Giornale di Filosofia.net
www.FilosofiaItaliana.it


B. Croce, F. Venturi, Carteggio , Il Mulino, 2008
di Stefania Pietroforte

Il carteggio Croce-Venturi è un piccolo carteggio di sole 40 lettere scritte tra il 24 ottobre 1937 e il 14 ottobre 1950. A queste ne sono state aggiunte, opportunamente, altre 11, che servono di corredo agli argomenti trattati dai due corrispondenti. Il volume che le riunisce contiene un lungo saggio della curatrice, Silvia Berti, molto utile sia per le informazioni che fornisce riguardo a Franco Venturi e ai suoi anni giovanili, sia per la diretta comprensione del carteggio del quale illustra la trama un po’ più recondita.
         La levatura intellettuale dei due corrispondenti fa sì che la raccolta, benché presenti un numero limitato di documenti e anche piuttosto succinti di estensione, riesca comunque a delineare una storia e ad accennare questioni importanti. La storia, si potrebbe dire sommariamente, è quella della formazione e maturazione di Franco Venturi, allora agli esordi dei suoi studi storici ma già aderente a una vocazione politica che segnerà la sua esistenza, ed è anche la storia, sia pure vista da una angolatura limitata, del rapporto di Benedetto Croce con una fetta della cultura italiana, piemontese e antifascista, che egli frequentò negli anni più opprimenti del regime di Mussolini e alla quale fu legato dal sentimento della comune avversione al fascismo. Le questioni che stanno sullo sfondo del rapporto tra Croce e Venturi vanno però oltre l’orizzonte politico e riguardano l’influenza che la filosofia di Croce ebbe in ambiti non direttamente filosofici come pure l’individuazione della varietà e della ricchezza culturale dell’Italia nella prima metà del Novecento.
         E’ importante notare che quando Franco Venturi scriveva la prima lettera di questo carteggio si trovava a Parigi, perchè era già stato costretto ad abbandonare l’Italia per sfuggire alla persecuzione fascista. A Parigi Venturi viveva con i suoi familiari, anche loro in esilio perché suo padre, Lionello, professore universitario, era stato tra coloro che avevano rifiutato di giurare fedeltà al regime. I Venturi condividevano la sorte di tutto il gruppo di fuoriusciti italiani, che si tenevano uniti e stringevano le fila per poter comunque contrastare, come possibile, quel regime dittatoriale, negatore di libertà e dignità, che li aveva messi nella condizione di dover lasciare l’Italia. Molto bene Silvia Berti mette in risalto che i rappresentanti di questo gruppo, prima ancora di diventare un movimento antifascista politico, erano stati espressione di una sorta di antifascismo culturale. Il mondo intellettuale torinese, del quale Lionello Venturi era uno degli esponenti di maggior spicco, era caratterizzato dalla viva presenza della lezione di Gobetti e dal sentimento di una crescente contiguità di cultura e politica:«un antifascismo ‘culturale’, -scrive Silvia Berti- in cui la volgarità, la violenza e le angustie del regime non potevano trovare cittadinanza, non ancora un antifascismo politico. Molte, però, erano le contiguità tra cultura e politica»(pp. XIII-XIV). A credere che politica e cultura non potessero essere disgiunte erano personaggi come  Manlio Brosio e Luigi Salvatorelli, Leone Ginzburg e Cesare Pavese, Carlo Levi, i Gobetti e, naturalmente, Venturi stesso.
         Con questo ambiente Croce ebbe un rapporto che è ben illustrato da due eventi riferiti dalla Berti. Il primo è il giudizio di  Lionello Venturi sulla Storia d’Italia e il secondo è una importante annotazione di Croce nei suoi Taccuini. Scriveva Lionello Venturi a Croce  il 6 febbraio 1928: «“Caro Senatore, ho finito di leggere la Sua Storia d’Italia. E desidero dirLe non solo la mia ammirazione, ma soprattutto la mia fiducia che il Suo libro sarà il fondamento dell’educazione nazionale a venire”»(p. XIV). Il fatto che Venturi, che non era un crociano ma che nel suo Il gusto dei primitivi (1926) aveva fatto sua molta sostanza della Filosofia della pratica di Croce, leggendo la Storia d’Italia fosse indotto a pensarla come pietra miliare della nostra cultura nazionale confermava in modo esplicito, ed è quanto la curatrice afferma in apertura del suo saggio, che Croce non solo era visto come una della massime personalità nel panorama intellettuale europeo ma che il suo magistero, filosofico, storico, letterario, era un punto di riferimento importantissimo per uomini e intellettuali di diverse età e di diverse estrazioni culturali. Era questo il modo in cui Croce marcava la sua presenza tra gli intellettuali più vivi di quegli anni, un modo che ancor più si sarebbe messo in risalto con la Storia d’Europa (1932), un modo che certamente merita di essere indagato dettagliatamente per comprendere meglio gli avvenimenti della cultura italiana del ‘900. Se Croce dava tanto di sé a quegli uomini, pure riceveva da loro. Ne è testimonianza l’annotazione del 7 ottobre 1925 nei Taccuini dove, dopo un incontro con Trassati, direttore de “La Stampa” che solo un mese più tardi per motivi politici avrebbe dovuto lasciare il suo incarico, Croce scriveva: «“La gita di ieri a Torino, il colloquio col Frassati mi hanno tenuto fino a stamane in una meditativa tristezza. Penoso senso di soffocamento per la soppressa libertà di stampa: ribellione dell’animo a questa ingiustizia violenta e ipocrita insieme. Ho riesaminato ancora una volta per ogni verso la situazione presente; e il riesame mi avrebbe lasciato nella depressione della tristezza, se non mi fossi rammentato di una cosa che, da filosofo, ho ragionato, dell’errore cioè di porre i problemi politici in termini estrinseci, scrutando l’Italia e temendo o sperando di lei; laddove l’unico modo di porli è quello personale e morale, che cerca e mette capo alla determinazione del quid agendum personale, del proprio dovere. E non mi è stato difficile rifermarmi nella risoluzione, che a me spetti continuare a fare quel che posso fare, qualunque cosa accada …Infine, neanche ora sono solo: conosco altri italiani, che sentono e pensano e fanno come me; e molti altri ve ne saranno, tra coloro che non conosco”»(p.XIII). Il passo tratto dai Taccuini suggerisce l’idea che una significativa sollecitazione provenisse a Croce dalla relazione con gli esponenti dell’intellettualità piemontese, una spinta in più a riflettere su vicende che il filosofo napoletano aveva ben presenti, ma che il legame personale con quegli uomini lo costringeva a considerare in maniera ancor più ravvicinata. Suggerisce, insomma, l’idea che Croce fosse nella condizione di dover ripensare e concludere che non bastava «porre i problemi politici in termini estrinseci, scrutando l’Italia e temendo o sperando per lei», ma fosse necessario porre la questione sul piano della moralità, quello che ci coinvolge direttamente e personalmente e che pone la domanda di che cosa noi dobbiamo fare, quale sia il nostro dovere. Due episodi importanti, questi citati dalla Berti, che non solo porterebbero a concludere che «il rapporto di Croce con Torino e la cultura antifascista piemontese fu in realtà molto più stretto di quanto il luogo comune che oppone la Napoli idealista e filosofica alla Torino politica (prima giellista e poi azionista), pragmatica e antispeculativa, potrebbe far supporre»(pp. XIV-XV), ma lasciano intendere l’intensità che caratterizzava gli scambi tra il filosofo e gli amici torinesi.
         Questa intensità è la stessa che si avverte nelle lettere scritte da Franco Venturi a Benedetto Croce. Sebbene Venturi fosse assai giovane e Croce al contrario era già un monumento di cultura e di prestigio, nell’atteggiamento di Venturi non si avvertiva solo stima o deferenza. Croce non era solo un riferimento molto importante, ma un maestro, uno che poteva essere guida nell’impresa ardua della comprensione e, quindi, della decisione. Per il giovane militante di “Giustizia e Libertà”, che aveva visto travolta la sua vita dagli eventi politici, era ben chiaro che l’azione politica non poteva essere disgiunta da una comprensione degli avvenimenti che ne cogliesse il profondo divenire storico, che fosse munita, insomma, di una perspicua intelligenza delle cause. Questo era il senso dei suoi studi: la ricerca delle cause remote, ma fondanti, degli accadimenti presenti; la comprensione storica della democrazia e delle sue degenerazioni; la conoscenza dei motivi che avevano portato alla situazione nella quale egli quotidianamente viveva e combatteva. In questo quadro, l’interesse di Venturi era concentrato particolarmente sull’epoca dei Lumi e ne parlava con Croce discutendo dei lavori che veniva eseguendo su Diderot, su Filippo Buonarroti e su Boulanger. Nella filosofia dei Lumi supponeva si trovasse la scaturigine teorica dei grandi problemi politici dei secoli successivi. Pensava a Boulanger e Buonarroti come snodi importanti nel nucleo originario di democrazia, socialismo e comunismo e, soprattutto, riteneva che «in queste elaborazioni settecentesche, che prefiguravano una specie di comunismo utopistico, bisognava evidenziare e trattenere l’elemento libertario, ma esorcizzare e respingere quei tratti totalitari che uno sguardo acuto poteva cogliere al loro interno»(p. XXVI-XXVII). Ma il quadro di riferimento di Venturi non era certo lo stesso di Croce, che nutriva bensì interesse per un personaggio come Boulanger, ma soltanto in relazione alla questione della recezione della filosofia di Vico della quale il pensiero di Boulanger era ritenuta una specie di “plagio”; quanto poi a Buonarroti, spiega Silvia Berti, la considerazione che se ne doveva fare secondo Croce era in funzione di «mettere meglio a fuoco una delle componenti –la cospirazione patriottica e l’idea di liberazione nazionale- che avrebbe lasciato un solco nelle menti per rinascere poi nel Risorgimento italiano». Venturi pensava all’Illuminismo ma sentiva battere nel suo cuore la democrazia e il socialismo del ‘900; per Croce non vibravano le stesse corde. Croce era però il grande filosofo, antifascista, teorico della “religione della libertà” e per Venturi, quindi, un interlocutore privilegiato per le questioni che gli stavano a cuore. Insomma, se gli studi di Venturi rispecchiavano il contenuto rivoluzionario delle posizioni gielliste, e per quel contenuto Croce non aveva nessuna simpatia, era però il comune antifascismo a prevalere. Era questo a far sì che il filosofo si sentisse solidale con quei fuoriusciti e, come si evince dalle lettere, si prestasse a fare da guida ai loro studi. Egli metteva la sordina a quanto poteva dividerli e faceva prevalere invece quanto li univa. Attutire il registro delle differenze non era così difficile, dato che la lotta al fascismo era una posta in gioco molto alta e assolutamente prioritaria.
Le lettere di Croce e Venturi avevano quindi come sfondo un nodo di interessi comuni ma non coincidenti che attraversava la politica e la storia. Il fatto che tutti e due si trovassero nelle file degli avversari del fascismo poteva solo momentaneamente mettere tra parentesi la differenza delle rispettive posizioni, e cioè che mentre Croce aderiva a una concezione liberale dello stato, il giovane Venturi era alla ricerca di definirne una concezione che fosse insieme democratica e socialista. Ora, se la divergenza fosse stata semplicemente quella di due studiosi diversamente atteggiati, di certo non si sarebbe arrivati al conflitto. Invece proprio a questo si giunse a causa dei presupposti che dietro quella disparità si agitavano.
         Si legga la lettera del 25 agosto 1946 dove, parlando del suo articolo su Boulanger, Venturi scriveva a Croce: «Le confesso che attendo con qualche timore il suo giudizio sulla seconda parte di questo studio. Sono giunto alla convinzione che Boulanger non conosceva Vico, che il “plagio” è una leggenda creata da Galiani. Ma, in realtà, mi domando talvolta se ho ragione, se non sono stato troppo categorico nello scartare un’idea affermata da un uomo come Galiani. Anche per quanto riguarda il problema teorico, e cioè l’importanza dell’idea illuministica di “progresso” sono giunto a conclusioni che le sottometto non senza qualche timore. Spero in ogni caso di non essermi lasciato trascinare a conclusioni errate dalla reale simpatia che ho per questo Boulanger, schiacciato dal gran nome di Vico e degno, mi pare, di essere considerato per il suo notevole pensiero personale»(p. 45). E’ facile capire che qui la preoccupazione di Venturi non riguardava tanto il diverso modo di interpretare Boulanger nella storia del pensiero, quanto piuttosto a quello che questo diverso interpretare presupponeva. Come avrebbe scritto diversi anni dopo in una lettera a J. Chaix-Ruy, «“j’ai commencé à travailler en partant de l’hypothèse de l’influence directe de Vico sur Boulanger. Certes vous avez assemblées toutes les éprouves possibles à cet égard. Je confesse qu’elles ne me semblent pas encore concluantes. J’ai peut-être tort, mais il me semble que tous les points de ressemblance entre Vico et Boulanger peuvent être ramenés à une tradition érudite commune au XVIII siècle héritée du XVII et de la Renaissance. C’est, il me semble, l’argument fondamental à ce propos … Mais le problème fondamental, il me semble, reste celui-là : est-ce que pour comprendre Boulanger, l’hypothèse d’une influence directe de Vico est-elle vraiment utile ? Il m’a paru que pour bien le placer historiquement, c’est dans le milieu des encyclopédistes »(pp.XXXI-XXXII). Il commento della Berti mette bene a fuoco la questione di fondo: «Era all’ambiente enciclopedistico che andava ricondotto il pensiero di Boulanger; non la comunanza di idee filosofiche andava sottolineata, ma la somiglianza dei temi trattati. Sopra tutto, era il tema del progresso a differenziare le concezioni di Vico e di Boulanger: “l’ ‘esprit cyclique’ rende impossibile la storia stessa, negando alla radice l’idea di progresso”» (p.XXXII). Sotto sotto la divergenza con Croce aveva proprio questo motivo: l’interesse di Croce non poteva certo andare verso una concezione progressiva della storia, ché questo sarebbe stato in lampante contrasto con la sua idea di storia, mentre il motivo del progresso attraeva irresistibilmente l’attenzione di Venturi.
         Questa divergenza, sempre espressa in modi molto contenuti, si era già proposta nel 1941, quando Venturi era al confino a Avigliano e studiava Tommaso Campanella. Nella Città del sole –che leggeva nell’edizione critica appena curata da Norberto Bobbio per Einaudi- Venturi trovava «temi che erano al centro della sua riflessione intellettuale e politica: l’oscuro vagheggiamento di un’utopia comunista; l’ideale di una riforma religiosa e civile prostrato dalla decadenza della libertà italiana (che vedeva rispecchiata in quella a lui contemporanea); la vicenda di un prigioniero il cui calvario non attenuò ma anzi accese il vigore estremo della testimonianza», come puntualmente osserva Silvia Berti. Ad un Croce non entusiasta della filosofia campanelliana, Venturi opponeva l’idea che quel pensiero fosse carico di spinta trasformatrice, di energia indispensabile al cambiamento, e questa spinta, questa energia, quantunque rivestita di forme concettuali ancora “arcaiche”, era ciò che faceva apparire agli occhi di Venturi l’utopismo di Campanella come un presentimento dell’illuminismo, cioè di quella filosofia che stava a fondamento di ogni ideale di democrazia e di socialismo.
          Dobbiamo dire che negli anni della guerra non si giunse mai a un contrasto. Le lettere rivelano un atteggiamento protettivo e premuroso di Croce verso il giovane storico. Da parte sua, poi,Venturi poteva scrivere nel maggio 1941 al filosofo napoletano: « di molte, moltissime cose vorrei ringraziarla, ma non le parlerò che di questo: i migliori giorni che ho avuto nei miei sette mesi di prigione sono stati quelli in cui ho potuto fortunatamente avere Il carattere della filosofia moderna e leggerlo e rileggerlo in solitudine»(p. 19).
Invece il conflitto esplose a guerra finita, quando ci si trovò di fronte alla necessità di ricostruire l’Italia moralmente e politicamente distrutta. Allora il giovane “rivoluzionario”  e il filosofo liberale si trovarono su posizioni non solo diverse ma incompatibili. Il fatto è che quei principi, che fino allora erano rimasti confinati negli studi portati avanti a fatica e in una pratica politica “annacquata”nei suoi tratti più distintivi dalla necessità di raggiungere come primo obiettivo la caduta del fascismo, si mutarono alla fine della guerra in decisioni politiche più discriminate e caratterizzanti e, quindi, meno facile era farli convivere con principi diversi. Il casus belli della rottura fu la scelta tra monarchia e repubblica. In quella circostanza Croce assunse una posizione equidistante e, come se non bastasse, aggiunse al suo ragionamento un elogio della classe borghese come quella capace del « “superamento delle classi economiche in un ufficio ideale, nell’ufficio imparziale del pensiero e della cultura”»(p. LVIII). Tutto ciò suscitò la reazione vivace di Venturi, che non esitò a bollare la scelta di Croce come retriva: « “Abbiamo sentito Croce fare l’elogio della borghesia al Congresso liberale di Roma. Non ha detto cose nuove, è molto tempo che scrive e dice le stesse cose. Precisamente circa vent’anni. Prima, Croce aveva posto le basi teoriche del suo atteggiamento, ma soltanto dopo la prima guerra mondiale ha annunciato chiaramente le conseguenze politiche delle sue premesse. Curioso, proprio al momento della crisi più evidente egli si è fatto apologeta della borghesia. Anche questo suo discorso è terminato con un’esaltazione storica della borghesia, all’avanguardia al tempo dei principi riformatori del Settecento, durante il Risorgimento e all’epoca della costruzione dello stato liberale. E poi? E poi silenzio, il vuoto. Non una parola su quello che ha fatto la borghesia durante il fascismo. L’apologia termina con una lacuna, con un buco ventennale. Sotto il fascismo Croce aveva chiuso la sua Storia d’Italia al 1915. Speravamo finalmente di avere il seguito. E invece il silenzio … Il desiderio di libertà, che anima sempre più profondi strati del nostro paese ha una sua logica interna a cui non si può sfuggire: la libertà è per tutti o non è, la libertà è inscindibile e, ferita da una parte, muore per tutti. Volere fare un partito classista della borghesia come si chiede e si sussurra dalle più diverse parti è soffocare sul rinascere queste tendenze liberatrici” »(pp.LVIII-LIX). Le parole di Venturi evocavano una vera e propria contrapposizione: gli amici di un tempo, alleati contro un nemico comune, si trovavano ora su sponde opposte. Non si trattava di scelte contingenti, ma di valori fondamentali. Era in gioco la libertà, che non poteva essere rettamente intesa se non come “di tutti”, diceva Venturi. Proprio quella libertà che Croce aveva concepito in modo così alto, ora era insufficiente nelle sue scelte politiche. Venturi ne aveva maturato un concetto diverso, che non poteva prescindere dall’esigenza di giustizia sociale e di eguaglianza di cui il socialismo era banditore. Ora, munito di quel principio, lo rivendicava contro Croce. Ma non era solo a farlo. Con lui c’erano altri giovani e intellettuali che si erano ritrovati nel Partito d’Azione.
Guardando a questo esito, Silvia Berti suggerisce però una interpretazione più conciliante dell’intera vicenda. E’ una interpretazione che ha dalla sua il fatto di intendere le cose nell’orizzonte più lungo che è proprio della storia delle idee, storia che non se ne sta ferma a situazioni circoscritte. Intende dire la Berti che non ci si deve fare incantare dagli esiti di quella battaglia politica e occorre, invece, capire che l’idea di libertà che Venturi rivendicava contro Croce era stata raggiunta anche grazie a Croce. E lo dice con le parole di Leo Valiani che in quel torno di tempo scrivendo al filosofo napoletano diceva che il loro gruppo era giunto al Partito d’Azione «perché la lettura e la meditazione dei libri di Benedetto Croce (che penetravano nei nostri reclusori di Lucca e di Civitavecchia e che con noi portavamo persino nell’incendio spagnolo e nell’esilio africano e americano) ci avevano portati a rivedere e a criticare la nostra primitiva e spontanea religione –il marxismo- e a tentare le vie di un socialismo reso concreto, costruttivo, moderato o antitotalitario che dir si voglia, grazie all’accettazione della filosofia liberale»(p. LXI). Era il giudizio di un uomo che rifletteva sul cammino percorso e riconosceva il debito contratto con Croce, non solo da lui, ma da tutti coloro che come lui avevano potuto guardare criticamente alla dottrina di Marx grazie all’ascendente che su di loro aveva esercitato la filosofia di Croce. Tra questi c’era anche Franco Venturi.
         Con la fine del fascismo si era chiusa un’era e se ne apriva un’altra. Nella prima, Croce era stato sentito come un grande e solido riferimento intellettuale e morale, la cui opera costituiva di per sé un baluardo contro la tirannide e l’espressione di quanto di meglio la cultura italiana del ‘900 aveva prodotto nel campo filosofico e letterario; nella seconda, Croce diventò il bersaglio delle delusioni e delle critiche di una intellettualità che cercava più di quanto il filosofo forse potesse dare e di quanto si potesse, in termini politici, esigere dalla sua dottrina. La storia del “declino” di Croce deve quindi essere intesa in stretta connessione con quella dell’importanza che la sua opera ebbe per tanta parte della cultura italiana. Storia che deve essere ricostruita minuziosamente perché la si comprenda davvero. Di questa ricostruzione il piccolo carteggio curato da Silvia Berti offre un tassello importante.
        



PUBBLICATO IL : 26-01-2010

 

Il copyright degli articoli è libero. Chiunque può riprodurli. Unica condizione: mettere in evidenza che il testo riprodotto è tratto da www.giornaledifilosofia.net / www.filosofiaitaliana.it

Condizioni per riprodurre i materiali --> Tutti i materiali, i dati e le informazioni pubblicati all'interno di questo sito web sono "no copyright", nel senso che possono essere riprodotti, modificati, distribuiti, trasmessi, ripubblicati o in altro modo utilizzati, in tutto o in parte, senza il preventivo consenso di Giornaledifilosofia.net, a condizione che tali utilizzazioni avvengano per finalità di uso personale, studio, ricerca o comunque non commerciali e che sia citata la fonte attraverso la seguente dicitura, impressa in caratteri ben visibili: "www.filosofiaitaliana.it", "FilosofiaItaliana.it" è infatti una pubblicazione elettronica del "Giornaledifilosofia.net". Ove i materiali, dati o informazioni siano utilizzati in forma digitale, la citazione della fonte dovrà essere effettuata in modo da consentire un collegamento ipertestuale (link) alla home page www.filosofiaitalianai.it o alla pagina dalla quale i materiali, dati o informazioni sono tratti. In ogni caso, dell'avvenuta riproduzione, in forma analogica o digitale, dei materiali tratti da www.giornaledifilosofia.net / www.filosofiaitaliana.it dovrà essere data tempestiva comunicazione al seguente in dirizzo (redazione@giornaledifilosofia.net), allegando, laddove possibile, copia elettronica dell'articolo in cui i materiali sono stati riprodotti.