Il libro si apre con un’affermazione secca e lapidaria che costituisce la cornice all’interno della quale l’autore conduce la sua intera analisi: il dibattito pubblico degli ultimi decenni ha presentato come suo elemento distintivo “la tendenza a una progressiva spoliticizzazione”. Il prefisso con valore privativo rende ben chiaro il fenomeno che Preterossi registra, ovvero l’affermazione di un’ideologia che si sostiene sulla base di una serie di luoghi comuni, secondo i quali la dimensione politica si sarebbe esaurita e avrebbe perso la sua funzione, riducendosi in questo modo a tecnica e a buona amministrazione. La genesi di tale andamento dipende dalla crisi delle ideologie novecentesche e ha prodotto una trasformazione che coinvolge non solo il “piano dei fatti”, ovvero le istituzioni e le strutture sociali, ma anche “il piano delle teorie e delle narrazioni”, cioè la riflessione politica e giuridica contemporanea nonchè la realtà culturale nel suo complesso. Rispetto al “piano dei fatti” Preterossi offre subito un elenco di quei cambiamenti evidenti agli occhi di tutti che egli riconduce esattamente a questa operazione di negazione del politico, primi fra tutti lo smantellamento del pubblico a vantaggio del privato, l’inclinazione al qualunquismo e ad un certo populismo, l’abdicazione delle istituzioni e della vita democratica agli interessi di pochi e di potenti, la riduzione della sfera pubblica in fiction e l’esaltazione della società civile anche nelle sue forme più particolaristiche e aride. Dal punto di vista della teoria, invece, lo stesso processo ha condotto nel panorama filosofico all’affermazione di posizioni che presentano prospettive ingenuamente ireniche, ottimistiche e rassicuranti in merito alle contraddizioni del mondo globale e alle sue capacità autoregolative. Pur con i distinguo del caso, allora, secondo l’autore, le correnti di impronta contrattualista-proceduralista e le teorie normativiste hanno entrambe minimizzato i limiti di atteggiamenti conciliatori sempre più dominanti, mentre allo stesso tempo ancor più inadeguate risultano per l’autore le posizioni ormai di moda che inseguono “vie di fuga pseudo-rivoluzionarie" il cui ricorso ad espressioni fuorvianti e suggestive quali “moltitudine” o “impero”, non aiuta l’analisi politico-giuridica orientata secondo categorie razionalistiche.
La questione centrale del libro diventa perciò un’indagine su quella dimensione politica che dovrebbe essere recuperata e consolidata, al fine di liberare la società contemporanea dalle numerose “ipoteche concettuali” che gravano pesantemente sul terreno dell’immaginario simbolico e della pratica istituzionale. L’intera impostazione riflette un preciso ruolo che secondo l’autore può ricoprire la riflessione filosofica, in quanto capace di mettere in questione ciò che è noto, che si assume come dato e che invece richiede di essere investigato. Preterossi opera allora un riferimento all’affermazione hegeliana secondo la quale la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero, offrendone allo stesso tempo un’interpretazione che potremmo definire “militante”: la specificità della filosofia consiste infatti nello scarto rispetto ad una visione accomodante del presente, dal momento che il compito del filosofo è rivelare i presupposti sottaciuti del pensiero ordinario e in tal modo aprire squarci che il senso comune di un’epoca storica non è in grado di vedere. In questa prospettiva l’intera trattazione del libro nasce dall’intenzione di comprendere il processo di rimozione del politico che attraversa la contemporaneità e il ricorso alla lettura dei classici diventa funzionale nella messa a fuoco di quegli ambiti che sono concettualmente implicati nella politica e che è necessario individuare per evitare di proseguire su una china che l’autore considera scivolosa. Se si assume la tesi secondo la quale la negazione del politico conduce necessariamente al ritorno del suo fantasma, portando con sé un pericolo molto serio per la democrazia, diventa allora necessario affrontare di petto “quell’opaco nucleo”, che si presenta come tratto distintivo della politica: per la salvaguardia degli equilibri costituzionali e democratici risulta indispensabile ritrovare e rafforzare proprio quella dimensione politica, che in quanto sfida dell’immediatezza, capacità di progettazione e mediazione rappresenta l’unico baluardo di fronte a forze irrazionali, tendenze populiste, spinte violente e sopraffazione. Ma cosa intende Preterossi con il termine politica? Per offrirne una definizione in positivo, è necessario comprendere tale termine alla luce della rete concettuale in cui è avvolto, disvelare le questioni che hanno condotto alla sua genesi e che sono tutt’ora sedimentate in questa categoria per sua natura complessa, sfaccettata, stratificata, sfuggente: la politica infatti chiama in causa il tema del potere, inteso come asimmetria e rapporto di forza, che è tanto inevitabile e come tale desiderato quanto temuto e rimosso. Se ad esso non si può rinunciare, è chiaro che esso richiede regole e controlli, perché c’è una naturale diffidenza davanti ad un potere che è potenza ambivalente, strumento di pacificazione e forma di dominio: la richiesta di sicurezza e il bisogno di legalità allora non possono mai essere nettamente separate dalla presenza costante e silenziosa dell’ostilità e dal rischio mai espungibile dell’esplosione della violenza. Decifrare il fenomeno politico perciò vuol dire interrogarsi sullo scarto tra omologazione e opposizione, sulla differenza tra passivizzazione e legittimazione, sulla funzione ambivalente del comando e dell’obbedienza, del conflitto e del consenso quali fattori di fondazione e trasformazione delle democrazie occidentali. Secondo Preterossi allora è il persistente bisogno di identificazione e di sintesi simboliche “che implica la costruzione consapevole di (nuove) egemonie”. Se la posta in palio è il futuro della democrazia, la partita si gioca prima di tutto sul piano dell’egemonia culturale, nella lotta sul terreno dell’immaginario, con la speranza che il discorso politico torni ad alimentare passioni civili, sottraendosi all’impotenza di una razionalità disincarnata, che fa del calcolo e del numero il suo unico orizzonte. Il compito che il politico è chiamato ad assolvere è innanzitutto la “capacità di esprimere e mettere in ordine interessi e passioni, paure e desideri”, rappresentare e raccontare una “narrazione”, cioè “rendere evidente ai cittadini che quello che la politica afferma e realizza è rilevante per loro”. La costruzione dell’alleanza e del compromesso non basta più come non è più sufficiente, per quanto necessaria, la tecnica, l’amministrazione e il buon governo, perchè per “riannodare il filo che lega istituzioni e cittadini” occorre individuare come sorgente di legittimazione un “nucleo passionale” che la politica ha il compito di mettere in forma.
La tesi che il libro sostiene è portata avanti seguendo un percorso che scandaglia il concetto di politico attraverso il recupero dei classici del pensiero, in modo che, scavando nella tradizione filosofica, possano esserne compresi l’origine e il suo destino, mettendo in luce le implicazioni che tale concetto comporta e i nodi teorici che esso presenta nella tradizione moderna e occidentale.
Il saggio è scandito allora in quattro capitoli e ognuno di essi si concentra su un filosofo della tradizione, al fine di individuare quelle parole d’ordine ancora operanti e vive nella pratica, le quali messe insieme presentano un quadro complesso di costanti, vincoli, aporie e sfide che il politico in quanto tale porta con sé per statuto. Da Hobbes a Schmitt, passando per Hegel e arrivando a Gramsci. Ciascuno di essi affronta un aspetto legato alla dimensione politica su cui Preterossi intende soffermarsi: in ordine cronologico vengono allora affrontate e approfondite le questioni legate all’ordine, alla sopravvivenza e alla sicurezza (capitolo I); la nozione di riconoscimento e le sue ripercussioni sulla formazione dell’identità, individuale e collettiva (capitolo II); il rapporto costitutivo di distinzione e affinità tra ostilità e diritto (capitolo III) e infine la nozione di popolo e l’opposizione tra populismo ed egemonia (capitolo IV). Il testo risulta in tal modo tanto omogeneo nella sua unità, sviluppandosi intorno al filo logico dell’argomentazione e della tesi da mostrare, quanto contemporaneamente autonomo nelle sue parti, dal momento che ogni capitolo può essere considerato per sé, concentrandosi su un tema specifico non necessariamente legato al successivo o al precedente (non a caso infatti il volume vede in parte la rielaborazione di articoli scritti dall’autore negli anni passati che ne costituiscono la cellula originaria). La specificità del libro consiste nel coniugare un’analisi fine e approfondita con un linguaggio semplice e, nei limiti della materia, relativamente divulgativo, nonché l’intenzione di far coesistere una ricerca di carattere storico-filosofico (in quanto recupera alcuni dei capisaldi della filosofia pratica moderna e contemporanea) con uno sguardo rivolto all’attualità politica e in particolare con un occhio di riguardo per le contraddizioni e le anomalie specifiche della situazione italiana, del suo panorama politico e culturale degli ultimi decenni, cogliendo in tal modo esigenze, difficoltà e assenze che è sempre meno possibile far finta di non vedere.
Il costituzionalismo moderno che l’analisi di Preterossi intende supportare presuppone infatti la lezione di Hobbes, quale autore verso cui ha un debito ogni politica post-tradizionale, come del resto è abbastanza noto fra i teorici politici. L’ambivalenza della natura e delle passioni umane, la centralità della vita e della sopravvivenza, la polemicità insita tra gli individui, l’artificialità dello spazio sociale non più fondato su un disegno divino, la questione del potere e la sua natura ambigua sono tutti temi che emergono dalla ricostruzione che Preterossi offre del pensiero hobbesiano e dei suoi principi teorici. Originari e intrecciati risultano così il desiderio di identificazione e la paura di annientamento, nella misura in cui il potere è reclamato perché necessario, ma temuto perché potenzialmente brutale. Il politico racchiude in sé tale aporia costitutiva e implica all’origine una decisione su ciò che non può esser deciso, una delimitazione di quella che l’autore del libro chiama “sfera dell’indecidibile”, la cui traccia continua ad esser visibile nella tensione tra potere e obbedienza, violenza e sua dilazione. La ragione di ciò può essere individuata in una visione disincantata e secolarizzata dell’individuo, secondo la quale la sua destinazione politica ha una natura antiaristotelica in quanto dipende da un deficit antropologico-naturale. L’intento dell’autore è allora far emergere come in Hobbes si possa cogliere un nesso tra normatività ed effettività, secondo cui il tema della giustizia non assorbe il potere, ma al contrario dipende dai suoi assetti: dal momento che una giustizia prepolitica non è possibile, essa può darsi solo all’interno di un potere sovrano, lo stato, il quale deve prevalere su altri assetti (religioso, economico ecc.), sottraendosi al pericolo di essere delegittimato e strumentalizzato. La relazione tra liberalismo e politiche della sicurezza trova la sua genesi nella distanza tra tutela individuale e istanze d’ordine collettive, tra l’adesione volontaria e l’ordinamento coattivo: se secondo la posizione di Hart (presentata dallo stesso Preterossi) non è possibile fare a meno del diritto coattivo, il problema diventa allora “arricchire la lista di ciò che serve alla sopravvivenza”, di quei beni minimi e diritti fondamentali che consentono ai cittadini di aderire all’ordinamento sociale e che già il progresso costituzionale ha in parte negli ultimi secoli ampliato. Garantire il prestigio delle istituzioni evitando l’opposizione autorità-libertà vuol dire quindi mettere in sicurezza un certo “tasso di presupposizione” dell’ordinamento costituzionale: l’esigenza rivendicata da Preterossi consiste nell’intendere “la pace sociale” non come ordine pubblico, quanto piuttosto come condivisione di un terreno comune che eviti sovvertimenti mascherati, al contrario di quanto l’autore registra sta accadendo, in particolare in Italia. Ciò che contraddistingue l’effettività di un ordinamento non è infatti solo l’uso della forza, ma la capacità di ottenere sufficiente e duratura obbedienza, di farsi “forma efficace e prevalente della vita sociale”, sottraendosi ad astratte e fuorvianti contrapposizioni tra ordine e diritti, autorità e libertà. Il binomio ordine-sopravvivenza è allora sia una condizione di fatto sia una questione culturale: affrontare infatti seriamente il tema della sicurezza vuol dire innanzitutto abbandonare una politica della rassicurazione che fa della paura la sua forza più che qualcosa da combattere e risolvere (pp. 3-28).
Non certo nuovo è il tentativo di Preterossi di leggere Hegel e Hobbes con l’obiettivo di coglierne le affinità e di considerare alcune loro tesi nel segno di una discreta continuità. La sua argomentazione procede allora affrontando il tema del politico e della sua genesi dal punto di vista della questione dell’identità e dell’esigenza di riconoscimento. In questa prospettiva la riflessione hegeliana evidenzia in modo spiccatamente fecondo come l’identità sia una risorsa necessaria del politico, che acquisisce un ruolo centrale nella contemporaneità, proprio perché il diritto moderno opera per “sottrazioni identitarie”. Essa è tuttavia un concetto nient’affatto pacifico, che deve essere inteso, secondo Preterossi, come una “costruzione simbolica generata dalla relazione di riconoscimento reciproco”, quindi quale cristallizzazione di soggettività in relazione e quale posta in gioco di una lotta. Se è in questo caso la celeberrima dialettica servo-padrone che si vuol chiamare in causa, la specificità della lettura di Preterossi consiste nel presentare tale relazione come il primo gesto politico, rapporto di potere quale Gewalt, istituzione, ma anche violenza, contraltare della vulnerabilità. Pur mantenendo quell’intreccio di vita e artificio hobbesiano, Hegel nell’interpretazione di Preterossi forza la macchina concettuale hobbesiana, laddove mentre il filosofo inglese vede gli individui come entità libere, ma naturali, il filosofo di Stoccarda li presenta come “costruzioni di potere”, indagando proprio i presupposti che il contrattualismo (in tutte le sue forme, fino a Rawls) lascia inesplorati. Il volto oscuro del potere trova allora il suo luogo fondativo in una scena di guerra e sottomissione, quando lo schiavo stipula un patto di obbedienza nei confronti del signore: se questa dinamica è individuabile già nel rapporto suddito-sovrano, nella lotta a morte la questione dell’identità viene strutturalmente collegata a quella della sopravvivenza, dal momento che la tesi argomentata nel libro afferma che tra sopravvivenza e riconoscimento vi sia un nesso ineludibile, il quale si colloca all’origine non solo del politico, ma anche dell’individuo. In questo modo il soggetto, fonte della politica moderna, risulta un costrutto già in sé politico, che introduce, in virtù del suo processo di soggettivazione, il potere. Attraverso il commento dei celebri passi della Fenomenologia dello Spirito e di alcuni paragrafi dei Lineamenti di filosofia del diritto, Preterossi evidenzia come Hegel operi una “genealogia anticontrattualistica del politico” in quanto il suo obiettivo consiste nel sottrarre la volontà generale-razionale a un’interpretazione individualistico-liberale e nell’“ispessire” il concetto di libertà. In questo modo risulta inscritto nell’antropogenesi il nesso dipendenza-libertà, cosicché il vero protagonista del contratto diviene il servo in quanto “soggetto”, ovvero come colui che si sottomette, ma dà forma così ad una dimensione politica. Hegel combina il vincolo della politica con gli impulsi e i bisogni, cercando di far convivere nel suo pensiero piani e fonti differenti (economia politica, politica classica, giusnaturalismo ecc.) e considerando come mai separabili la presenza costante del conflitto e della sua risoluzione simbolica; sebbene quindi l’eticità abbia un carattere articolato e mediato indisponibile, il fine e il senso dello stato conserva un’origine atavica e inquietante di forza e sottomissione. Il riconoscimento allora, lungi dall’esser una nozione morale, come una parte della letteratura critica afferma, ha un’attinenza con il potere, visto che la dinamica del desiderio sottesa al riconoscimento origina lo spazio pubblico dell’azione e si presenta come un elemento generatore di quella che Preterossi definisce “trascendenza politica”: sopravvivere ed essere riconosciuti sono così i due lati di un’unica sfida politica, che anche in questo caso si dispiega sul piano del simbolico, in quanto le asimmetrie del potere giocano un ruolo decisivo nell’attribuzione di ruoli sociali e determinano la possibilità per l’affermazione e la trasformazione delle identità già assegnate (pp. 29-54).
L’affermazione per cui il potere cela al suo interno un residuo di ostilità comporta allora proprio l’indagine dei “presupposti politici” sottesi al diritto, in modo tale da metterne in questione l’immagine rassicurante di istituto pacifico e neutrale svincolato dalla forza. Per affrontare tale problema Preterossi ricorre, come è comprensibile, a Carl Schmitt, il quale più di tutti ha infatti sottolineato il doppio volto del diritto, che pur essendo altro dall’ostilità, “si sporge sul crinale del conflitto estremo”. Se infatti la costruzione di un concetto giuridico procede sempre dalla sua negazione, è necessario rivolgere lo sguardo proprio al nesso diritto-forza e alla relazione tra statuale e politico, perché vi è tra i due termini un rapporto stretto e circolare, che vede un margine di oscillazione e ambiguità tra il concetto di unità politica e di stato come sua forma storica concreta. Alla base dello stato moderno vi è pertanto un’“operazione politica sull’ostilità” che si traduce nella pacificazione interna e nella riformulazione del “fatto dell’inimicizia” sul terreno della politica estera, che assurge così a strumento deputato alla messa in forma del politico, a mezzo di gestione dell’ostilità. Preterossi si sofferma perciò nell’esporre la famosa dicotomia amico-nemico, quale criterio concettuale autosufficiente che Schmitt conia per definire la categoria del politico, sottolineando come quest’ultimo diventi così qualcosa di inafferrabile. Mai definito una volta per tutte, il politico subisce allora una curvatura “volontaristico formale”: allorché implica una “decisione esistenziale”, esso non risponde a criteri contenutistici dati, non è vincolabile semanticamente e non accoglie alcun principio morale o ideologico, ma piuttosto risulta affetto da un germe potenzialmente nichilistico tanto più in ragione del fatto che non presuppone alcuna dimensione etica. Assunto il politico quale “criterio”, “costante funzionale”, che autodefinisce un gruppo in opposizione polemica con un hostis, un nemico estraneo, la conseguenza naturale diventa la parentela che esso giunge a stringere con la guerra in quanto suo presupposto naturale: l’idea di uno stato unitario mondiale diventa così un’utopia, una contraddizione in termini, proprio perché comporterebbe il venir meno dell’identificazione di quel.nemico funzionale a costituire la comunità, tanto che – afferma Schmitt – un pacifismo radicale ricadrebbe nell’identica logica bellicosa contro i sostenitori della guerra. A differenza però di una posizione tutto sommato più irenica come quella hobbesiana, lo scenario si complica se si ammette la possibilità di un nemico interno, parimenti necessario allo stesso ordine politico: tale dinamica polemica conduce a ridefinire il diritto internazionale interstatale su differenti assetti territoriali e su nuove forme di spazializzazione del conflitto. Ordinamento e decisione, unità politica e stato di eccezione conservano perciò un nesso di implicazione, mentre la polarità interno-esterno si riflette in una potenzialità polemica progressivamente ridefinibile.
La ricostruzione dello jus publicum europaeum, dalla nascita fino all’avvento della sua crisi, conduce Schmitt a evidenziare in modo critico le conseguenze che derivano dal delinearsi di un nuovo nemico oltre l’inimicizia politica, “una sorta di Altro assoluto e post-politico, de-soggettivato in quanto mero oggetto meritevole di annichilimento etico-tecnologico”: il paradigma incentrato sulla nozione di “guerra giusta” viene quindi sostituito da quello del “nemico giusto”, portando con sé trasformazioni strutturali, nella misura in cui la guerra è divenuta oggigiorno asimmetrica (evidente è infatti la disparità tecnologica ed economica tra le parti in confitto) ed è connotata da valutazioni morali (il nemico è definito criminale e vengono differenziate strumentalmente “le operazioni di polizia delle grandi potenze mondiali” rispetto alle mere imprese belliche dell’avversario) (pp. 55-79).
L’ultimo tema su cui Preterossi si concentra è il concetto di popolo. In un percorso che fino ad ora ha problematizzato sempre di più il politico nella sua struttura teorica, la scelta di questo quarto aspetto àncora la trattazione su un piano concreto, denso di riferimenti a situazioni e casi reali (prima fra tutte l’Italia). Anche la nozione di popolo risulta ambivalente, in quanto tiene in sé l’identità – indica infatti comune e uguale appartenenza – ma ha contemporaneamente bisogno della rappresentazione. In questo senso allora il popolo non è un fatto naturale o etnico, quanto piuttosto un soggetto politico, trasformato “attraverso un meccanismo di unificazione…in un ordine determinato”: diffidando di posizioni ingenue o peggio intellettualmente disoneste, Preterossi sottolinea come esso si costituisca sulla base di meccanismi di autopercezione, come costruzione artificiale che produce effetti politici, e chiami in causa “una qualche forma di trascendenza del particolare nel generale, una consapevolezza comune e duratura della propria dimensione collettiva”. Proprio in ragione di ciò, allora, risulta delicato nelle democrazie liberali il rapporto fra il popolo e le sue istituzioni, che vive di un movimento biunivoco: se il popolo conferisce legittimità alla rappresentanza, il potere necessita di confermarsi agli occhi degli elettori come sua forza autentica, per intercettare quel consenso senza il quale verrebbe meno. Il cortocircuito su cui insiste l’autore si individua allora proprio nella dialettica identificazione-rappresentazione, che porta con sé la degenerazione della democrazia in populismo, quando la rappresentanza si trasforma in una “messa in scena”, il potere diventa personalistico, la comunità si identifica in maniera simbiotica con il potente e la sfera pubblica diventa pubblicità. Preterossi conduce così un’analisi lucida e nient’affatto edulcorata del populismo, offrendone un ritratto esauriente anche in poche pagine. Tale fenomeno infatti tocca esattamente il cuore del politico: l’autore del libro svela quasi le sue carte, mostrando come la possibilità del populismo si apra proprio nello spazio di “un bisogno di politica negato”, poiché esso risulta il sintomo di una crisi della politica, il cui destino dipende proprio dal “rapporto istituzioni-popoli, potere pubblico-potenza economica, universalità-contingenza”. Ecco allora che il trattato filosofico finisce quasi per assumere i caratteri del veemente pamphlet politico, lasciando emergere come all’autore non sia cara solo la riflessione sulle origini del politico, ma anche e soprattutto la prassi orientata a salvarne il destino e ad impedirne la fine. Se l’obiettivo è così che la politica diventi consapevole del suo primato, la modalità attraverso cui conseguirlo è un “progetto mobilitante”, che scommetta su una “nuova conciliazione di libertà soggettiva e libertà oggettiva”. Per combattere un senso comune che vede, soprattutto in Italia, la fuga dalla politica come vittoria, è opportuno invece recuperare il concetto di egemonia di matrice gramsciana che Preterossi considera come opposto e antitetico a quello di populismo: assumendo infatti come “strutturale il problema della costruzione del consenso, dell’organizzazione politica e delle alleanze”, l’egemonia esprime “una capacità di direzione intellettuale e morale delle forze sociali”. Riformulata sulla base della società odierna e compatibile con il pluralismo, l’egemonia ha il merito di non rimuovere le contraddizioni e le mediazioni, perché rivendica l’importanza della politicizzazione delle soggettività e presuppone al tempo stesso la società civile come “spazio articolato di azione consapevole”, senza con ciò misconoscere la dimensione conflittuale dell’agone democratico (pp. 81-109). |