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Danilo Breschi, Spirito del novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione , Rubbettino, 2010
di Andrea Pinazzi

Frutto di un lungo percorso, iniziato con la stesura, a metà degli anni novanta, della tesi di laurea dell’autore, il lavoro di Breschi costituisce una riflessione complessiva sulla vicenda filosofica ed esistenziale di Ugo Spirito e rappresenta il primo studio di questo genere dopo l’uscita del libro di Giovanni Dessì dal titolo Ugo Spirito. Filosofia e rivoluzione, pubblicato a cura della Fondazione Ugo Spirito nel 1999. Impreziosito in appendice da due inediti spiritiani, questo bel volume si articola in tre lunghi capitoli: i primi due frutto della rielaborazione di saggi già pubblicati, il terzo interamente inedito.
Intrecciando biografia, filosofia e politica, l’autore offre al lettore un’immagine a tutto tondo della vicenda intellettuale di Spirito, attraverso un percorso che parte dalle originarie posizioni positiviste e, passando per l’adesione all’attualismo e al fascismo, giunge a esaminare le ultime posizioni del filosofo aretino.
Il primo capitolo riguarda i rapporti di Spirito col fascismo. Al di là delle alterne vicende che caratterizzarono l’attività politica di Ugo Spirito all’interno del regime che, pur rilevantissime sul piano storico e biografico, costituiscono motivo di minore interesse per i nostri temi, l’autore rimarca come il filosofo aretino inserisca l’adesione al fascismo all’interno di quella all’attualismo gentiliano: «Io mi sono trovato ad essere fascista nell’ambito della mentalità gentiliana» (p. 13). Il fascismo di Spirito si innesta così sulla tematica gentiliana dell’immanenza della società all’individuo, su quella dell’uomo naturaliter sociale su cui Gentile costruisce il suo concetto di Stato etico. Ne risulta un fascismo di natura particolare, che Spirito chiamerà il «suo» fascismo, così come in seguito parlerà di «suo» comunismo: un fascismo imperniato totalmente, o quasi, sulla struttura della corporazione e dell’azienda come organismo politico di base, che lo spingerà a interpretarlo come «comunismo gerarchico» ovvero come un «ordinamento corporativo integrale» che «ha la possibilità di realizzare la sua essenza di movimento sintetico che ha fatto proprie le “esigenze ineliminabili dell’individualismo (libertà, personalità) e dello statalismo (autorità, organismo sociale)”» (p. 77). Proprio nella rivendicazione della natura rivoluzionaria e corporativa del fascismo vanno ricercate le ragioni del disamoramento e del distacco di Spirito dal fascismo reale. Prescindendo dai motivi filosofici che, senza dubbio, giocarono un ruolo rilevante nelle scelte politiche di Spirito, Breschi ricorda correttamente come il filosofo appartenesse a una generazione di intellettuali desiderosi «di assurgere al ruolo di edificatori di un nuovo Stato» nella convinzione che «la giovane nazione italiana, ormai giunta alla maggiore età, abbia una missione da compiere» (p. 6). L’attestarsi del regime fascista, in seguito alle riforme legislative del 1929 e alle necessità sopraggiunte con la guerra d’Etiopia, su posizioni che poco avevano a che vedere con le istanze rivoluzionarie che Spirito aveva scorto, o credeva di aver scorto, nel movimento nascente, determinerà un suo progressivo allontanamento, sia sul piano pratico che su quello teorico, da una realtà politica mossa spesso più dalla convenienza che da alti ideali. Spirito, deluso da «un pensiero che non aveva saputo farsi realtà politica» (p. 83), indica nel 1935 la data che segna la fine del suo fascismo. Breschi sottolinea, tuttavia, come, anche in scritti successivi a questa data, Spirito finisca per promuovere alcune politiche del regime, in particolare quella economica, e come nel biennio 1941-1943 si possa assistere ad un riavvicinamento di Spirito al fascismo. Il distacco di Spirito dal fascismo è, dunque, una lenta evoluzione, non ha il carattere della cesura: «sicuramente, dopo il 1935 Spirito non ricopre più un ruolo centrale nel dibattito culturale interno al regime, ma questo perché dopo l’impresa etiopica emergono altre priorità rispetto all’instaurazione dell’ordinamento corporativo» (p. 123). E’ comunque un fatto che, col passaggio in secondo piano dell’istanza corporativa, Spirito perda il principale motivo d’interesse per il regime.
L’autore individua quattro fasi nel rapporto tra Spirito e il fascismo: la prima arriva fino al 1927 e non è caratterizzata da apporti personali al regime. La seconda va dal 1927 al 1932 e vede uno Spirito occupato a «dare traduzione politico-istituzionale al principio dell’identificazione tra Stato e individuo» (p. 120). Nella terza (1932-1935) si impegna nell’obbiettivo della costruzione di una nuova società, approfondendo criticamente tematiche anticapitalistiche e antiliberali. La quarta fase che va dal 1936 alla caduta del regime, segna un ulteriore approfondimento di queste posizioni «che investe i presupposti filosofici della stessa teoria corporativa» (p. 121), e che, tuttavia, non produce un distacco definitivo dal fascismo. Al termine di questo lungo primo capitolo emerge con chiarezza la tesi che sia possibile parlare di un antifascismo maturato in seno all’evoluzione teorica della teoria corporativista solo post festum.
Il secondo e il terzo capitolo affrontano in maniera più diretta tematiche filosofiche.Viene sottolineata l’importanza fondamentale, sostenuta tra gli altri da Augusto Del Noce, dell’iniziale adesione di Spirito al positivismo, risalente al periodo in cui l’aretino frequentava, presso la facoltà romana di Giurisprudenza, le lezioni di Enrico Ferri, a sua volta allievo di Roberto Ardigò, fondatore della sociologia criminale. Le tesi positiviste, ormai in declino, spingono Spirito a porsi delle domande circa la natura umana, «in particolare la questione del “libero arbitrio” e del rapporto tra l’individuo (nella fattispecie del delinquente) e la collettività in cui vive» (p. 135). E’ dalla ricerca di una libertà possibile, dunque, non meno che dalla necessità di indagare sui fondamenti speculativi del diritto e dell’economia, che Spirito è spinto ad avvicinarsi alla filosofia, a quella gentiliana in particolare. L’autore sostiene che tra l’iniziale positivismo e la successiva adesione all’attualismo non possa essere rinvenuta una frattura vera e propria; le ragioni della continuità vanno cercate nella «analisi del tipo di positivismo a cui ha attinto il giovane Spirito» (p. 138), che «non è una ricerca analitica sui procedimenti delle scienze, ma denota quella pretesa diffusa tra i positivisti (Comte per primo) di affidare alla scienza la scoperta di “ipotetiche strutture ultime della realtà”» (p. 141). Il positivismo di Spirito sarebbe, dunque, caratterizzato da una «tentazione monistica» (p. 142) che lo accomunerebbe all’idealismo. Echi di un positivismo di matrice spenceriana risuonerebbero, inoltre, all’interno della stessa dottrina corporativista di Spirito, caratterizzata da organicismo e funzionalismo. E’ Spirito stesso a fornire l’idea di una «sostanziale continuità» (p. 154) tra positivismo e idealismo: l’esperienza, il fare, in cui Spirito cerca il superamento del dualismo soggetto-oggetto si pone come condizione necessaria per un immanentismo assoluto. In accordo con le posizioni gentiliane, Spirito non relega la filosofia a ruolo di ordinatore dei risultati raggiunti dalle singole scienze: scienza e filosofia sono momenti dialettici inseparabili di un unico sapere, in cui la filosofia si pone come come «la coscienza critica della scienza stessa nel suo processo storico» (p. 154). Sono queste le posizioni iniziali di Spirito, molto vicine a quelle del maestro, destinate a svilupparsi in una «metafisicizzazione della scienza» (p. 164) secondo cui è in quest’ultima che si deve tentare l’unione di scienza e filosofia. Conclusa la fase di adesione entusiasta all’attualismo, per il filosofo aretino si apre, infatti, una fase in cui la filosofia da soluzione si fa problema. Il dirigersi verso una posizione in cui il ruolo primario è rivestito dalla scienza deve essere inteso come esito naturale della tendenza monistica insita nel pensiero di Spirito: «la verità scientifica solletica […] il consenso generale, e la verità filosofica, al contrario, non riesce a persuadere tutti e anzi divide in prospettive inconciliabili» (p. 166). Oltre a fornire al filosofo una lezione di umiltà, costringendolo al confronto serrato e costante con la realtà fattuale, la scienza è – secondo il pensatore aretino – il vero risultato della filosofia hegeliana: «lo scienziato, in altri termini, crede nell’assoluta armonia del mondo, nella sua divinità e muove dalla fede nella razionalità del reale. La metafisica immanentistica hegeliana trova nella scienza la sua formulazione e la sua realizzazione effettiva» (ibid.). Nella necessità che ogni sapere si converta in scienza è, poi, insita quella di conoscere il tutto nella parte, che apre alla visione onnicentrica di un universo come rete di relazioni in cui l’uomo è immerso e in cui, almeno dal dopoguerra, la trascendenza come tale non è più negata (cfr. p. 184).
Dati i nuovi risvolti della filosofia di Spirito nel secondo dopoguerra: perdita della dimensione atropocentrica tipica dell’idealismo assoluto e conseguente riduzione dell’uomo da produttore della storia a prodotto storico, Breschi sostiene che se nella produzione filosofica spiritiana si può individuare un fil rouge questo sembra più «l’afflato romantico, a tratti misticheggiante, tipico del filosofo storicista ottocentesco» (p. 202)  che una vera coerenza interna al sistema.
Sebbene a prima vista possa apparire improbabile, una continuità può essere invece ritrovata con facilità nel pensiero politico di Spirito. Lungi dall’essere un ideologo, tanto nel fascismo quanto nel comunismo, Spirito cerca una sua idea di politica, un suo progetto di società. Sul piano pratico il passaggio dall’una all’altra fazione, e l’entusiasmo mostrato verso l’esperienza sovietica e quella cinese si spiegano col fatto che nel comunismo Spirito cercava non una società di uomini liberi e uguali, ma «una società macchina, fondata sull’unità e la collaborazione di tutti al progresso e alla modernità della convivenza» e «l’euforia collettiva e il pathos partecipativo di un “cittadino totale”» (p. 234), in questo senso il comunismo costituisce la prosecuzione dell’originario corporativismo. Spirito ritiene, insomma, almeno per un momento, di aver trovato nel comunismo, in particolare in quello cinese, «una nuova via alla società antiborghese e anticapitalista vagheggiata durante il ventennio fascista» (p. 237), una strada per instaurare una politica all’altezza dei tempi moderni, segnati dal dominio della scienza e della tecnica «trasformate nel loro contenuto, passando dalla dimensione dei mezzi a quella dei fini» (ibid.). Si riaffaccia, allora, l’ipotesi che una certa coerenza interna alle posizioni di Spirito esista, ma sia da ricercare nell’idea di una filosofia che non si limiti a contemplare il mondo ma lo trasformi. L’eco marxiana di questa posizione è evidente. Un parallelismo con l’evoluzione filosofica di Marx è, in effetti, proposto da Breschi: come il filosofo tedesco nasce hegeliano di sinistra, così Spirito raggiunge la maturità intellettuale come gentiliano di sinistra, le analogie si fermano tuttavia qui, mentre profonde sono le differenze. In Spirito non si tratta di attuare un rovesciamento della dialettica gentiliana: il suo «sinistrismo» consiste piuttosto «in una ripresa, compiuta in anticipo rispetto allo stesso suo maestro, delle giovanili intuizioni gentiliane sulla “filosofia della prassi”» (pp. 244-245). E’ in questo recupero, infine, che vanno collocate tanto l’adesione al fascismo che la successiva fede comunista, intesi entrambi come «sprivatizzazione dell’economia e fusione di statale e sociale, di pubblico e privato» (p. 246). A proposito del suo comunismo Spirito dirà, con un’affermazione che segna la cifra di una vita: «al comunismo non potevo rinunciare, dopo avere impostato tutta la mia vita nella ricerca di un ideale di vita illuminato dal superamento dell’individualismo» (p. 247).
E’ questo, dunque, il filo conduttore che guida l’opera filosofica e filosofico-politica di Spirito, che resiste ai cambiamenti di posizione teorica restando sempre presente al fondo della speculazione spiritiana. L’Ugo Spiritio che Breschi vuole restituirci è un intellettuale che, forse proprio a causa della molteplicità di aspetti che ha caratterizzato il suo pensiero, e della volontà di porsi sempre come interprete del suo tempo – nel segno di una continuità di fondo in cui lo sviluppo e il mutamento delle posizioni filosofiche si pone per lo più come variazione sul tema di un’integrazione totale tra individuo e società –  è in grado di indicarci meglio di altri quale sia stato lo spirito del novecento.



PUBBLICATO IL : 09-12-2010

 

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