati da una «ingiustificabile pruderie da provinciali gelosi della loro vergine ignoranza e angustia di spirito» (p. 275). La preoccupazione principale dei nemici di Gentile era, a suo parere, di non far discendere il fascismo da una filosofia – quella hegeliana – che non aveva le sue origini in Italia. Tuttavia le posizioni di Evola su Gentile mutano verso la fine degli anni Trenta, quando il suo percorso filosofico lo porta ad elaborare un concetto di stato «“superreligioso” “organico” e “trascendente”» (p. 277) in contrasto col modello gentiliano. Nel seno dell’idealismo di Gentile si pongono infine Ugo Spirito e Armando Carlini. Questi, pur seguendo il maestro, finiscono entrambi per discostarsi dalla lettera del suo insegnamento. Nel 1937 Spirito criticava l’idealismo gentiliano che, a suo avviso, «stava degenerando perché insisteva nell’analisi della formula della dialettica senza vincerla nell’assoluta immanenza dell’azione di cui aveva pur posto in luce la rigorosa esigenza» (p. 287). Inizialmente convinto della necessità di un avvicinamento tra idealismo e neoscolastica, nel corso degli anni trenta, Carlini si allontanerà progressivamente dall’idealismo gentiliano in cui l’uomo era «“un uomo spersonalizzato” a cui mancava “una parola magica: la fede». (p. 297) Con la riflessione sul pensiero di Mussolini, l’influenza del maestro va scemando e nel 1936 Carlini può sostenere che «il fascismo aveva avuto un ruolo decisivo nel tramonto dell’idealismo» (p. 298).
Nell’ultimo capitolo, dedicato all’opposizione del partito e del governo contro il filosofo siciliano, non si trovano temi culturali. Si torna a parlare della riforma della scuola, cui secondo lo stesso Mussolini bisognava restare fedeli ma che era «incompatibile con i progetti del fascismo» (p. 301) nel momento in cui sanciva il principio di libertà d’insegnamento, che sarà eliminato da quella riforma De Vecchi che si può considerare una «controriforma della riforma Gentile» (p. 310). Lo stesso De Vecchi, a seguito di critiche alla sua riforma mossegli dal filosofo, «lo destituì dall’incarico di direttore della scuola Normale di Pisa» (p. 313). Va detto che Mussolini intervenne in difesa di Gentile, ma non riuscì ad ottenere altro che un differimento del provvedimento. Oltre alle accuse di liberalismo, quello che si imputava a Gentile era «di negare al partito un ruolo decisivo nell’educazione delle giovani generazioni» (p. 317).
«Gentile contribuì a creare un regime che celebrava il mito dello stato», egli «riteneva che il partito fascista dovesse confluire nello stato, ma non ne negava l’unicità» (p. 329). Riteneva che il fascismo attribuisse «un significato filosofico e una portata universale alle proprie affermazioni» dal momento che «ogni concezione politica degna veramente di questo nome è una filosofia» (p. 331).
Nonostante la sua vicinanza al regime, il suo sentirsi precursore del fascismo, inteso come forza capace di rinnovare culturalmente e spiritualmente l’Italia, «il principale avversario di Gentile fu il partito fascista» (p. 314). Mentre Gentile «pensava che il fascismo avrebbe costruito lo stato degli italiani perché il fascismo era l’Italia, il partito non accettava l’approccio statalistico del filosofo» (p. 367). Lo scontro tra Gentile e i suoi detrattori nel corso di un ventennio assume, come si è visto, colori diversi. Quello che stupisce dopo aver letto un libro dedicato a gentiliani e antigentiliani è di avervi trovato quasi solo i secondi. Non che Gentile vi sia disegnato come un personaggio minoritario nel panorama culturale italiano. Si dà conto – anche per via negativa – del ruolo di primo piano, con accenti a tratti anche “baronali”, che il filosofo di Castelvetrano rivestì per la cultura italiana. Tuttavia ci pare che non si possa parlare di un ruolo pacificamente egemone di Gentile nella cultura italiana della prima metà del Novecento. Pur essendo di fronte a un personaggio che fa uso del suo carisma, intellettuale e politico, ci pare di esser qui distanti da quel bestione trionfante che Tilgher descriveva nel 1925. I gentiliani nel partito furono pochi, rari quelli che tali rimasero fino alla fine. E allora non può non meravigliare che, caduto il fascismo, molti degli intellettuali che, durante le fortune del partito, lo avevano accusato di liberalismo si dichiararono antigentiliani perché antifascisti.  



PUBBLICATO IL : 26-01-2010

 

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