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M. Nicoletti, O. Weiss, Il modernismo in Italia e in Germania nel contesto europeo , Il Mulino, 2010
di Alessandro Aprile

Il presente volume pubblica gli atti della L settimana di studio (23-26 ottobre 2007, Trento) organizzata dal Centro per gli studi storici italo-germanici “Bruno Kessler” e dal Dipartimento di Filosofia, Storia e Beni Culturali dell'Università di Trento. Il convegno, tenutosi nel centesimo anniversario della pubblicazione dell'enciclica Pascendi dominici gregis, ha visto la partecipazione dei principali studiosi, italiani e stranieri, attualmente impegnati nello studio del modernismo tanto dal punto di vista storico, filosofico che teologico.
Nell'ormai cospicua bibliografia in lingua italiana su questo tema, l'opera, di cui in questa sede si vorrà dare uno sguardo mirato agli aspetti che si ritengono più importanti, si ritaglia uno spazio di non secondaria importanza. Essa offre, come primo punto da segnalare, studi sulla diffusione e sul dibattito del modernismo in Germania e, facendo ciò, viene parzialmente a coprire una lacuna. Il modernismo è stato infatti considerato una questione strettamente legata a quei paesi, come l'Italia e la Francia, a maggioranza cattolica, tralasciando il fatto che in realtà questo tema ha segnato, secondo ovviamente gradazioni differenti, l'intera storia culturale europea nel primo quarto del XX secolo. Ed anche nel cattolicesimo tedesco, il quale doveva certo condividere il terreno religioso con le chiese protestanti, il modernismo fece sentire il suo peso.
Come ben mostra il contributo di Cristopher Dowe, Conseguenze impreviste. Studenti cattolici e accademici in Germania e la campagna antimodernista (pp. 191-212), agli inizi del '900, tra i gruppi studenteschi cattolici e le loro organizzazioni senior, era altrettanto sentita come obbiettivo predominante «la conciliazione tra visione cattolica del mondo e cultura moderna» (p. 198), soprattutto a causa di una presunta disparità e inferiorità cattolica nell'associare scienza, o in generale cultura, e fede.  Per i Bildungsbürger cattolici, i fedeli colti, questa era una battaglia identitaria, che certo non aveva affinità negli altri paesi europei dove il cattolicesimo era la confessione predominante. Questa differente configurazione della cultura cattolica in Germania determinò anche un'inedita reazione alla pubblicazione dell'enciclica Pascendi. Il pronunciamento papale infatti venne accolto da parte degli organi degli studenti cattolici e da altri esponenti del cattolicesimo laico tedesco come una condanna rivolta solo ai paesi latini e non certo alla Germania, tale che «non comportava quasi alcun cambiamento per quanto concerneva la ricerca scientifica in ambito tedesco» (p. 197). Certo scandalizzò anche i cattolici tedeschi la durezza dell'enciclica, «insostenibile per la moderna coscienza» (p. 198), ma le aspirazioni di studenti e accademici di coniugare l'idea di cattolicesimo e quella di progresso non vennero interrotte nemmeno dalla campagna antimodernista. Ciò è testimoniato, ad esempio, dallo spazio che gli studi del gesuita Erich Wasmann, (cfr. nel presente volume: Klaus Schatz, «Modernismo» tra i gesuiti: i casi Hummelauer e Wasmann) apprezzato biologo che sosteneva non esserci alcuna contraddizione tra evoluzione e fede cristiana, trovarono nella rivista cattolica Akademische Bonifatius-Korrespondenz, od anche dalla ricezione di studi di natura strettamente religiosa come quelli del prete cattolico e storico dei dogmi Ugo Koch, il quale contestava il primato del papa e la sua infallibilità. L'impegno della cultura di orientamento cattolico non fu solo caratterizzato da un incremento del dibattito tra cattolicesimo e cultura, ma andò anche nella direzione di un superamento dello stretto orizzonte confessionale, stimolando un confronto con il protestantesimo su temi importanti di natura culturale e religiosa. Ovvero, come ben conclude Dowe, «il procedere della Chiesa contro il modernismo non condusse dunque, nel caso degli studenti e accademici cattolici […], a un innalzamento delle mura del ghetto “spirituale”, ma, ammesso che tali mura vi fossero, alla loro erosione e ottenne il contrario di quanto le personalità di spicco dell'antimodernismo volevano» (pp. 211-212).
Di differente taglio è invece il contributo di Claus Arnold, Ripercussioni della crisi modernista all'epoca del nazionalsocialismo? (pp. 61-78), il quale cerca di gettare uno sguardo più attento sulla tendenza, molto praticata dalla storiografia tedesca degli ultimi due decenni, di «intrecciare i temi della crisi modernista e del nazionalsocialismo» (p. 61). L'intento di Arnold è quello di spezzare la facile teleologia che vede gli ex-modernisti tedeschi inclini al nazionalsocialismo, come se il fatto stesso di aver assunto posizioni differenti dalla dottrina ufficiale cattolica ne avesse determinato una disposizione fisiologica. Analizzando gli esempi del teologo Karl Adam (pp. 63-67), del rapporto di quest'ultimo con il gruppo di liberali cattolici del Rheinischer Reformkreis (pp. 67-71) e del collegamento possibile invece tra antimodernismo e nazionalsocialismo, lo studio dimostra come si sarebbero potuti stabilire collegamenti con il nazionalsocialismo tanto partendo da posizioni moderniste quanto antimoderniste. La questione dell'identità nazionale era, infatti, diventata qualcosa di scontato nel cattolicesimo tedesco già prima del 1914.
Ma a livello generale lo studio dello storico della chiesa giunge piuttosto ad un risultato di tipo metodologico, affermando che «anche la storia della teologia del XX secolo deve essere esaminata nel senso della sua genesi storica. Ciò implica» - sostiene Arnold - «una sana sfiducia nei confronti di schemi teologici, sulla base dei quali si vogliono rilevare, positivamente, “fratture” già da tempo in opera, o, negativamente, “compromissioni” moderniste, nazionaliste o d'altro tipo» (p. 67). Solo un’attenta comprensione storica dei singoli casi concreti può far luce sulle possibili influenze ed effetti che, l'aver assunto posizioni moderniste o antimoderniste, ha avuto nel breve e nel lungo periodo della storia europea.
Il richiamo a questo semplice, ma fondamentale principio metodologico, risulta quanto mai convincente e, a parere di chi scrive, estendibile non solo allo studio della teologia, ma anche all'intero quadro culturale europeo negli anni della crisi modernista. Costruire facili ponti tra posizioni pro o anti moderniste e le possibili influenze che esse potrebbero aver avuto negli eventi storico-culturali dei singoli paesi, è una tendenza piuttosto praticata, anche negli studi italiani dedicati al modernismo. Esempio rilevante di un certo automatismo interpretativo, che perdura sin dagli anni della crisi modernista e continua in varie forme ad essere presente nella letteratura italiana specializzata, è la tesi che vede il neoidealismo italiano, quale maggior responsabile della sconfitta culturale del modernismo e di conseguenza dell'isolamento della parte più progressista del cattolicesimo italiano.
Questa interpretazione è riproposta sotto una nuova veste, nel volume qui oggetto d'esame, dal contributo di Mauro Visentin, Modernismo e neoidealismo in Italia. Esame di un confronto irrisolto (pp. 389-416).
Con abilità Visentin ricostruisce gli «aspetti comuni e riconoscibili» (p. 389) che, nella complessità delle singole posizioni, furono alla base del desiderio di rinnovamento del cattolicesimo, e mostra il particolare carattere anche politico che esso ebbe in Italia. Oltre allo sviluppo impetuoso delle scienze naturali e storiche nella seconda metà del secolo XIX, che mise in questione la staticità di certe convinzioni religiose (come ad esempio l'idea di creazione) e la struttura dogmatica stessa del cristianesimo, «fattore storico determinante nella genesi del fenomeno e dei movimenti modernistici» fu anche «la questione sociale» (p. 393), ovvero il tentativo di coniugare il messaggio evangelico e le rivendicazioni sociali dei ceti più umili.
Tralasciando la dettagliata analisi che il contributo dedica alle differenti prospettive lungo quali le due principali figure del modernismo politico italiano, Romolo Murri ed Ernesto Buonaiuti, considerarono possibile unire l'annuncio del regno e la partecipazione politica dei cattolici, è importante mostrare come la principale difficoltà teorica da entrambi affrontata era quella – scrive Visentin - «[...] di fare i conti […] con il fatto che […] il divario tra il mondo presente e quello “a venire” è un divario che non riguarda solo il tempo ma altresì, per così dire, lo spazio» (p. 399). In altre parole, la difficoltà concettuale era quella di concepire un impegno “qui ed ora” nella società, attraverso il richiamo evangelico di giustizia che difficilmente, pena la perdita del suo stesso dirsi cristiano, poteva slegarsi dall'annuncio del regno e dalla Chiesa intesa come la comunità dei fedeli. Come ben sintetizza lo studioso infatti «per quanti sforzi essi facessero di mettere tra parentesi questo aspetto del messianesimo e della morale evangelica, non potevano evitare né che la trascendenza, benché resa “immanente”, restasse una trascendenza, né che la dimensione comunitaria e sociale del messaggio potesse lasciare in ombra l'interesse e l'azione, diretti e “personali”, cui esso, rispettivamente, intendeva rivolgere il suo appello e la sua sollecitazione, indirizzandosi, in primo luogo e segnatamente al “singolo individuo”, a ciascun “singolo individuo”, come partecipe di una comunità, ma anche come tale» (p. 404). La partecipazione politica dei cattolici in Italia in senso popolare fu comunque frutto del modernismo e fu l'aspetto di esso «più importante ai fini degli svolgimenti storici cui avrebbe dato luogo nel corso del secolo» (pp. 415-416); partecipazione che – argomenta lo studioso -  «da noi avrebbe potuto, debitamente coltivata, contrastare l'indirizzo che, di fatto, si è venuto sempre più accentuatamente ad imporre, lungo il Novecento, nel movimento politico dei cattolici […], contraddistinto da un rapporto solo imperfettamente laico – nel senso di “autonomo” […] dai dettami della Chiesa – (e talvolta nient'affatto laico) con la sfera pubblica» (p. 416). A fermare però la possibilità di un rinnovamento della partecipazione cattolica nella politica italiana in senso compiutamente laico, non fu certo quella «contraddizione», che pur Visentin riconosce essere «probabilmente» propria dell'«intera tradizione cattolica», stretta tra «temporalismo e antitemporalismo» (p. 404), ma – questa è la tesi proposta dal contributo -  l'incomprensione dell'aspetto politico del modernismo da parte di Giovanni Gentile e di Benedetto Croce. I neoidealisti furono infatti solo interessati – sostiene Vistentin -  a mettere in evidenza e contrastare il conflitto che si instaurava nel modernismo tra fede e ragione, mentre l'aspetto politico era da loro scartato perché non ritenuto rilevante. Sebbene Visentin riconosca come le difficoltà concettuali del modernismo politico fossero «indubbiamente» legate da vincoli logici e culturali allo stesso terreno sul quale i neoidealisti svolgevano le loro accuse di contraddizione, ovvero la difficoltà di unire trascendenza e immanenza tanto teologicamente quanto politicamente, egli giunge comunque a definire il confronto tra neoidealismo e modernismo come un confronto «a metà», la cui parzialità è stata determinante per il destino politico italiano.
In realtà, analizzare l'influenza che l'analisi del modernismo da parte dei neoidealisti ha avuto sul destino di quest'ultimo nel nostro paese, dovrebbe comportare una sana sfiducia nei confronti di questo schema interpretativo, riproposto sempre più in piccole porzioni e frutto indiretto dell'antimodernismo. Esso infatti non mostra i contributi, ad esempio di  Giovanni Gentile, sul tema del rinnovamento cattolico nel loro esatto contesto storico e concettuale, ovvero contributi ad un dibattito culturale che finalmente vedeva protagonista anche l'Italia, ma automaticamente come condanne laiche legate da un doppio filo al più rigido conservatorismo ecclesiastico.
Un ultimo contributo del volume che si vuole qui mettere in evidenza è quello offerto da Carlo Fantappiè dal titolo Modernità giuridica versus modernismo teologico: il «Codex iuris canonici» (1904-1917). Obbiettivo dello studio è quello di collegare due eventi importanti della vita della chiesa cattolica della prima metà del Novecento: la battaglia di Pio X contro il modernismo e la promulgazione da parte di Benedetto XV nel 1917 del Codex iuris canonici. Benché  i lavori della commissione destinata a preparare il codice canonico furono ordinati da Pio X nel 1904 e durarono dal giugno dello stesso anno fino al 1912, estendendosi quindi lungo tutto il periodo d'esame e condanna del modernismo, questi due fatti storici non sono stati finora visti sotto una medesima luce. E l'intento di Fantappiè è quello di coprire questa vuoto storiografico.
Il desiderio di Pio X di dotare la chiesa cattolica di una codificazione canonica e di riproporre in forma moderna l'idea di una «teocrazia spirituale», rivendicando il valore del potere spirituale su quello temporale (p. 146), testimonierebbe per Fantappiè la capacità da parte della Chiesa di distinguere la «sana modernità» (ovvero la modernizzazione giuridico- istituzionale) dalla «cattiva modernità» (il modernismo teologico).
La tesi di Fantappiè è quella di proporre una nuova categoria interpretativa, sotto la quale inquadrare il pontificato di Pio X: non più come esempio di «restaurazione ecclesiastica» ma bensì di «modernizzazione restauratrice» (p. 150). Da un punto di vista storiografico quindi si dovrebbero «ridefinire i termini del contrasto Chiesa/modernità statuale e Chiesa/modernismo teologico come varianti strutturali interne alla dimensione modernità tout court» (p. 151). Pio X sarebbe allora il rappresentante della modernità giuridica, ovvero di quello spiritum sanae modernitatis «[...] che lo portava a condannare le innovazioni nelle materie dogmatiche e dottrinali della Chiesa perché inficiate dall'errore, ma a non respingere quelle innovazioni nelle materie disciplinari che si rivolgevano al bene della Chiesa» (p. 154). Desiderio finale dello studio è quello dunque di proporre una nuova interpretazione dell'operato di papa Sarto, cercando di spezzare quello che Fantappiè chiama «l'a priori ideologico […] tendente a identificare il modernismo con la modernità e l'antimodernismo con la conservazione» (p. 154). La riorganizzazione giuridico- istituzionale della Chiesa cattolica avvenuta attraverso il nuovo codice di diritto canonico testimonierebbe pertanto il sano influsso che la modernità ebbe nel cattolicesimo, il quale non si sarebbe rinchiuso nell'opposizione intransigente, bensì aperto ad un confronto dialettico, assumendo perfino quelle forme statuali proprie della “modernità”.
Sebbene appaia certamente avvincente questa tesi, e l'intento storiografico che la muove, viene il dubbio che essa voglia forzatamente riabilitare il comportamento repressivo assunto dal pontificato di Pio X nei confronti delle proposte di rinnovamento cattolico. Si potrebbe affermare, svolgendo comunque la proposta di studio di Fantappiè, che la repressione del modernismo da parte degli ambienti vaticani fu sostenuta anche da un accentramento dell'apparato burocratico ecclesiastico, il quale trovò poi nel Codex iuris canonici la forma statuale definitiva. Come scrive infatti lo stesso studioso «[...] il processo che conduce alla fissazione, al riordino organizzativo e all'universalizzazione delle norme della Chiesa latina si presenta, per molti aspetti, analogo e convergente con quello che investe, nello stesso periodo, la definizione, sistemazione e destinazione universale delle dottrine di fede e di morale del cattolicesimo» (p. 155). In questo modo pertanto l'infallibilità dell'ordine spirituale diventò identica alla sovranità dell'ordinamento statale, provocando un irrigidimento delle misure repressive, in quanto l'eventuale errore teologico assumeva il valore aggiunto di essere anche contrario all'ordinamento statuale. Inoltre, per dimostrare che la Chiesa cattolica sotto il pontificato di Pio X non si rinchiuse in un rigido conservatorismo ma si aprì con intelligenza al “moderno”, non basta affermare che essa assunse la forma giuridica tipica degli stati europei moderni. Proprio la centralizzazione e burocratizzazione alla “cattedra di Pietro” andava nella direzione contraria a quel desiderio di democratizzazione interna del cattolicesimo, espresso dalla rivendicazione del valore individuale del credente, che era sentito come dovere primo di una chiesa nel nuovo secolo e che venne parzialmente affermato solo molti anni dopo nel Concilio Vaticano II.
In conclusione si deve riconoscere come il tema modernismo non sia soltanto un campo di studi rivolto a fatti del passato ma qualcosa che interroga ancora la natura stessa del cattolicesimo. Come infatti scrive Peter Neuer in Il problema della storia dei dogmi: a cent'anni dell'enciclica sul modernismo (pp. 297-321): «In opposizione agli sforzi messi in atto per considerare tali eventi come dati di una storia lontana e conclusa, va invece sottolineato come le conseguenze di modernismo e antimodernismo siano ancora chiaramente avvertibili nella Chiesa. Non è secondario il fatto che il giuramento di fedeltà del 1989 sia stato costituito con l'esplicita sottolineatura della lacuna lasciata dal venir meno del giuramento antimodernista. Solo se la Chiesa si confronta oggi con le controversie nate attorno al modernismo e prende in esame le condanne con cui, dopo il 1907, furono giudicati e repressi tutti i nuovi approcci teologici, sarà in grado di affrontare le sfide del presente».



PUBBLICATO IL : 31-12-2010

 

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