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AA.VV., Marco Maria Olivetti. Un filosofo della religione , Fabrizio Serra editore, 2009
di Emanuela Giacca

«Quello di Marco Maria Olivetti è un pensiero difficile» (p. 9): le battute che aprono questo numero di «Archivio di filosofia», nella presentazione di Stefano Semplici, annunciano in una secca assunzione preliminare - che suona quasi come una limpida ammissione - lo spessore problematico del compito di cui esso si fa carico. La difficoltà di cui si parla non attiene d’altronde a un piano soltanto immediato ed è la sua portata teoretica che il volume tenta di mettere in luce. In prima istanza, esso vale dunque nel complesso come un efficace strumento - il primo tentativo sistematico in questo senso - per introdurre alla filosofia di Marco Maria Olivetti, cercando di coprirne l’intero sviluppo, dai primi lavori degli anni ‘60-‘70, passando per quello che è considerato il suo testo filosoficamente più arduo, Analogia del soggetto (1992), fino agli ultimi saggi pubblicati nel 2007-2008. Corredato da una nota biografica redatta da Francesco Valerio Tommasi, compare in chiusura un apparato bibliografico, ad opera di Stefano Bancalari, che ripercorre tutto l’arco delle pubblicazioni olivettiane, dal 1965 al 2008. La scelta di dar voce al pensiero di Olivetti attraverso le parole di allievi e colleghi e la varietà dei contributi testimoniano d’altra parte dell’impegno a prestare fedeltà al carattere composito di questo pensiero e al rigore che ne costituisce la cifra. Si tenta così il non semplice sforzo di una restituzione la quale, nel rimaneggiare categorie e passaggi poco battuti, non rischi di incorrere in un appiattimento della irriducibile “equivocità” che ad essi si associa, come accadrebbe nel caso di riformulazioni semplificanti o vagamente evocative. In questo la prima difficoltà.
In secondo luogo, l’indirizzo per una sua ulteriore articolazione risiede proprio nella considerazione del duplice scopo che il volume si propone. Da un lato, si mira genericamente a «ricostruire la rete concettuale e il “metodo” sottesi alla proposta teorica di un intellettuale che può ben dirsi a tutto tondo europeo e che si è confrontato con le linee di pensiero più feconde e influenti del novecento» (ibid.): Lévinas, il versante fenomenologico e quello analitico, la teoria della società. Dall’altro lato, più genuinamente storico-filosofico (sebbene nel senso rigoroso di una «storia filosofica della filosofia», per dirla con l’Olivetti di Filosofia della religione come problema storico), occorre esibire quella che può essere descritta come la più peculiare «convinzione» (p. 10) olivettiana - tale da recare i caratteri di una vera e propria «vocazione» (ibid.) - e che afferma la posizione privilegiata della filosofia della religione in quanto prospettiva sul moderno. Si tratta in particolare di ricostruire il rapporto di Olivetti con quegli autori (Kant, Jacobi, Fichte, Schleiermacher, Hegel) che hanno contribuito all’elaborazione di una filosofia della religione, meditando sul destino della metafisica onto-teologica nella filosofia post-illuministica. L’eterogeneità e il numero dei contributi raccolti (ventisei in tutto) non inficiano l’impressione di una sistematicità di fondo, che segue il filo di un percorso di massima tematico. Accanto ai saggi degli allievi, gli interventi presentati da B. Casper, P. Kemp, J.L. Marion, S. Semplici e P. Valenza in occasione della tavola rotonda del 4 gennaio 2008, tenutasi nel contesto dei Colloqui Castelli sul sacrificio (tema che era stato scelto da Olivetti stesso) e intitolata Marco M. Olivetti: il pensiero, l’opera, la persona.
Se la difficoltà del pensiero di Olivetti è una difficoltà, come anticipato, non ordinaria, si può introdurre a questo punto la questione che Semplici enumera come la prima delle caratteristiche che la specificano, questione che innerva, non a caso, la quasi totalità dei contributi raccolti. Ci riferiamo al «tentativo di sostituire l’etica all’ontologia come filosofia prima, anzi anteriore» (p. 9). In questa proposta il centro che più immediatamente sintetizza e identifica la produzione di Olivetti e che motiva un nuovo modo o «una nuova opportunità di “fare filosofia”» (ibid.). La proposta è di palese derivazione levinasiana. Ripercorrendo i momenti della levinasiana «inversione», come la definisce Olivetti, della tradizione moderna e contemporanea dell’appercezione trascendentale, Francesco Paolo Ciglia (Differenza e analogia. Percorsi dell’umano fra Lévinas e Olivetti) sintetizza in tre mosse il passo che Olivetti, nel mutuare la concezione di un’etica come filosofia prima, compie oltre Lévinas stesso. Esse si raccordano, in Analogia del soggetto, attorno a una «descrizione fenomenologica della genesi e delle diverse tappe evolutive dell’interlocuzione intersoggettiva fra la soggettività adulta e la soggettività in-fante» (p. 83). Dell’orizzonte etico-linguistico, dischiuso da Lévinas e radicalizzato da Olivetti attraverso un approccio «sfacciatamente empiristico» (p. 81) - la cui novità consiste in particolare nell’accentuare il carattere costituito del soggetto e nel dislocamento dell’orizzonte intersoggettivo-linguistico entro la stessa relazione duale fra il soggetto identitario e l’altro uomo - non si dice tuttavia pago Ciglia, il quale intende rimandare a uno «scenario ontologico più ampio e complesso» (p. 87). Quest’ultimo sarebbe in grado infatti di rispondere alla sfida posta dalla questione del soggetto senza incorrere in quella dimenticanza del mondano che connoterebbe invece l’asse Lévinas-Olivetti. Micali rimanda, per parte sua, all’«ambiguità tra etica e teologia nel pensiero di Olivetti» (p. 94), ambiguità che si rivela nell’«equivoco rapporto tra le due forme di terzietà» (p. 93), ovvero «il terzo come società e il terzo come Illeità» (p. 94). Accanto a Lévinas, la proposta di un’etica come filosofia prima - ricorda Iacovacci - viene maturata attraverso il confronto, tra gli altri, con Jacobi, annoverato «tra i primi che hanno saputo cogliere la necessità di una sostituzione dell’etica alla metafisica e all’ontologia come prote philosophia» (p. 167). Quanto detto profila immediatamente due questioni decisive: quella circa la dimensione simbolica e - attraverso il riferimento a Jacobi, da un lato, e all’illéité levinasiana, dall’altro - quella che concerne il carattere teologico del problema dell’intersoggettività. Si tratta in definitiva del «nesso etica-linguaggio-metaontologia» (Emanuela Pistilli, p. 169), individuato da Olivetti ne L’esito teologico della filosofia del linguaggio di Jacobi, del 1970, e successivamente approfondito in Analogia del soggetto. L’interesse per il linguaggio e per le lingue, come ricorda Casper, caratterizzano il profilo personale di Olivetti, ove l’interesse filosofico della questione, già ne Il tempio come simbolo cosmico. La trasformazione dell’orizzonte del sacro nell’età della tecnica (1967) è, di nuovo, etico: «es geht ihm um das Intervall, aus dem heraus ich immer schon zweite Person bin» (p. 12). Alla sfera simbolica è dedicato il primo lavoro di Olivetti, frutto della tesi di laurea discussa con Enrico Castelli e Franco Lombardi. Su questo lavoro e sull’influsso di Castelli, in particolare attraverso il saggio di quest’ultimo su Il simbolismo del tempo, si sofferma il contributo di Enrico Castelli Gattinara (In nessun luogo dell’ogni dove). Fraisopi propone invece un’originale lettura del lavoro giovanile in continuità con Analogia del soggetto: il costituirsi del soggetto per analogazione (ovvero: «non esiste un’essenza dell’essere umano», cfr. la Prefazionead Analogia del soggetto), che dà contenuto alla sua tesi fondamentale, affonderebbe le radici nell’orizzonte del sacro e nell’atto temenico che - cosmizzando il caos - costituirebbe le condizioni per lo scambio intersoggettivo. Il senso della «ierofania» e della «cosmopoiesi» (p. 229) starebbe allora nel riferimento a quell’Altro che dischiude l’orizzonte della soggettività. E pensare a questo Altro significa per Olivetti pensare all’intersoggettività o a Dio, in una «reciproca dipendenza meta-teorica» (ibid.). Nel passaggio dal pensare “x”, al pensare “a x”, sta il passaggio, d’altronde, dalla modalità scientifico-oggettivante dell’analogia entis a quella “teologale” - vedremo in che senso - dell’analogia fidei. Con ciò veniamo subito rimandati alla seconda delle questioni appena segnalate. Ci riferiamo allo stesso nodo concettuale che porta Pistilli a concludere in questi termini la disamina dell’opera su Jacobi: «La domanda con cui deve iniziare ogni filosofia non è il ti ésti o la ricerca delle cause, bensì la domanda sul senso. Una domanda che trova la sua risposta in Dio […]. In questa direzione si muovono le dichiarazioni di Olivetti sulla necessità di ricomprendere la riflessione di Jacobi sul linguaggio all’interno della filosofia della religione: l’esito della filosofia del linguaggio di Jacobi, e “forse” dello stesso Olivetti, non può che essere un esito teologico» (p. 177). Avanzare la proposta di un’etica come filosofia prima, nella retrocessione del primato metafisico-ontologico, significa dunque per Olivetti affermare il primato del “chi” sul “cosa”, del “Wer?” sul “Was?”, motivo dominante negli ultimi scritti: pensiamo in particolare a Intersoggettività e religione, in Perspectives sur le sujet, 2007. Cogliandro (Della modernità e del problema della filosofia della religione) ne sottolinea l’ascendenza scotiana e ne enumera, in quanto eredi inconsapevoli, vari esponenti della filosofia analitica, Strawson per tutti. L’influsso più prossimo sembra però rinvenibile - non senza l’apertura di questioni notevoli, il cui studio andrebbe senz’altro approfondito - nel pensiero del maestro Enrico Castelli: in Olivetti la filosofia della vita di Castelli - originatasi, lo ricordiamo con Annarita Meoli (Enrico Castelli: il maestro), dall’antisolipsismo metafisico di Bernardino Varisco attraverso la mediazione del volontarismo di Blondel - sfocia nella proposta di un’etica protologica, che ci pare rivelare la medesima tensione verso il superamento del solipsismo, da cui deriva anche l’interesse, “ultimativo” verrebbe da dire, del problema dell’intersoggettività. In questo l’originalità della proposta di Olivetti, che procede, in tal senso, oltre le formulazioni contemporanee dell’intersoggettività trascendentale. Nei due capitoli centrali di Analogia del soggetto, Olivetti affronta la questione della «trasformazione intersoggettiva dell’appercezione trascendentale» (p. 125), esaminando, da un lato, l’inversione levinasiana di cui si è detto, dall’altro, la trasformazione comunicativa dell’appercezione operata da Apel. Come chiarisce Hünefeldt, Olivetti perviene a un superamento di entrambe: la prima, infatti, pretende di derivare l’ontologia dall’etica, la seconda, con una tipica fallacia naturalistica, pretende di desumere l’etica dall’ontologia, mentre per Olivetti - sintetizza Hünefeldt - «l’essere dell’ontologia e il dover-essere dell’etica, possono essere derivati dall’inter-esse dell’intersoggettività» (p. 133).
Interlocutori contemporanei sul problema dell’intersoggettività, la filosofia analitica e la fenomenologia sono al centro dei saggi di Simone Marini e Giuseppe Di Salvatore. Da quest’ultimo, in particolare, si ricava il senso dell’iscrizione della fenomenologia nell’etica compiuta da Olivetti. Il privilegiamento della dimensione linguistica su quella cognitiva, ovvero il passaggio dal cogito al deponente loquor, sulla cui necessità Olivetti insiste spesso, non è infatti univoco. Ad esso si antepone il carattere normativo della fenomenologia, per avanzare un «primato normativo del rispetto» (p. 106), tanto che la normatività viene a costituire «il limite irrisalibile della fenomenologia stessa» (ibid.). Per attingere un’intersoggettività veramente interlocutiva - rammenta Di Salvatore - è necessario risalire alla dimensione “avventurosa” dell’etica, quella relativa all’azione futura. L’intersoggettività è inoltre al centro del contributo di Stefano Bancalari (La teoria dell’intersoggettività. Prolegomeni ad un’interpretazione). Due sono i significati che, secondo Bancalari, confluiscono nel determinare il senso, inedito, dell’intersoggettività olivettiana: questo risulta infatti dalla «fibrillazione» (p. 58), volutamente ambigua, tra il significato tecnico e quello ordinario, determinandosi, già nel 1986 (nell’Introduzione al convegno su Intersoggettività, socialità, religione), ma soprattutto in Analogia del soggetto, nei termini di una «scomposizione della presenza» (p. 51): «“intersoggettiva” è quella dimensione di eccedenza della presenza, quella piegatura della presenza, che ne contesta l’apparente semplicità - ossia, etimologicamente, l’assenza di pieghe - e l’apparente sincronicità» (ibid.). Ma intersoggettività è termine equivoco, della cui equivocità Olivetti intende tuttavia farsi carico, in un «metodo equivoco e dell’equivoco», «l’unico metodo legittimo di una teoria dell’intersoggettività» (p. 58). Significativo in proposito il superamento dell’alternativa fenomenologica naturale-trascendentale, non ridotto- ridotto, tramite una terza “categoria”, l’irriducibile, che gli consente, con una mossa radicalmente fenomenologica - sebbene non ortodossa, appunta Bancalari - di praticare un «“metodo” […] tutt’altro che puro» (citato a p. 56), un metodo che, per sua stessa ammissione, accetta la “con-fusione” tra approccio empirico e approccio trascendentale e accetta altresì, al fine di evitare l’esito solipsistico, di muoversi nella sua proficuità. Intersubjektivität und philosophische Gotteslehre è invece il titolo di un saggio di Olivetti, significativo già nell’annuncio, comparso su «Archivio di filosofia» nel 2001 e che costituiva l’introduzione ai Colloqui Castelli del 2000. Questa la sua tesi: «per poter pensare filosoficamente a Dio bisogna pensare all’intersoggettività e per poter pensare all’intersoggettività bisogna pensare a Dio» (citato a p. 251). Qui iniziamo a venire in chiaro circa la posta in gioco nel nesso intersoggettività-religione. Con Paolo Zordan riflettiamo, a partire da questa tesi, sullo statuto eccezionale dei due cogitata, Dio e l’intersoggettività, rispetto ai quali il soggetto non risulta più costituente, come cogito, ma, all’inverso, costituito. Se Kemp (The Exceptionality of the Ought. Olivetti and eco-ethica) conclude allora, circa l’intersoggettività, affermando che Olivetti ha bisogno di una filosofia della religione per supportare la speranza in una comunità etica e rispondere alla domanda kantiana “che cosa posso sperare?”, Fraisopi, per parte sua, lo inserisce risolutamente nel solco del «tournant théologique de la phénoménologie» (p. 222) in cui rientrano, a diverso titolo, autori come Lévinas, Henry, Marion, suoi diretti interlocutori. In altro modo, il nesso intersoggettività-religione si riproduce ancora nel binomio società-chiesa: «il problema della società - scrive Luca Diotallevi - non è altro dalla questione ecclesiologica o dalla questione della secolarizzazione» (p. 110). Proprio nella sociologia di Luhmann - con le dovute prese di distanza - Olivetti incontra una «sociologia della chiesa» (p. 113), accanto a una teoria sistemica che consente di articolare la persistente funzione del sistema chiesa nella società secolarizzata. Di questo stesso ordine di questioni fa parte, sebbene in un senso speciale, quella relativa alla professione di fede messa a tema nel saggio del 1996 Circa la compatibilità della professione di filosofo con la professione di fede cristiana, in cui Olivetti richiama a una continua metanoia del credente come alla conditio sine qua non per ogni comunicazione, speculare a quella che il laico depone nella possibilità di cambiare il proprio Standpunkt. Se la ricerca filosofica si specifica allora come un’«ermeneutica della fatticità» (p. 246), tesa a riconoscere i segni del sacro nel quotidiano, secondo Morlacchi (Profilo di un filosofo credente) la professione del filosofo si risolve, per Olivetti, in «atto teologale» (p. 249), motivo per cui la teologia e la religione non costituiscono un semplice oggetto di studio.
Queste allora le implicazioni della proposta di un’etica come filosofia prima: il riferimento alla dimensione simbolica e, a partire dal linguaggio, al ruolo strutturante del problema dell’intersoggettività, che si specifica in rapporto alla riflessione teologico-filosofica su Dio. Quadro disciplinare e prospettiva privilegiata di queste problematiche è la filosofia della religione. Torniamo con ciò al secondo cespite del duplice scopo riproposto in apertura: quello che mira a mostrare appunto il carattere privilegiato della filosofia della religione come disciplina storica. «Il contributo più importante di Marco Olivetti a questa disciplina è stato definire la reciprocità tra l’ambito tematico […] e il piano della ricerca storico-epistemologica che ne indaga la costituzione nella modernità […]. Infatti il problema teorico della filosofia della religione risiede essenzialmente nella definizione del suo statuto scientifico», annota Collacciani (Spinoza e lo spinozismo nel pensiero di Olivetti, p. 155). La nascita della filosofia della religione si lega infatti per Olivetti alla fine del sostanzialismo metafisico: alla constatazione di questa crisi - al centro di Filosofia della religione come problema storico (1974) - si può ricondurre secondo Marion (L’inconnaissabilité ou le privilège de l’homme), persino la tesi di Analogia del soggetto circa l’inesistenza di un’essenza dell’essere umano, tesi che afferma l’incomprensibilità dell’uomo al fine di preservarne l’umanità. Anch’essa riposa su una tesi teologica, quella sull’incomprensibilità di ciò di cui l’uomo porta “immagine e somiglianza”. Il cerchio si chiude. Filosofia della religione come problema storico prospetta però un nodo di cui si deve ancora rendere conto, forse il più significativo: la proposta cioè di un ritorno al trascendentalismo, o meglio a quello «spazio che intercorre tra visione critica e visione idealistica», l’unico modo, secondo Olivetti, per sfuggire al «trionfo della differenza» seguito alla fine dell’idealismo e al suo tentativo di una totalizzazione identificante della storia (speculare a quella ecclesiologica). De Vitiis è scettico rispetto a tale esito, cui preferisce la linea ermeneutica - liquidata da Olivetti come «illusione» che riproduce la differenza - Schelling-Heidegger-Gadamer, «più consona alla nostra condizione postmoderna» (p. 153) perché meno ancorata al concetto moderno di soggettività. De Vitiis esamina brevemente, tra l’altro, le analisi olivettiane dedicate a Schleiermacher, che forse avrebbero meritato più spazio nel volume. Un ulteriore arricchimento della proposta circa il ritorno al trascendentalismo l’abbiamo dal saggio di Federico Ferraguto (Filosofa della religione, intersoggettività, rivelazione. Il confronto con Fichte), che ricostruisce il ruolo svolto lungo tutta la produzione olivettiana da un altro interlocutore fondamentale, soprattutto rispetto al problema dell’intersoggettività: Fichte. Nelle battute finali Ferraguto suggerisce in particolare - con e al di là di Olivetti - che «anche il Versuch fichtiano sembra preannunciare quell’intrattenersi, o ritorno al trascendentalismo […] che Olivetti vedrà pienamente espresso nella Religione kantiana» (p. 199). Ed è proprio a Kant che siamo rimandati nei contributi di Gentile, incentrato sul problema del limite-confine, e di Tommasi, che titola Dallo «schematismo dell’analogia» al «trascendentale senza illusione». La riflessione «con» Kant e «al di là» di Kant: dal Kant del 1793 e de La religione entro i limiti della sola ragione, di cui Olivetti cura l’edizione italiana (si ricordi in particolare la densa introduzione all’edizione Laterza), al «trascendentale senza illusione», corrispondente al «carattere radicalmente responsivo e responsabile del soggetto» (citato a p. 72, cfr. il saggio olivettiano Trascendentale senza illusione. Ovvero: l’assenza della terza persona, 2002), per cui «L’istanza critica, come l’istanza religiosa, sono appunto “in-stanze”, incalzano la “stanza” analgesica dell’essere, e l’illusione del trascendentale» (ibid.). Al confronto con Hegel in merito alla filosofia della storia e al problema del linguaggio è dedicato il saggio di Claudia Melica (Pro memoria. Olivetti lettore di Hegel). Quest’ultimo apre un altro ambito di ricerca il cui approfondimento sarebbe auspicabile. Rispetto alla questione dello statuto disciplinare della filosofia della religione, ci preme infine ricordare il contesto accademico nel cui seno nasce la filosofia della religione di Castelli: le insufficienze “critiche” di una filosofia religiosa alla Gentile, da un lato, e la mancanza, negli studi di storia delle religioni, di «un’attenzione specifica di natura speculativa al “fenomeno religioso” che non fosse semplicemente uno “studio storico-comparativo dei fatti religiosi”» (p. 202), dall’altro. Inutile esplicitare il rilievo di questa svolta e della sua prosecuzione nell’ambito degli studi italiani. I Colloqui «Castelli» hanno costituito per Olivetti - e continuano senz’altro a costituire oggi - l’occasione di tale prosecuzione. Proprio attraverso un’analisi degli Avant-propos ai Colloqui, Pierluigi Valenza, nel contributo intitolato I Colloqui «Castelli»: una filosofia della religione attraverso gli Avant-propos, tratteggia il filo del percorso che abbiamo tentato di restituire: la crisi della metafisica onto-teologica e la proposta di un’etica come filosofia prima, ad essa conseguente, si riconnettono al carattere perenne della crisi dell’argomento ontologico. Ciò corrisponde in definitiva alla necessità ineludibile, per la filosofia della religione, di costituirsi in continuità con una teologia filosofica: l’argomento ontologico è la base costante per un esame critico dei limiti della ragione, persino, anzi più che mai, dopo la sua crisi. Non è senza significato allora - osserva Valenza - che, se il primo dei Colloqui organizzati da Olivetti è dedicato al tema Intersoggettività, socialità, religione, il Colloquio del 2000 abbia ad oggetto Intersoggettività e teologia filosofica. Qui l’«ispirazione levinasiana si coniuga con una riflessione che potremmo definire eucaristica» (p. 46), ove si pensa anche ad Analogia del soggetto e forse al saggio del 2005 su Die Ernährung des Anderen. Il pensare a Dio e il pensare all’intersoggettività, esprimendo nient’altro che questo bisogno di nutrimento, si riallacciano circolarmente, infine, alla questione storica circa lo statuto della filosofia della religione: il nesso tra intersoggettività e teologia filosofica è per Olivetti condizione imprescindibile per riflettere sull’intersoggettività dopo la crisi del sostanzialismo metafisico e al di fuori dell’ipoteca onto-teologica.
La complessità delle questioni in gioco emerge anche da un’esposizione sommaria. Numerosi gli indirizzi che il volume offre a una possibile ricerca e che meriterebbero uno sviluppo ulteriore: Olivetti come interprete della storia della filosofia moderna e contemporanea, il rapporto col maestro Castelli e, più a monte, la storia della filosofia italiana della religione di cui Castelli stesso è erede. Ma soprattutto, Olivetti come fautore di una proposta filosofica inedita e spiazzante, che si fa carico - con estrema serietà teoretica - dei più intricati nodi concettuali rinvenibili sul terreno, etico, di un pensiero dall’ispirazione profondamente “intersoggettiva”. Nel riuscire a tener ferma  l’altezza di questa ispirazione, forse, la più grande difficoltà.



PUBBLICATO IL : 26-01-2010

 

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