Il libro di Giovanni Perazzoli si apre con un’avvertenza che è opportuno tener presente nel corso della lettura: «questo è e non è un libro su Benedetto Croce. È un libro su Croce, perché vi si trova un’analisi della sua filosofia della pratica, con essenziale riferimento al problema giuridico. Ma non è per intero un libro su Croce, perché è anche un libro sul diritto positivo» (p. VII). Ma questo è un libro su Croce: è un testo in cui la figura del pensatore napoletano riveste un ruolo più che centrale, rispetto ai pur importanti riferimenti ai classici del diritto positivo. Il senso di questa preminenza è chiaro non appena si colga l’intento del libro che non è senz’altro quello di fornire un confronto tra le dottrine crociane e le positiviste quanto, piuttosto, quello di cogliere il modo in cui Croce si rapporti al diritto positivo, in una certa chiave il tema è il diritto positivo di Croce, visto da Croce.
Croce rappresenta, nelle intenzioni dell’autore, un «punto di vista privilegiato sul problema del diritto positivo» (p. VIII) per il carattere stesso della sua filosofia che si distanzia dalla tradizione positiva proprio per uno dei punti che è a essa centrale: la considerazione dell’empirico. Quella di Croce è una tesi “eversiva” nel senso che giunge effettivamente a dissolvere la realtà del diritto, di una sua esistenza autonoma, riducendolo all’agire economico. Bisogna però chiedersi «che cos’è questa “realtà” del diritto positivo che Croce avrebbe perduto?» (p. XIV). Accanto a questa domanda ne sorge subito un’altra: perché Croce è spinto a difendere il carattere di “finzione” che scorge nel diritto positivo? A entrambe le domande, la risposta giunge dalla comprensione delle aporie che si possono scorgere nel diritto positivo, riconducibili alla sovrapposizione del carattere di verità a quello di realtà della legge. Il merito di Croce nei confronti del diritto positivo è quello di smascherare le tendenze del positivismo a «trasformarsi in “filosofia generale”; e “consapevolmente o no, l’idea della filosofia generale prepara la restaurazione della Metafisica”» (p. XXVII). È questo un punto centrale per comprendere il motivo ispiratore del testo: il diritto positivo ricade in una metafisica nel momento stesso in cui assume come indubitabilmente vere le premesse da cui muove, affermando la verità ontologica della legge. Il tema antimetafisico si costituisce, dunque, come il filo rosso da seguire, e Croce assume la funzione di uno strumento, un grimaldello, in grado di guidare lo studioso nello scoprire e nello scardinare le contraddizioni insite nel diritto positivo: la dissoluzione del diritto nella volontà coincide con quella della coincidenza tra verità e legge, la crociana riduzione del diritto all’economia costituisce, sì, la perdita del diritto, ma anche il prisma attraverso cui le aporie giuspositiviste si rivelano. Il tentativo giusposistivista di porre fine al giusnaturalismo, giudicato non scientifico e metafisico si corrompe nel momento in cui si fanno coincidere diritto e legge, le teorie generali del diritto finiscono per trascendere concetti empirici in concetti semifilosofici, «l’ibridismo, come lo definisce Croce, corrompe la filosofia; ma corrompe anche la scienza giuridica» (p. 7). Assumendo i concetti del diritto come “utili” e non come “veri”, «l’analisi crociana evidenzia […] la contraddittoria aspirazione della scienza giuridica a sovrapporre realtà di fatto e verità» (p. 9).
Il ribaltamento crociano è radicale: anticipando la volontà al fine si rovesciano le premesse stesse del giuspositivismo, si cancella il carattere teleologico dell’azione: la volontà crociana è priva di oltre, non ha un fine che non sia essa stessa, questa peculiarità può far parlare di un carattere «autoteleologico» dell’agire economico «nel senso che non ha premesse nella “preferenza” o nel “valore”» (p. 39); la dottrina crociana si distingue così per l’assenza di utilitarismo e di normatività. L’autonomia dell’azione non deve, però far pensare a una sua totale incondizionatezza, Perazzoli sottolinea come la volontà crociana non sia libera perché infinita, indefinita, ma perché nega la base stessa da cui muove. La vera volontà non vuole nulla che sia al di fuori di sé: vuole il «cangiamento» (p. 65).
È la struttura dell’agire, indagata nella Filosofia della pratica, che spinge Croce a negare l’esistenza del diritto come realtà in sé, e a negare la natura coattiva dell’obbligazione giuridica: la volontà si sottopone alla legge come a se stessa. Quest’ultima affermazione comporta da un lato l’impossibilità di pensare un momento costitutivo del diritto, un contratto originario, dall’altro implica che il tipico rapporto giuridico – quello tra governanti e governati – non sia interpretabile come un rapporto di forza, di più e meno. Croce mette l’accento più sul consenso che sul conflitto. Il ruolo centrale del consenso, e la natura in certo senso – ben diverso da quello giuspositivo – utilitaria del diritto porta all’esclusione di una fonte neutrale, unitaria, del diritto stesso.
Croce non nega l’aspetto empirico del diritto, ma solo la pretesa di farne un assoluto: la legge positiva non coincide con la verità, e «solo in quanto non coincide con la verità è legge positiva» (p. 123), la legge positiva, il diritto, è mera astrazione, il legame ontologico tra legge e verità, tra diritto e legge è dissolto. «La realtà della legge positiva deve essere per Croce la “non verità” della legge, il suo non poter in assoluto non essere altro che astratta e perciò, si potrebbe dire, mai predicabile di un quid giuridico» (p. 125). La ricerca di una categoria giuridica concreta che possa raccogliere tutte le leggi sfocia quindi nell’attività legiferativa: «una sorta di struttura originaria della prescrittività o della normatività» (p. 131), il diritto positivo permane, invece, nel suo carattere di finzione che ha bisogno, per continuare a esistere, della possibilità del dirsi della finzione stessa.
La domanda su questa possibilità è la questione stessa del rapporto di Croce col diritto positivo: la questione sull’ubi consistam dell’astratto. Perazzoli torna, quindi, insistere sulla distorsione, lo scambio, che si attua nel diritto positivo tra ciò che è utile e ciò che è vero: il confondere lo pseudoconcetto giuridico con la verità della legge.
Il problema della realtà della legge è destinato a rimanere senza risposta nell’ambito della teoria «e allora, si limita a dire Croce, deve avere una sua realtà nell’ambito della prassi» (p. 143) è questo l’inizio della descrizione di una sconfitta? Di un fallimento? Solo in parte: è vero che Croce dando vita alla scissione tra astratto e concreto non riesce a dare contezza della natura del diritto o, perlomeno, fallisce nell’aspirazione di dar conto del punto di vista empirico, l’errore di Croce non è, però, di aver abbandonato la teoria, ma di non essere riuscito ad abbandonarla del tutto: «la prassi non è pensata fuori della filosofia (della pratica), non è pensata al di fuori dell’assoluto» (p. 163), di conseguenza la filosofia della pratica crociana ricade nelle stesse contraddizioni che aveva voluto combattere, riproducendo le aporie metafisiche che si erano scorte nel diritto positivo, pure l’impianto crociano «offre di fatto un’analisi inedita del diritto positivo» (ibidem).
In conclusione, Perazzoli rileva come «il difetto dell’analisi di Croce non è di perdere il diritto, ma di non trovarlo o di non poterlo costruire» (p. 188), quello di Croce con il diritto è, quindi un appuntamento mancato? Forse, se dobbiamo anche tener conto che l’esito nichilistico è presente nel diritto positivo indipendentemente da Croce, il merito del pensatore napoletano è, piuttosto, quello di rivelarlo «attraverso la riduzione del diritto all’economico e attraverso la teoria dell’irrealtà della legge» (p. 185).
Il libro di Perazzoli è, dunque, un dialogo ideale, il cui oggetto principale è il rapporto di Croce col diritto positivo, ma osservando questo, non può sfuggire il rapporto del diritto positivo con Croce. Attraverso l’accostamento continuo di classici del pensiero giuridico italiano ed europeo al pensiero filosofico di Croce, l’autore mette in luce difficoltà e spunti di riflessione. Abbiamo affermato in apertura che questo è un libro soprattutto su Croce, facendo nostra la tesi dell’autore secondo cui la filosofia di quest’ultimo costituisce un punto di vista privilegiato sul diritto positivo, restando convinti di quest’affermazione – e giunti ormai al termine – dobbiamo rilevare come sia anche vero che questo è pure un libro sul diritto positivo. Visto anche l’esito del libro, il confronto critico continuo che tra le due posizioni si dà, dobbiamo poi dire che, se è vero che Croce costituisce un punto di vista privilegiato, è forse anche vero che il diritto positivo costituisce un punto di vista privilegiato sulla filosofia giuridica di Croce. |