L’origine dell’uomo non sarebbe uscita che nel 1871. Nell’Origine delle specie – uscita nel novembre ’59 – Darwin si era d’altro canto limitato a un fugace, conclusivo auspicio: luce sarà fatta sull’origine dell’uomo e la sua storia. Eppure, nonostante la cautela di tale affermazione, la specie umana fu subito al centro dei dibattiti che dall’Inghilterra si irradiarono in tutta Europa. Alla divulgazione della tesi di una possibile parentela uomo-scimmia concorsero in particolare tre opere, con soluzioni alquanto diverse l’una dall’altra, nessuna delle quali incentrata peraltro sulla selezione naturale: Geological Evidences of the Antiquity of Man di Charles Lyell (1863), Vorlesungen über den Menschen di Karl Vogt (1863) e, soprattutto, Man’s Place in Nature di Thomas H. Huxley (1864). Quest’ultimo si era fatto conoscere, tra le altre cose, per un acceso scambio di vedute occorso il 30 giugno del 1860 presso l’Oxford University Museum con il vescovo Samuel Wilberforce. Questi, intervenuto di fronte a un nutrito uditorio, dopo aver esposto le prove a suo dire contrarie alla teoria dell’evoluzione per selezione naturale, ebbe l’imprudenza – e l’impudenza – di apostrofare direttamente Huxley chiedendogli se discendesse da una scimmia per parte materna o paterna. Quando fu il suo turno, Huxley, non prima di aver esposto le prove a favore della parentela tra la specie umana e le scimmie antropomorfe, replicò al vescovo che non reputava affatto disdicevole l’idea di discendere da una scimmia; al contrario, trovava assai più spiacevole l’idea di discendere da un uomo, come il vescovo, che adopera i propri talenti per oscurare la verità.
L’episodio doveva aver avuto una discreta eco, se nel 1864 Filippo De Filippi ne dava notizia in una celebre conferenza dal titolo L’uomo e le scimie, tenuta presso l’Università di Torino e pubblicata poco dopo su «Il Politecnico». La conferenza di De Filippi non costituiva certo il debutto della teoria darwiniana in Italia. Un sunto dell’Origine delle specie era infatti uscito proprio su «Il Politecnico» già nel 1860, e in quello stesso anno «La Civiltà Cattolica» non tardava a rendere nota la propria stroncatura del testo. Tuttavia tra il 1859 e il 1864 in Italia non si conoscevano che le discussioni svolte negli altri paesi – in particolare in Inghilterra, Germania e Francia – che per l’appunto vertevano in particolar modo sulla questione della “parentela uomo-scimmia”. Non è certo impresa facile cercare di individuare le ragioni di tale ritardo; il fermento politico e sociale all’indomani dell’unità finalmente raggiunta può essere una buona spiegazione. Quali che siano i motivi, fu in ogni caso soltanto con la conferenza di De Filippi che la questione raggiunse finalmente l’opinione pubblica italiana; il vespaio di entusiasmi e polemiche – legati, il più delle volte, a motivi lontani dalla scienza – approdava finalmente anche nel nostro paese.
Centro particolarmente vivace, da questo punto di vista, fu la città di Firenze. Le voci erano tante, e ben poche quelle qualificate. Il dibattito era approdato persino in parlamento, dove verso la fine del ’66 si era levata la protesta di D’Ondes-Reggio, nel corso di una discussione sui programmi scolastici, al quale aveva replicato sdegnato Paolo Mantegazza. Il biologo Federico Delpino, l’anno successivo, avrebbe invece difeso una forma di darwinismo sposato con la dottrina vitalistica e con il principio delle cause finali; proprio sul finalismo Delpino avrebbe avuto in seguito un interessante scambio epistolare con lo stesso Darwin, il quale dissentiva dall’italiano circa l’interpretazione teleologica del fenomeno di fecondazione delle orchidee.
A innalzare il livello della discussione, ma anche il tono della polemica, fu però soprattutto la lezione del fisiologo russo Aleksandr Herzen dal titolo Sulla parentela fra l’uomo e le scimie, tenuta al Museo di Storia Naturale della Specola il 21 marzo 1869. Nel corso di questa lezione, che altro non era che un’applicazione della teoria darwiniana alla specie umana, Herzen ammetteva, accanto alla stretta affinità anatomica tra l’essere umano e le scimmie antropomorfe, una «immensa differenza funzionale», la quale, secondo il russo, poteva tuttavia essere ricondotta a cause soltanto materiali, vale a dire alla maggiore perfezione dei centri nervosi e degli organi vocali. Herzen riusciva in tal modo ad avere, per così dire, la botte piena e la moglie ubriaca: da un lato, si faceva sostenitore di una filosofia prettamente monistica e materialistica; dall’altro, manteneva il sogno ancora antropocentrico di un brillante avvenire per l’umanità, fondato sul presunto progresso intrinseco ai processi evolutivi. Era solo uno dei tanti esempi – in Italia come all’estero – della possibile interpretazione quasi-escatologica del fenomeno dell’evoluzione.
A replicare alla lezione di Herzen furono soprattutto due voci. La prima apparteneva al Senatore Renato Lambruschini, il quale, avuta notizia della lezione di Herzen da «La Nazione», inviò al giornale una lettera di protesta che fu poi pubblicata il primo aprile. In essa egli esprimeva alcune preoccupazioni di ordine educativo, ma soprattutto si lasciava andare a un’invettiva circa i rapporti tra scienza e fede, affermando la assoluta necessità che le verità della prima non confliggessero con quelle, ben più importanti, della seconda. Inoltre, Lambruschini prendeva una netta posizione contro ogni interpretazione naturalistica dei fenomeni biologici: una legge puramente naturale, infatti, non può che implicare una messa da parte del creatore: «è lei Iddio; e se la legge è necessaria, questo Dio è schiavo». La polemica con Herzen proseguì sulle colonne del medesimo giornale.
La seconda risposta giunse dalla penna di Niccolò Tommaseo, proprio nel breve pamphlet da poco ristampato per i tipi di Sassoscritto. Ad accomunare le repliche di Tommaseo e Lambruschini è soprattutto il tono polemico, se possibile addirittura accentuato nel caso del filosofo di Sebenico. In un susseguirsi di dieci lettere, cui si aggiunge un discorso conclusivo, Tommaseo chiama in causa scienziati, logici, pitecologi, filologi, donne, giovani, perfino le scimmie, contro l’odiosa dottrina che «rivela, o Italiani, che voi non siete liberi, ma che non potete volere; vi rivela la vostra imbecillità durata per secoli, l’imbecillità di quelle scimmie trasformate che voi onoravate col titolo d’uomini grandi» (p. 13). Il tono, lo si vede subito, non è quello dell’argomentazione serena e distaccata, ma è piuttosto quello di chi grida allo scandalo, di chi inveisce, di chi non rinuncia al sarcasmo e all’ironia quali armi retoriche.
Ogni pretesto è buono per un attacco frontale a Herzen e alla sua dottrina. Nella prima lettera, ad esempio, Tommaseo contesta l’uso in generale che il russo fa della lingua italiana. Anche in seguito, molte obiezioni del filosofo saranno di natura terminologica: ad esempio, si mette in dubbio l’uso di termini quali ‘selezione’ ed ‘elezione’ (nelle prime traduzioni italiane dell’Origine delle specie, il termine natural selection fu appunto tradotto con ‘elezione naturale’), in quanto stanno a indicare un’attività libera e intenzionale e non, come si pretende, cieca e meccanica.
Tommaseo insiste molto sulla povertà delle prove portate da Herzen. Particolare oggetto di critica sono quelle di carattere embriologico: non c’è consequenzialità logica, sostiene l’italiano, tra il cambiamento di un organismo nel tempo e quello delle specie viventi. Inoltre, se a un certo punto dello sviluppo l’embrione umano comincia a distinguersi da quello della scimmia, «la distinzione dev’essere insita nel principio latente della sua intima vita, e non sovrapposta per aggiunzione di materia o per impressione d’estranei elementi» (p. 41). E ancora: «Altro sono le forme esterne de’ corpi, altro la forma intima virtuale dell’essere loro» (p. 42). In altre parole, la diversità tra esseri umani e scimmie è da ricondurre alla diversità dei principi formativi, reciprocamente incommensurabili, irriducibili a differenze soltanto di grado. Né si può invocare il fatto che la maggioranza dei biologi siano favorevoli all’ipotesi difesa da Herzen: anzi tutto perché in filosofia i suffragi «non si numerano ma si pesano» (p. 25); in secondo luogo perché i biologi, fintantoché rimangono semplici fisiologi, sono condannati a restare ignoranti del fenomeno della vita (una tesi, tuttavia, che Herzen avrebbe egli stesso sottoscritto, quando affermava «che non abbiamo da fare con soli cadaveri – bensì con organismi viventi»).
Nemmeno la paleontologia, secondo Tommaseo, parla a favore dell’ipotesi della parentela. Non vi sono anelli intermedi che colleghino la scimmia all’uomo, e «trovassesi anco una forma di scimmia tutta simile all’umana o d’umana alla scimmiesca, cotesto non concluderebbe nella scimmiesca e nell’umana la desiderata unità; converrebbe provare che l’uomo-scimmia avesse parole e ragione» (p. 43). Tommaseo tende a confondere – in questo passo come altrove – la parentela con l’unità. Ma la teoria darwiniana non postulava altro che la derivazione di tutti gli organismi viventi da un antenato comune, attraverso un processo di divergenza e selezione; non già, dunque, l’annullamento delle specie l’una nell’altra, bensì la trasformazione delle stesse da tipi o essenze a risultati provvisori di un processo storico-genealogico. È proprio la necessità di rimettere in gioco il concetto di specie che Tommaseo non accetta o non vede; e se pure concede all’avversario che possano esistere forme intermedie «che collegano la cicuta al rospo, il rospo al mandrillo, il mandrillo allo scienziato» (p. 24), nel caso dell’essere umano egli esclude categoricamente tale possibilità.
È difficile oggi non sorridere di fronte ad alcune delle argomentazioni di Tommaseo. In alcuni casi, come detto, non si tratta nemmeno di vere e proprie argomentazioni, quanto piuttosto di invettive e arringhe. In altri, il filosofo sembra invece fare eccessivo affidamento sull’immaturità della teoria nascente, come nel caso della ricordata discussione sull’insufficienza delle prove portate da Herzen. Tommaseo non è mai colpito dal pensiero, fin troppo ovvio per i contemporanei, che le prove non possano mai precedere completamente la teoria, ma che sia piuttosto la teoria a indirizzare la ricerca e a fornire una lente con cui leggere le evidenze empiriche.
Ma oltre a ciò il pamphlet di Tommaseo pone due importanti problemi che, ancora oggi, le filosofie di indirizzo naturalistico non possono ignorare – relativi ad altrettanti aspetti che, secondo Tommaseo, pongono tra l’umano e l’animale un vero e proprio baratro: il linguaggio e il libero arbitrio. Rispetto al primo, Tommaseo scrive: «Nella parola umana distinguesi il suono e il senso; nel senso […] il sentimento e l’idea congiunti in unità che non può essere cosa materiale, checché se ne dica. Sin nel vocabolo che denota un oggetto sensibile, un che di generale c’è sempre, in quanto la mente può quel nome stesso applicare ad altri oggetti esistenti o possibili senza numero» (p. 63). Se «l’umano pensiero non è cosa estesa, e non lo produce l’esteso» (p. 56), lo stesso deve valere per la parola in quanto portatrice di ‘senso’, la quale soltanto dischiude la possibilità – preclusa a qualsiasi animale – di formare idee generali degli oggetti sensibili. Il passaggio dal suono privo di senso a quello che ne è dotato, pertanto, dev’essere necessariamente per saltum e nessun “anello mancante” potrà mai colmare tale abisso: «né il canto, né alcun suono di bestia, né il favellìo delle gazze o de’ pappagalli, significa idee generali, né si fa atto a significarle a noi che le abbiamo» (p. 64). Tommaseo non poteva sapere che un tentativo in tal senso sarebbe stato compiuto, qualche anno più tardi, da George J. Romanes, che in un testo del 1888 dal titolo Mental Evolution in Man – un brillante condensato di psicologia, filosofia e filologia – tracciava il percorso dalla mente animale alla mente umana, offrendo una interessante ricostruzione della comparsa del linguaggio umano, proprio sulla base della capacità astrattiva già presente in alcuni animali.
Rispetto al secondo problema, la discussione di Tommaseo sembra avere due matrici. La prima, di natura specificamente filosofica, verte sull’eterogeneità e irriducibilità dello spirito alla materia, che induce il filosofo di Sebenico a respingere con sdegno la riduzione della volontà a semplice meccanismo nervoso: «Così dileguato dalla luce della materia ogni buio dello spirito, sarebbe troppo indiscreto chi domandasse al definitore che cosa possa essere nel meccanismo de’ nervi una rappresentazione» (p. 73). La seconda affonda le radici nei moti risorgimentali – e in generale nelle lotte per la conquista delle libertà civili: «Ma questo gridare che fa il secolo nostro libertà, questo agitarsi e morire nel nome d’essa, è egli tutto un cinguettare e un dimenarsi di scimmie?» (p. 77). Determinismo e catene, agli occhi di Tommaseo, sembrano legati da un medesimo destino: qualsiasi rivendicazione di libertà risulterebbe del tutto vana di fronte all’affermazione di una ineluttabile necessità naturale. D’altro canto la protesta, lo sdegno, il biasimo, presuppongono quella libertà – e se Herzen, «facendosi a dire che tutto è necessità, si sdegna ch’altri dubiti del suo detto, contradice a sé stesso» (p. 78).
L’uomo e la scimia costituisce dunque un’ottima “porta d’ingresso” al fine di immergersi in un periodo culturale alquanto fecondo per il nostro paese. Di tale fase, l’opuscolo di Tommaseo restituisce molti aspetti: il fermento politico, il risentimento verso lo straniero, la polemica, la reazione talvolta sorda e confusa alle novità scientifica, ma anche l’entusiasmo, la passione, l’attaccamento alla tradizione. L’auspicio è che tale pubblicazione, anziché restare un fatto isolato, possa incoraggiare l’editoria italiana alla riproposizione di almeno alcune tra le tante voci che intervennero nel nostro paese sulle questioni sollevate dal darwinismo. |