La fenomenologia dell’attesa, della sorpresa, del compimento destinalmente mancato che le pagine incalzanti, coinvolgenti, vitalmente eccitanti di Ginevra Bompiani offrono al lettore - colpito anzitutto dalla circostanza che il libro è pubblicato una prima volta nel 1988 e che la sua scrittura resta in quella occasione piuttosto “sorprendente” e inattesa come ciò di cui parla, entro un panorama del pensiero italiano dominato dal dilagare dell’heideggerismo oltre che dalla deriva delle riflessioni ‘umanistiche’ sulla “crisi della ragione” - richiede una decisione preliminare. Si tratta infatti di fornire una risposta alla domanda se la scrittura filosofica di Ginevra Bompiani (tale essa è, e di pieno diritto: un’argomentazione filosofica di tipo severamente, ma anche e, con un ossimoro, felicemente teoretico, perché felicità e anche dolcezza si accompagnano all’esercizio del pensare) possa essere affrontata entro un format del tipo recensione, o presentazione o anche discussione critica.
E’ evidente che la risposta negativa “attesa” da questa domanda comporta il riconoscimento della presenza di quell’ospite non atteso, che appunto “soprende” la domanda con una risposta altra da quella che ci si attende (ogni scritto di filosofia teoretica autorizza e sollecita una sua recensione, essa stessa teoretica), e che dice come si parla, come si è tenuti a parlare di questo libro se non si vuole tradire anzitutto la forma inconsueta in cui esso si presenta, e si riesce invece nell’esercizio del suo riconoscimento, del riconoscimento di ciò che esso sorprendentemente è.
Questo libro sull’attesa, dunque, esige di essere trattato dal lettore nel modo che tentiamo qui di definire, perché in esso l’attesa è presente come un tema vitale (ancora un ossimoro: nessun tema può essere realmente vitale), se non più esattamente esistenziale, che può essere compreso solo se vi si entra armati di un pensare disponibile ad essere aperto e travolto dal movimento stesso dell’attesa che non è (soltanto) linguaggio e categoria o simbolo, o tema appunto, ma è realtà, la realtà che sta oltre il linguaggio. Basterà appena aggiungere che se il libro, inatteso e sorprendente alla sua uscita meno di quindici anni fa, non è stato allora riconosciuto come tale (chi scrive lo ignora), ciò che gli è accaduto nel contesto della cultura filosofica italiana è esattamente coincidente con quello che in esso si pensa e si dice. Agli occhi di chi lo legge oggi per la prima volta, esso esibisce una estraneità fattasi oggi destinalmente familiare, come esito di quel movimento nel tempo della dinamica reciproca intrinsecamente eteronoma dell’attesa e della sorpresa o del compimento, che nelle parole di Paul Valery citate da Ginevra Bompiani riassume in sé il senso intero del libro: «Ciò che è (già) non è (ancora) – ecco la sorpresa. Ciò he non è (ancora ) è (già). Ecco l’attesa» (p. 8). Una frase in cui la eco del dinamismo inconcluso della coscienza di Jean-Paul Sartre di L’essere e il nulla è molto evidente e contribuisce a mettere in rilievo la fisionomia prevalentemente francese del libro.
Se si osserva, mantenendosi ancora nella fase di apparente preambolo che porta invece già dentro la cosa stessa che anima le pagine del libro, che qui stiamo dandone conto utilizzando la trama di concetti e metafore che lo intessono, e che lo facciamo dopo esserci totalmente e senza riserve immersi in esso, non per partecipare a tale trama di concetti, di metafore, di rinvii letterari e filosofici, ma perché ne partecipiamo già, si dovrà ribadire - nel giustificare il modo della trattazione critica del libro stesso - il punto che fin dall’inizio è emerso e che ora converrà determinare ulteriormente. Il libro vive dell’intreccio che lo costituisce di situazioni filosofiche (prima fra tutte quella che rinvia al nome di Aristotele, cui si deve la riflessione complessa e già in lui aporetica sul rapporto tra potenza e atto, autentico modello metafisico della immagine concettuale dell’attesa potenziale sospesa tra sorpresa e compimento, ma destinata, per restare tale a non dissolversi nel suo atto, e poi naturalmente quella che rinvia a Ludwig Wittgenstein, e a Martin Heidegger, più intensamente evocati), di illuminazioni concettuali che restano tuttavia letterarie (Paul Valery e Giacomo Leopardi tra gli altri, ma anche Novalis ed Henry James, e Borges). Questi due contenuti resterebbero tuttavia inerti se essi non si innestassero sul sottofondo discretamente nascosto, ma assai potentemente attivo, della esperienza dell’attesa, ossia dell’attesa come di ciò che l’autrice mostra di aver vissuto e pensato per così dire dall’interno, in un atteggiamento che solo riduttivamente si potrebbe dire risenta di attenzione psicologica e, anzi, psicoanalitica (il che è già molto diverso e più rilevante), e che è invece trasvalutato ed innalzato sul piano che non cessa di essere esperienziale o esistenziale o vissuto per il fatto di sollevarsi e di mantenersi al livello della descrizione fenomenologica del fenomeno dell’attesa. Arriviamo così al punto che ci interessa mettere in rilievo: del libro non si discorre ‘tematicamente’, perché il libro, in virtù della sovrapposizione di livelli di cui si è detto, ‘chiama dentro di sé’ il lettore e gli chiede di esplicitare la propria esperienza e il proprio pensiero dell’attesa, delle tante attese che hanno consumato la propria vita, dato che attendere la morte è impossibile, ed è questo che «ce la rende così terribile, straniera e derisoria; nessuna vita è compiuta da lei» (p. 53).
Si comprende bene, di fronte all’appello a rivivere con colei che ne parla la propria esperienza dell’attesa, ad esempio quella bruciante e terribile dello scacco, della perdita, di un’attesa amorosa nel corso della quale l’amante perde l’occasione del riconoscimento del proprio oggetto amato, per cui «la cosa attesa è il nulla in agguato» nella giungla della vita, come la belva di Henry James (p. 22), che qui siamo, almeno per un aspetto, lontani da Martin Heidegger. L’attesa di Ginevra Bompiani, che l’autrice ci fa esperire, che ci chiede di commisurare alla nostra sofferenza dell’attesa, l’attesa che «non riesce a compiersi» (p.18), si apparenta poco a quella attesa che Heidegger chiama “anticipazione della morte”, il cui destino, anzi la cui finalità è quella di svalorizzare la tragicità autentica, realmente mortale, annullante ma non nichilisticamente decadente, di un’attesa che viene azzerata dalla sorpresa di scoprire che l’atteso non arriva perché al suo posto arriva l’ospite reale, il non atteso, che in uno stesso gesto spezza il senso dell’attesa passata ed apre in avanti a ciò che l’attesa non aveva atteso e non può più attendere perché c’è già e si impone, sebbene non sia ancora visto.
Proprio in quanto o si sta comunque dentro a questo libro, oppure semplicemente non lo si è mai letto per quante ore di meditazione abbia richiesto, è da questo interno così severamente antiumanistico, ossia dal rifiuto implicito di facili speranze e di raggiungibili trascendenze, da questa estraneità ad un’etica (e ad un politica) tranquillizzanti, in una parola da questo orizzonte dell’estraneo familiarmente perturbante come in Sigmund Freud, che prende corpo la questione che solo così si legittima: che cosa e come possiamo pensare, noi esseri umani, esseri dell’attesa, della nostra condizione ? La disperazione di un’attesa vana, che perde il suo compimento, il suo oggetto, la sua occasione, il cui oggetto c’è bensì, ma a patto che sia altro dall’atteso e che il tempo, come nelle intuizioni di un altro francese, Jacques Derrida, perda la propria continuità, il ruolo assegnatogli di contenitore degli oggetti futuri che l’attesa è accreditata della capacità ovvia di attingere: questa disperazione filosofica, fredda al tempo stesso dolente e palpitante della vitalità delle vite di chi nelle attese si è consumato è tutto quello che L’attesa di Ginevra Bompiani ci concede? In certo senso è così. Altrimenti, Leopardi non sarebbe qui tra le voci che vengono fatte parlare.
Ma agli occhi filosofici di Ginevra Bompiani, la disperazione di un’attesa che sfocia nel nulla o nello scacco contiene qualcosa di più e non è dunque sequestrabile nel suo significato nativo, ossia in una vera distruzione della speranza. Sebbene la figura dell’estraneo che si presenta alla porta come incarnazione della nostra attesa tradita (non è mai lui che attendiamo, non arriva mai colui che ci si aspetta, ma arriva l’ospite inatteso che fattualmente arriva) ci imponga, per riconoscerlo, il ricorso all’amore, piuttosto che alla Legge, ciò avviene nel segno della mancanza di alternative, di una necessità che corregge in parte la mancanza di speranza e lascia filtrare un’apertura al riconoscimento di colui che non aspettiamo. Ma ciò avviene anche nel segno della ribadita severità (dolce severità, direbbe Ginevra Bompiani che non disdegna il ricorso alla forza ossimorica della dolcezza) con cui si giudica la condizione dell’essere umanamente in attesa. La potenza filosofica e letteraria della figura dell’ospite estraneo, che «porta con sé la sua evidenza» è tale perché nell’ospite estraneo che ci soprende l’amore “festeggia” «il riconoscimento dell’altro come lo stesso» ( p. 98). «Se l’attesa è un’attesa di nulla, ciò che non è nulla e non sostituisce nulla, è anche quanto le è più estraneo. Solo l’estraneo compie l’attesa» (p. 32).
Si riesce realmente a misurare il senso del novum non progressivo, perchè non voluto, non programmato (di nuovo emerge nel sottofondo del libro il limite dell’etica e della politica) annidato con tutta la sua perturbante ricchezza virtuale nell’idea che solo l’estraneo compie l’attesa? Forse non ci si riesce pienamente, perché la sfida teorica è molto dura e travalica la forza limpida dell’argomentazione e la concatenazione delle immagini letterarie con cui la si mette in piedi. Tale sfida non si risolve affatto nello sforzo (del tutto assente, e meritoriamente, in Ginevra Bompiani) di convincere teoreticamente il lettore a fare o a essere o divenire qualcosa. Nel migliore dei casi, non si riesce facilmente ad accettare che in questo passaggio quel che residua in avanti oltre il tempo dell’attesa disattesa non può più essere il tempo in cui si attende, sebbene non sia neanche il tempo in cui ci si risolve ad agire. Quello che ci si apre è il tempo di un logos che non si riconosce più, né solo, in oggetti, sebbene non sia neanche il tempo della esplosione della soggettività trasparente che costituisce il mondo. L’estraneo potrebbe essere ciò che si affaccia inatteso nello spazio intermedio tra questi “né…né” e che non teme di attendere la forma che volta a volta gli accade di prendere.
E’ per giungere a ‘vivere’ , infine, il senso che il libro svela alla sua conclusione, quando anche in lui, nel libro, l’attesa comunque tradita il cui pensiero esso alimenta si svela come una attesa altrimenti compiuta, che bisogna soffermarsi sui capitoli finali. Lo si farà, con qualche rammarico, sorvolando le pagine cui sovraintendono i nomi di Borges, Stevenson, Kafka e con rammarico ancora maggiore quella in cui Martin Heidegger viene chiamato opportunamente in aiuto per definire la differenza tra l’«attendere» qualcosa, o la rappresentazione di qualcosa, e la condizione senza oggetto dell’«essere in attesa» (p. 60). Qui il rammarico di dover correre alla fine cresce, perchè in queste pagine si affaccia un’immagine del pensare che, preso nel suo nesso con l’essere in attesa senza oggetto, sembra offrirci un dono concettuale cui non possiamo rinunciare, se respingiamo la sua falsa fisionomia di strumento calcolante e ne accentuiamo invece la sorgiva creatività. Sfruttando la nozione heideggeriana di Gelassenheit, di “abbandono”, l’attesa diviene un «abbandono alla verità che restituisce a se stessi… un affidarsi all’apertura del mondo». Niente altro che questo “essere in attesa” si avvicina all’essenza del pensiero, «perché pensare è l’atto che si produce quando - abbandonato ogni volere - si è ‘in attesa di qualcosa che non sai cos’è’» (ibid. ), come si esprime Paul Valery, che coglie il senso del pensare come un originario tornare ed appartenere, sfruttando la «facoltà dell’abbandono», non alle cose ma a sé. Dove si sente la eco della derridiana ripetizione originaria, ma soprattutto emerge l’immagine di un pensiero che produce dal suo proprio interno i propri contenuti, che non tematizza, perché piuttosto “si riposa”, è un presente in cui niente è voluto. Così come si avverte (nascosta ma attiva in tutto il libro) la eco del freudiano pensare, dell’attività dell’anima che accade perché ci restituisce a noi stessi, ma in quanto siamo capaci di attendere senza oggettivare, riconoscendo il senso delle insensatezze della vita psichica, per scoprire ed accogliere anche qui, come nostro, l’estraneo che, inatteso dalla coscienza, ci si impone.
Vale per questo contenuto del pensare, per questo ospite estraneo che sollecita il proprio “riconoscimento” (il tema che chiude e riassume il libro), quel che vale per il neonato in cui si rappresenta l’attesa “di essere riconosciuto”. Un’attesa che ‘parla’ negli occhi del neonato che interloquisce con la madre e con gli adulti a cui si rivolge, lui che pure è un ‘infante’, per chiedere: sono venuto al mondo, sono quindi per te (ancora) un estraneo, ma tu riconoscimi, fammi essere grazie al tuo riconoscimento. V’è uno iato, uno spazio di attesa in cui avviene il riconoscimento, tra la nascita e il vero riconoscimento reciproco tra chi è appena nato e chi lo ha messo al mondo. E se nel neonato l’attesa del riconoscimento è desiderio e bisogno, nei genitori essa serve a sostituire le rappresentazioni prenatali con l’«ospite reale» (p. 87). Per questo motivo, il neonato, l’ospite reale che sconvolge le previsioni, le rappresentazioni di colui che era soltanto atteso, è un figura centrale della fine del libro di Ginevra Bompiani. Vi si coglie il significato che Jacques Lacan ha dato alla nozione di “reale” come contrapposto al simbolico, qui al linguistico. Il neonato è l’irruzione della realtà che, infine, inattesa, si impone. Ma chi la riconosce, e come avviene il riconoscimento? L’amore entra qui in gioco in contrapposizione alla Legge, nella pagina in cui più forte si fa l’appello al lettore a capire, e più netta la sensazione del lettore di aver capito, perché la cosa di cui si parla è sua, come di ognuno. Con la Legge che promana dall’autorità del Padre, su di ognuno viene impresso il sigillo della identità e della differenza. Che ciò accada, è quel che si esige nei rapporti etici e politici con gli altri istituiti grazie al dominio della norma.
Ma qui l’etica e la politica tacciono a vantaggio di qualcosa d’altro, di più originario, di niente di meno che della pretesa che sia «pensabile un riconoscimento che non fondi né identità né differenza». «Non è questo miracoloso riconoscimento dell’altro come lo stesso, che l’amore festeggia?». In questo caso, riconoscere non significa distribuire i diritti che spettano a chi è atteso e che prevedibilmente, legittimamente, giunge a colmare l’attesa. L’amore non ha che fare con la dimensione pragmatica e pacificante della convivenza tra identici che sono anche diversi. Per questo, si potrebbe osservare, l’amore raramente accade e molto spesso si dissolve. Esso ha infatti a che fare con la scelta difficile, ma inevitabile, di accogliere l’altro come lo stesso, di non dismettere il disordine che, in base all’accettazione del fatto che ogni attesa è un’attesa tradita, fa di ogni estraneo che inatteso giunge nel presente e come presente, una «attesa tradita». Si badi bene al modo in cui Ginevra Bompiani chiude il suo argomento: amore è, comunque, riconoscimento ed accoglienza di un ospite estraneo che tradisce l’attesa. L’amore è riconoscimento di questo tradimento, è tradimento riconosciuto. L’ambito in cui esso si esplica comprende unitariamente la relazione tra esseri umani, coppie o gruppi, che non si risolve nel trepido, amoroso, ovvio comporsi di identici che sono diversi. Questo infatti, nella realtà, non accade. Il valore dell’amore, con cui si chiude la fenomenologia dell’attesa, consiste nella capacità di mantenersi entro lo scacco cui l’attesa ci consegna, senza fuggire delusi per la durezza di trovarsi ogni volta ad aprire la porta della nostra anima ad un estraneo, esattamente a quell’estraneo che abbiamo scelto (che il nostro inconscio ha scelto) senza sapere chi sarebbe arrivato o come si sarebbe trasformato, quando abbiamo deciso di attenderlo. «Ogni ospite sorprende la nostra impreparazione, e misura la nostra umanità sul tempo che intercorre fra la rinuncia alle rappresentazioni che l’hanno preceduto e il benvenuto sulla porta» (pp. 97-98). |