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Wolfgang Rother, Verbrechen, Folter, Todesstrafe. Philosophische Argumente der Aufklärung , Schwabe, 2010
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di Federica Buongiorno |
La pubblicazione, avvenuta nel 2010 a Basilea, di questo agile volume di Wolfgang Rother riveste subito un interesse particolare per chi si occupi, tra l’altro, di filosofia italiana: al centro dell’indagine che vi si svolge, infatti, campeggiano i due massimi esponenti dell’Illuminismo italiano d’area milanese, Cesare Beccaria e Pietro Verri. Appare certo degno di nota che un ricercatore e professore di lingua tedesca dedichi una parte consistente dei propri studi a pensatori italiani sostanzialmente ignoti oltralpe, come da lui stesso ricordato nella Premessa, contribuendo all’approfondimento di settori di ricerca altrimenti poco battuti. È naturale chiedersi, allora, quali ragioni teoriche abbiano motivato una scelta di questo tipo e quale proficuità si ritiene di ricavarne: è nello stesso volume che l’Autore ci offre elementi utili alla risposta.
L’interesse di Rother per la filosofia italiana, e in particolare per il pensiero illuministico italiano, non è certo occasionale: insieme a Johannes Rohbeck egli ha curato, anch’esso per i tipi di Schwabe, il volume dedicato all’Italia (all’interno della sezione sulla filosofia del XVIII secolo) nella serie Grundriss der Geschichte der Philosophie, pubblicato nel 2010. Già nel 2005 compariva, peraltro, il testo principale tra quelli da lui dedicati al pensiero italiano: La maggiore felicità possibile.
Untersuchungen zur Philosophie der Aufklärung in Nord- und Mittelitalien (Schwabe 2005). Attualmente Privatdozent für Philosophie presso l’Università di Zurigo, Rother ha dunque dedicato un’attenzione continua e approfondita alle tematiche dell’Illuminismo settecentesco italiano, con particolare riferimento all’opera di Verri e Beccaria e agli intrecci tra riflessione politica e filosofia del diritto. L’indagine svolta da Rother su questi temi, al centro dello stesso volume in esame, si nutre di una prospettiva storico-filosofica arricchita da un’acuta attenzione critica verso i problemi più genuinamente teoretici che scaturiscono dall’analisi dei testi. Tale approccio è completato da una non banale attualizzazione delle questioni in campo, di cui si ha già un saggio nella (più che mai competente) presentazione dell’opera da parte di Carla Del Ponte, fino al 2007 Procuratore capo del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia.
Per tornare alle domande che ponevamo in apertura, il movente alla base della ricerca compiuta dall’Autore è da questi così riassunto nelle primissime pagine del libro: «Beccaria e Verri non sono in alcun modo noti, oggi, al di fuori dell’Italia, Hommel [il terzo dei pensatori presentati nel volume, oppositore – negli stessi anni di Beccaria – della pena di morte dal versante tedesco e diffusore delle idee di Beccaria in Germania] è un autore largamente dimenticato. Tuttavia, una discussione con questi pensatori dell’Illuminismo è ancor oggi proficua e allettante – i loro argomenti contro la tortura e la pena di morte non hanno perso nulla in attualità e significato» (p. 12). Attualità e significato di questi temi risaltano anzi, oggi più che mai, in tutta la loro urgenza: non si tratta solo di questioni su cui è vivo e acceso il dibattito, se non altro in virtù della loro occorrenza di fatto o anche liceità in taluni Paesi e delle conseguenti prassi a ciò connesse, ma anche di fattori di complicazione del contesto storico attuale, in cui «lo shock dell’11/9 ha condotto a una relativizzazione pragmatica del divieto assoluto di tortura, fiaccato dai tentativi di rilegittimazione teoretica della tortura come metodo d’inchiesta» (ibidem).
Il nodo problematico che, sin da queste prime battute, risulta centrale nella discussione è costituito dal rapporto tra pena e giustizia, cui Rother dedica uno specifico capitolo. Si sottolinea anzitutto, concentrando l’attenzione su Dei delitti e delle pene di Beccaria, come la fonte di legittimità della pena risieda da ultimo, per l’illuminista milanese, nel contratto sociale e nella sovranità posta a suo fondamento: l’orizzonte contrattualistico è declinato da Beccaria nella tesi per cui il diritto (nella sua accezione politica, distinta dalla nozione di diritto naturale e divino) è “modificazione del potere (Macht)”, rispondente a un criterio di fondo utilitaristico – quello della felicità, o del benessere, della maggioranza. È in questo punto che l’indagine di Rother torna a incrociare le ricerche già svolte nel volume del 2005. In un tale contesto di pensiero, la “giustizia” non può che essere intesa come “emanazione dell’interesse”, di quell’interesse generale che consiste nel mantenimento della società. L’Autore non manca di rilevare i nessi tra quest’impostazione di Beccaria e la riflessione dei grandi contrattualisti e giusnaturalisti d’epoca moderna, primi fra tutti Rousseau e Grozio, per poi passare all’evidenziazione dell’affinità con Verri, che nell’articolo Sull’interpretazione delle leggi (apparso nel 1764/65 su «Il Caffè») riformulava le tesi di Beccaria, il quale aveva teorizzato un “dispotismo del bene pubblico”, parlando di “dispotismo delle leggi”, uniche garanti di uguaglianza e libertà.
L’infrazione della legge assurge, così, a suprema violenza rivolta non meramente contro i singoli bensì contro l’intera comunità sociale. La sanzione conseguente, tuttavia, non può consistere nella pena di morte né può servirsi dei metodi della tortura in quanto questi contraddicono lo scopo supremo della pena, che – secondo Beccaria – consiste essenzialmente nell’impedire che il colpevole reiteri il delitto e nello scoraggiare gli altri membri della comunità dal commetterne. Ciò implica che il colpevole sia mantenuto nella sua integrità fisica, la quale è presupposta dalla pena: la condanna a morte, dunque, non sarebbe una pena e pertanto va respinta. Nell’ottica di Beccaria, la sanzione poggia a tal punto sulla “realtà” (sull’esistenza) del sanzionato da dover corrispondere alla natura del reato commesso: «le violenze vanno punite con punizioni corporali (§ 20), il furto con pene pecuniarie o l’arresto, che includano il lavoro per la comunità (§ 22), il delitto d’onore con la perdita della cittadinanza onoraria (§ 23), il disturbo della quiete pubblica con l’esilio (§ 24)» (p. 31).
Rother entra nel merito delle argomentazioni avanzate da Beccaria e Verri contro tortura e pena di morte in due capitoli specifici, in cui analizza i principali scritti dedicati al tema dai due illuministi. Per quanto concerne la «critica della tortura», egli esamina, oltre a Dei delitti e delle pene, e in particolare al § 16 Della tortura, i due scritti del Verri: l’Orazione panegirica alla giurisprudenza di Milano (risalente al 1763 e primo documento di critica dell’Illuminismo milanese alla pratica della tortura) e le Osservazioni sulla tortura, scritte negli anni ’70 del Settecento ma pubblicate solo nel 1804. Si riporta, anzitutto, la definizione di tortura resa dal Verri: «col nome ‘tortura’ intendo non una pena, che venga inflitta a un imputato per sentenza del tribunale, bensì la presunta ricerca della verità mediante supplizi» (p. 53). L’uso strumentale della tortura viene così contestato dal Verri in tre passaggi argomentativi: anzitutto, si nega – in base a motivi antropologici, di diritto e giuridici – che la tortura sia un efficace strumento di scoperta della verità. In seconda battuta, si analizzano le fonti di diritto e le pratiche d’inflizione della tortura, allo scopo di verificare se anch’esse riescono nell’accertamento della verità o lo mancano: la conclusione di Verri è che si tratta di mezzi inadatti allo scopo. Il terzo passaggio argomentativo pone la domanda, più radicale, se la tortura sia un mezzo d’indagine lecito: la convinzione di Verri è che non lo sia in nessun caso. Se, infatti, la tortura è intesa come mezzo per accertare la colpevolezza, si hanno due possibilità: o l’autore del delitto è certo, e allora la tortura è superflua e perciò inammissibile, oppure esso è soltanto probabile – nel qual caso, valendo la presunzione d’innocenza, l’inflizione della tortura è procedura illegittima di accertamento della verità. Beccaria ricalca grossomodo l’argomentazione di Verri, basandosi però su una più stringente considerazione delle tesi invalse a giustificazione della pratica della tortura.
Sulla «critica della pena di morte», la disamina di Rother ripercorre i luoghi classici dell’opera di Beccaria, connettendo costantemente l’argomentazione del filosofo milanese alle premesse contrattualistiche del suo pensiero. Così, la ben nota citazione in cui Beccaria deplora il ricorso dello Stato alla pena di morte viene strappata, se ve ne fosse bisogno, alla sua altisonanza retorica, per essere riconnessa al sostrato argomentativo che la sostiene: «parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio» (p. 87). Il fulcro dell’affermazione di Beccaria consiste nel collegamento posto tra leggi e pubblica volontà: la stessa legge che vieta l’omicidio non può ricorrere, per rendere efficace il divieto, a ciò che in essa si vieta, non solo perché in ciò si annida una perniciosa contraddizione logica e, eventualmente, una sconfessione moralmente inaccettabile del concetto stesso di legge; un simile procedere non può essere accettato soprattutto perché esso innalzerebbe un’evidente eccezione al diritto a espressione della volontà pubblica e darebbe, così, dignità universale a un contenuto che contraddice detta universalità.
L’Autore dedica gli ultimi due capitoli del libro alla descrizione della ricezione dell’opera di Beccaria in Italia e in Europa, con particolare riguardo alla Germania, ove le sue tesi furono riprese e diffuse da Karl Ferdinand Hommel, che ebbe modo di leggere Dei delitti e delle pene (pubblicato anonimo a Livorno nel 1764) nella traduzione tedesca del 1766. La panoramica qui offerta da Rother, con accuratezza storica e ricostruttiva, restituisce l’atmosfera complessiva del dibattito suscitato dalle tesi di Beccaria, delle quali l’Autore giunge a rilevare un’eco nell’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948. Il clamore con cui fu accolta l’opera di Beccaria, subito tradotta nelle principali lingue europee e oggetto di discussione approfondite (si ricorda in particolare il successo della versione francese del 1765 a opera di Morellet, il quale – nella sua Premessa – definiva Dei delitti e delle pene «un libro che appartiene al mondo intero» [p. 76]), stride con la relativa dimenticanza in cui l’opera, come pure altre pregevoli prove dell’Illuminismo italiano (milanese e non solo) è caduta in tempi più recenti. È, dunque, da accogliere con tanto più favore il riuscito e sistematico tentativo di Wolfgang Rother di gettare nuova luce su questi classici del pensiero italiano.
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PUBBLICATO IL : 31-12-2010 | |
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