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Edmund Husserl, Introduzione all'etica , Laterza, 2009
di Federica Buongiorno

Le lezioni sull’etica del 1920/24, pubblicate nel XXXVII vol. della Husserliana con il titolo Einleitung in die Ethik. Vorlesungen Sommersemester 1920/24, ora disponibili anche in italiano a cura di Francesco Saverio Trincia, per la traduzione di Nicola Zippel (Introduzione all’etica, Laterza, Roma-Bari 2009), rappresentano uno snodo fondamentale della riflessione di Husserl sul problema etico, collocandosi ad una distanza temporale significativa dalle Vorlesungen über Ethik und Wertlehre 1908/14 (cfr. Lineamenti di etica formale, a cura di P. Basso e P. Spinicci, Le Lettere, 2002),l’altro testo husserliano esplicitamente dedicato all’etica, come pure dalle Logische Untersuchungen del 1900/01, in cui Husserl (specialmente nei Prolegomeni) mette a punto gli strumenti teorici di critica al relativismo logico e fissa le fondamentali distinzioni tra discipline teoretiche, normative e tecniche – motivi ripresi nei due corsi sull’etica sia per quel che concerne la definizione teorica del concetto di etica, quanto in funzione del “parallelismo di logica ed etica”.
Come sottolineato da Trincia nell’Introduzione alla versione italiana della Einleitung in die Ethik, la riflessione husserliana sull’etica presenta, pur nel suo sviluppo, una fondamentale unità: il nucleo teoretico di tale riflessione, infatti, può essere colto e dispiegato attorno ad una triade di concetti che compaiono già nelle primissime pagine dell’Introduzione all’etica e che ricorrono anche nei Lineamenti di etica formale. Si tratta delle nozioni di praktische Vernünfitgkeit («razionalità pratica»), praktische Konsequenz («coerenza pratica») e praktischer Widerspruch («contraddizione pratica»): si tratta, come si vede, di tre espressioni che declinano in senso pratico concetti tradizionalmente inerenti all’ambito logico (razionalità, coerenza, contraddizione), assecondando il motivo – classico per Husserl – del parallelismo di logica ed etica ma cercando al tempo stesso, in queste lezioni più decisamente che nei Lineamenti di etica formale, di “riempire” il parallelismo, di dargli un peso dal punto di vista della considerazione pratica. Si può già intuire la difficoltà del tentativo husserliano: in che senso si può (anzi, per Husserl si deve) parlare di razionalità pratica? In cosa consiste esattamente la coerenza pratica, come la si stabilisce e definisce? Esiste una contraddizione pratica? Come la si esibisce? E in che modo, infine, queste categorie vanno ad articolare la nozione fenomenologica di praktische Vernunft?
L’Introduzione all’etica si presenta nella forma, normalmente inusuale per Husserl, di una trattazione in prevalenza storico-filosofica della problematica etica, scandita secondo le fasi dell’opposizione tra “moralisti del sentimento” e “dell’intelletto”, dunque della polarità tra la posizione di Hume, largamente apprezzata e ripresa da Husserl, e sistema kantiano, qui sottoposto a una critica ancor più serrata che nelle lezioni del 1908/14. Ciò su cui vorremmo focalizzare l’attenzione, allo scopo di chiarire la triade concettuale sopra enunciata, sono tuttavia il primo e l’ultimo capitolo dell’opera, dedicati rispettivamente alla «Definizione sistematica introduttiva e delimitazione del concetto di etica» e a «La prospettiva di un’etica della miglior vita possibile fondata sulla volontà». Il primo capitolo fornisce infatti il quadro concettuale entro cui si muoverà l’analisi storico-filosofica condotta nei successivi otto capitoli, nei quali Husserl, misurandosi in sostanza con il pensiero etico d’età moderna (e specialmente, oltre a Hume e Kant, con Hobbes e con i pensatori scettico-relativisti, la critica ai quali costituisce il punto di svolta della trattazione), approfondisce il concetto di etica delineato, predisponendolo al problematico orizzonte ideale che chiude l’opera, «l’idea etica di una vita universale della volontà conforme a norma».
Come anticipato, nel primo capitolo dell’Introduzione all’etica Husserl compie, in riferimento all’etica, la stessa operazione di distinzione tra scienza, tecnica (Kunst) e disciplina tecnica (Kunstlehre), che nel 1900/01 aveva attuato in relazione alla logica: l’operazione è compiuta in vista della fissazione dell’etica come disciplina tecnica suprema, organizzata attorno ad uno scopo supremo, cui ogni scienza è chiamata a sottomettersi. Lo stesso interesse teoretico motivante le scienze, infatti, mira all’unità della teoria e in quanto non è privo di scopo (non cerca “la verità per la verità”), è chiaro che «in qualsiasi scienza stiamo in un regno della prassi [Reich der Praxis], in cui ci guida l’unità di uno scopo pratico e di un sistema di scopi» (p. 17). Risiede qui una prima ragione per cui possiamo parlare di “razionalità pratica”: la razionalità è un modo della ragione, in quanto ragione teoretica, che si ordina entro la ragione pratica. Ciò autorizza Husserl a porre il parallelismo tra logica pura ed etica pura come scienze pure della ragione, che hanno nella conoscenza scientifica e nell’agire etico le rispettive discipline tecniche: Husserl tuttavia precisa subito che la Kunstlehre in rapporto all’etica consta di un sistema proposizioni pratiche e non di verità, per cui il “consiglio [Ratschlag] vero” non equivale al “giudizio vero”. Nondimeno, ogni proposizione teoretica può essere gewendet, «riconsiderata in senso pratico» (p. 21) e viceversa: che le discipline tecniche possano essere intese come anche scientifiche dipende proprio dalla possibilità a priori della conversione reciproca di proposizione teoretica e pratica. In quanto vengano intese come scienze, le discipline tecniche sono tecnologie: l’etica è «sovraordinata rispetto a tutte le tecnologie», scrive Husserl, «nella misura in cui, nel nostro agire, valuta tutte le posizioni di scopi dal punto di vista di ciò che è dovuto in modo assoluto» (p. 23).
Quale è lo scopo fondamentale di questa sottile argomentazione husserliana? Sullo sfondo agisce l’intento di critica a scetticismo e relativismo in ambito etico: se l’etica può essere fondata e trattata scientificamente, dunque teoreticamente, mantenendo nel contempo la sua peculiare motivazione pratica, essa viene garantita dalla relativizzazione empirista delle sue leggi. Tale garanzia è essenziale, agli occhi di Husserl, in quanto – è il motivo dell’ultimo capitolo – lo scopo ultimo dell’etica è di carattere ideale (è, appunto, «l’idea etica di una vita universale della volontà conforme a norma») ed esso ci resta pertanto nascosto da una “radicale cecità”, se restiamo aderenti al punto di vista empirico. L’ideale della scientificità e quello dell’eticità si incontrano così nel concetto di razionalità, e come si parla di razionalità logica, deve potersi parlare anche di razionalità pratica: sarà forse utile richiamare al riguardo la struttura del parallelismo di logica e etica, per come esso viene strutturato nei Lineamenti di etica formale. Qui esso assume i tratti del parallelismo tra giudicare e valutare: il giudicare è l’atto di intendere un significato (una proposizione in senso logico, un giudizio) come suo contenuto. A tale contenuto di giudizio possono corrispondere verità o falsità, all’atto di giudizio la razionalità o l’irrazionalità logica. Analogamente, il valutare è l’atto di intendere un dover-essere, un valore (piacevole o spiacevole) come suo contenuto, dunque una valutazione: al contenuto spetterà allora il carattere dell’essere un valore o dell’essere un disvalore, all’atto del valutare corrisponde invece la razionalità o l’irrazionalità assiologica (Cfr. Lineamenti di etica formale, tr. it. cit., p. 68). Ora, se ci è chiaro – almeno dal punto di vista logico-formale – cosa si intende con “irrazionalità logica” (potremmo riferirci, kantianamente, all’impossibilità di un pensiero che non obbedisca alle sue proprie regole formali, in primo luogo al principio d’identità), meno ovvio è cosa debba intendersi con “irrazionalità pratica”, ciò che nell’Introduzione all’etica Husserl chiama praktischer Widerspruch: se in ambito logico conosciamo tradizionalmente i principi formali del pensiero corretto, razionale, e li conosciamo in quanto sono di carattere analitico, dunque li troviamo inerenti al concetto stesso del pensiero umano, nel caso della ragion pratica non sembra si disponga di principi analiticamente ricavabili dal concetto dell’agire etico, pur considerato nella sua purezza. Husserl stesso riconosce, anzi, che in ambito etico è necessario far intervenire un elemento sintetico nella considerazione dell’imperativo categorico: su ciò appunto ruota la critica all’imperativo categorico kantiano. Se studiamo il rapporto pratico tra volere un fine e mezzo della sua realizzazione, notiamo, scrive Husserl, che «non si tratta affatto di un rapporto ‘analitico’, di un rapporto di conclusione logica» (Cfr. Lineamenti, cit., p. 72). Si potrebbe dire che l’Introduzione all’etica si assume, rispetto alle lezioni del 1908/14, proprio il compito di approfondire e sostanziare questa tesi di non analiticità dell’imperativo categorico, che equivale al riconoscimento della sua non formalità o, almeno, della sua non identificazione con la pura forma dell’imperativo: si capisce, così, quanto profondo sia sul punto l’allontanamento da Kant.
La difficoltà della declinazione teorica della posizione così assunta da Husserl si riflette nel linguaggio che egli utilizza, in cui abbondano e sono di centrale rilevanza le espressioni che ricercano una resa in primo luogo linguistica della sintesi di elemento formale e materiale: è il caso della triade concettuale enunciata in apertura, assunta a guida delle considerazioni qui svolte, come anche di numerose altre locuzioni impiegate da Husserl e ottimamente tradotte da Nicola Zippel. E’ lo stesso vocabolario husserliano a testimoniare lo sforzo di mantenere una simmetria, essa stessa formale, tra considerazione formale e sua declinazione pratica, nella quale sembra venire tuttavia a delinearsi, in modo quasi involontario, un’asimmetria in favore dell’etica: la preoccupazione husserliana di mantenere anche il discorso etico nell’ambito di una piena e rigorosa scientificità teoretica, allo scopo di garantirne il campo da eventuali sconfinamenti scettico-relativistici, subisce in queste lezioni una torsione sottile, che distingue l’argomentazione husserliana dalle posizioni sostenute nelle lezioni del 1908/14 e che apre la strada ad un ripensamento complessivo di ciò che tradizionalmente si è inteso con “etica”. Già nei Lineamenti di etica formale Husserl ammoniva circa l’insufficienza di una contestazione puramente logico-formale dell’etica scettica, che auto-implode in forza di un controsenso specificamente pratico, ovvero di una morale scettica, conseguente ad una teoria scettica, impraticabile in quanto praticamente contraddittoria e non conforme al senso peculiare del “morale”. Già allora Husserl lottava con le difficoltà inerenti alla caratterizzazione di questo “controsenso pratico”, con la difficoltà, cioè, di fuoriuscire dalla confutazione logico-teoretica per disporsi su un campo interno al discorso etico, che discutesse le opzioni etiche secondo parametri interni a tale discorso e non presi a prestito, malgrado il parallelismo, dalla sfera logica. Tralasciando la valutazione circa la riuscita o il fallimento, in quelle lezioni, del tentativo attuato da Husserl – e ricordando che una tale valutazione non potrebbe, in quella sede, prescindere dall’evidenziazione di quanto profondamente incida sull’argomentazione husserliana il motivo del parallelismo di logica ed etica, sbilanciato dal lato della ragione giudicativa, cui viene riconosciuto un fondamentale primato rispetto ad ogni altra declinazione della ragione stessa – è interessante osservare come nell’Introduzione all’etica, pur introducendo il tema del parallelismo sin dalla prima riga del primo paragrafo, Husserl si collochi direttamente sul piano della trattazione etica cercando di svolgere il parallelismo stesso, per così dire, “in parallelo”, tenendo insieme ragione logica e ragione pratica (previa distinzione dell’interesse peculiare che le motiva al fondo), laddove nelle lezioni del 1908/14 il parallelismo consisteva (in maniera ancora riduttiva per l’etica) in un’esposizione preliminare dei modi e delle caratteristiche della ragione logico-giudicativa, cui seguiva la descrizione della ragione pratica nel suo modellarsi su quella teoretica. Da questo cambiamento d’impostazione deriva una diversa considerazione, in sede di analisi storica, delle varie opzioni teoriche espresse in campo etico: la considerazione husserliana si fa più precisa e meno riduttiva delle peculiarità dei vari pensieri presi in esame, e in particolare emerge un diverso approccio rispetto al grande tema dello scetticismo. Questo resta, tanto in campo teoretico quanto in campo pratico, una posizione filosoficamente insostenibile: tuttavia, Husserl sembra qui ritenere, molto più che nelle lezioni del 1908/14, che una posizione scettica nel campo specificamente etico non sia possibile non tanto perché lo scetticismo si auto-confuta, ma perché a rigore lo scetticismo stesso è impossibile ed è persino ragionevole dubitare che i suoi sostenitori siano da ritenersi effettivamente scettici.
Mentre nei Lineamenti di etica formale Husserl concedeva qualcosa, per così dire, all’argomentazione scettica, tanto da sottolineare che essa non poteva essere combattuta permanendo sul puro campo logico ma doveva essere aggredita nel suo stesso “controsenso pratico”, e concludeva sostenendo l’auto-confutazione logica e pratica di ogni scetticismo (una conclusione non esente da un’intrinseca debolezza, consistente proprio nella difficile e non del tutto chiara caratterizzazione del “controsenso pratico”), nell’Introduzione all’etica la considerazione storica svolta da Husserl affina la sua capacità d’analisi critica e lo porta a riconoscere, nello scetticismo, una deficienza di metodo, all’interno di un corretto inquadramento dei fondamentali problemi fenomenologici in campo etico: la scorrettezza del metodo è sempre, per Husserl come già per Cartesio, indice di un’insostenibilità della proposta teorica, sì che lo scetticismo viene qui valutato come intrinsecamente insostenibile. In questa valutazione dello scetticismo, più sottile ma al fondo anche più severa, emerge così una rivalutazione positiva dell’ordine di problemi da esso posti: esattamente il contrario di quanto risulta dalla critica husserliana a Kant, il quale si è avvalso di un metodo corretto, che ha permesso la fondamentale scoperta della idee der Selbstregulation mediante la ragione, ma ha fallito nell’inquadramento dei problemi, in quanto ha escluso completamente dall’ambito dell’imperativo la sfera della sensibilità e dell’emotività. Anche in sede di analisi storico-filosofica, emerge così la consapevolezza husserliana di una sintesi tra livello formale e materiale: una sintesi che retroagisce sul vocabolario di base fenomenologico, spingendo Husserl ad affrontare la questione della razionalità, della coerenza e della contraddizione pratica non più in riferimento peculiare allo scetticismo, ma in relazione alle modalità che strutturano la stessa ragion pratica.
Si spiega con questo sforzo di riconoscere all’etica uno suo statuto peculiare, non derivato né riducibile a quello logico-teoretico, l’affermazione per certi versi sorprendente di Husserl, secondo cui l’etica possiede «un’estensione incomparabilmente più universale rispetto a quella della logica e a tutte le altre possibili discipline tecniche», in quanto «giudicare scientificamente è anzi solo una forma particolare dell’agire umano, gli scopi teoretici della volontà sono solo una classe particolare degli scopi della volontà in generale» (p. 4). Qui Husserl assume una posizione diametralmente opposta a quella del 1908/14, dove si affermava l’universalità imprescindibile della ragione logico-giudicativa proprio in quanto giudicativa, come ciò che permette l’articolazione di quei giudizi mediante i quali ogni “dire”, anche quello etico, trova espressione. Ma si trattava appunto di un’universalità formale: l’universalità maggiore dell’etica, cui Husserl si riferisce nella Einleitung in die Ethik, sembra invece un’universalità “materiale” – come se Husserl ci volesse dire che nell’etica troviamo “più materia” (del nostro agire), proprio perché, se considerata nella sua purezza, l’etica si riferisce ad ogni agire umano e non solo, come la logica, a quella particolare forma dell’agire che è il giudicare. Sarebbe dunque, paradossalmente, la stessa considerazione pura dell’etica a permettere il riconoscimento della sua ricchezza materiale, concreta, che conosce un solo limite: quello della motivazione in quanto razionale, fuori della quale non vi è responsabilità e dunque spazio alcuno per il discorso etico. Ma allora “razionalità pratica” potrebbe significare proprio questa razionalità della responsabilità, che si identificherebbe in primo luogo con il riconoscimento della necessità di ordinare la propria esistenza secondo quell’idea di vita universale della volontà conforme a norma. Con il che, la considerazione svolta nel primo capitolo dell’Introduzione alla logica si riallaccia, essendosi svolta e arricchita nella conferma dell’analisi storico-filosofica, della quale abbiamo avuto modo di accennare i nodi principali, alla conclusione contenuta nell’ultimo capitolo: i due paragrafi che lo compongono sono assolutamente indicativi del percorso svolto da Husserl nell’intera opera, per come abbiamo cercato di riassumerlo qui.
In primo luogo, Husserl afferma la necessità di distinguere tra atteggiamento assiologico e atteggiamento etico, il che suona come una riconferma della volontà husserliana di disancorare il discorso etico dalla sfera teoretica, o meglio – come si è visto – di rovesciare, precisandoli, i termini della questione: vi è sì un rapporto analogico tra teoria (anche tra teoria dei valori, come assiologia) ed etica, nel senso che la ragione logica “presta la sua voce” a quella pratica; ciò è però possibile non in quanto la ragione teoretica si applichi, dall’esterno e sovraordinatamente, alla sfera pratica, quanto piuttosto perché la stessa ragione giudicativa è riconosciuta come specificazione della più universale ragione pratica ed appunto perciò questa può anche darsi un’articolazione teoretico-giudicativa, strutturandosi come una scienza. Ciò suonerebbe, volendo essere radicali, come una sorta di proclamazione dell’etica quale “filosofia prima”, come una specie di rovesciamento dei termini tradizionali del discorso filosofico. La considerazione si chiude così, al § 49, con la risposta alla domanda posta dalla ragione pratica: was soll ich tun, che cosa devo fare? La risposta husserliana suona come un appello radicale alla responsabilità del soggetto ed ha quindi una valenza che giustamente Trincia definisce, nella sua Introduzione, di carattere “esistenziale” (senza con ciò volersi riferire ambiguamente alla tradizione heideggeriana del termine): la volontà deve essere diretta all’autoregolazione (risiede qui, nell’essere autonomamente determinata della regolazione, la radice della responsabilità soggettiva), autoregolazione in vista della «miglior vita possibile, come vita che dev’essere per me assolutamente dovuta». Si tratta, appunto, dell’«idea etica di una vita universale della volontà conforme a norma» (p. 142): è possibile, scrive Husserl, dass ich einen universalen Normwillen stifte, «che io fondi una volontà normativa universale» (p. 248), ma, appunto, è possibile. Il soggetto potrebbe non riconoscere la possibilità essenziale di questo compito esistentivo, potrebbe ordinare la propria esistenza pratica secondo altre priorità, potrebbe scegliere di non essere “razionale”: in cosa consiste, esattamente, questa possibilità? Il massimo della caratterizzazione raggiungibile, è così espressa da Husserl: «abbiamo, quindi, la meravigliosa peculiarità, che appartiene all’essenza dell’umanità, per cui c’è o può esserci una normazione autonoma [Selbstnormierung], una normazione dell’intera vita e della vita nella pienezza totale delle possibili forme particolari, una regolazione nella volontà diretta a una legittimità normativa realmente universale, che si estende fin oltre ogni interesse normativo particolare, anche ogni interesse professionale» (p. 246). E’ questo il massimo della determinazione concreta che sia possibile fornire di un imperativo categorico, di cui si cercava appunto un riempimento, un sostanziamento effettivo, di contro al «vuoto formalismo» (p. 238) kantiano: ciò non sembra un paradosso, alla luce del tentativo husserliano di sganciare l’ambito etico dall’inclusione, in qualche modo riduttiva dell’etica stessa, nella sfera logica. Una volta che si rinunci al fare “teoria etica”, fosse anche assiologia, per calarsi nell’etica in quanto tale, per riconoscere il primato dell’agire eticamente, si è già detto molto di “concreto” o, se si preferisce, si può dire molto poco di concreto in quanto l’invito è, ora, direttamente all’azione: alla traduzione pratica dell’ideale della Selbstnormierung. Se sia proprio questa traduzione attiva della norma universale a costituire il riempimento pratico della teoria, se la materia della forma venga a determinarsi in quanto si agisca secondo la forma, motivata bensì razionalmente, ma sulla base della stessa sensibilità ed emotività del soggetto agente (in ciò la grande differenza da Kant); o se la distinzione, attuata da Husserl al penultimo paragrafo del testo, tra assiologia ed etica, dovesse essere un preludio a qualcosa d’altro, che Husserl avrebbe voluto dire sull’etica – tutto ciò resta ovviamente indeciso. E’ certo però che la riflessione husserliana sul problema etico, per come appare in questa Introduzione all’etica, ci propone due possibili compiti: uno teoretico, per così dire più accademico, di prosecuzione – anche critica – della riflessione husserliana sul rapporto tra sfera formale e materiale dell’imperativo etico, su ciò che dovrebbe o potrebbe riempirne concretamente la forma, su come si possa ricercare una più precisa declinazione dell’ideale; ed un compito, invece, propriamente pratico, che ci impegnerebbe – nel caso lo ritenessimo degno di un tentativo – a tradurre praticamente l’ideale dell’auto-normazione, per verificare se non sia proprio per questa via “esistenziale”, pratica e problematica in senso vitale che potremo riscontrare il “farsi vivo”, il riempirsi di contenuto dell’ideale.



PUBBLICATO IL : 13-04-2010

 

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