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Gennaro Sasso, Delio Cantimori. Filosofia e storiografia , Scuola Normale Superiore, 2005
di Marcello Mustè

Tra gli storici italiani del novecento, Delio Cantimori è stato forse quello che, con più nettezza, ha cercato di marcare il distacco della storiografia dalla filosofia. Non a caso, al Croce della Logica, che aveva sostenuto l’identità di filosofia e storia, egli preferiva il Croce della distinzione tra res gestae e historia rerum, che idealmente accostava alla lezione di Max Weber e a un Marx interpretato come il teorico della critica demistificatrice delle ideologie. Eppure, pochi altri storici avevano ricevuto, come lui, una raffinata educazione filosofica, alla Scuola Normale di Pisa, con maestri del calibro di Giuseppe Saitta e Giovanni Gentile. Il libro di Gennaro Sasso ricostruisce la genesi e il senso di questo controverso rapporto con la filosofia, a partire da una accurata analisi dei primi scritti (come quello del 1928 sul concetto di cultura e come quelli sul nazionalsocialismo) e del dialogo mai interrotto con i filosofi dell’idealismo: l’assenza della filosofia, e il privilegio accordato alla realtà “rugosa” della storia, si rivelano così come il sintomo di una rimozione, che lascia scorgere, a ogni passo, le potenti ombre dell’oggetto rimosso. Grazie a questa attenzione portata sui nodi fondamentali della storiografia, Sasso ci aiuta a penetrare i segreti riposti nel laboratorio di Cantimori, abitato dai grandi spiriti di Gustav Droysen, di Jacob Burckhardt, di Max Weber. E ci permette di guardare in profondità nelle principali opere dello storico romagnolo, a cominciare dal grande libro del 1939 sugli Eretici italiani. I capitoli che Sasso vi dedica pongono in rilievo l’antitesi che ne attraversa la struttura interna, tra una valutazione realistica e oggettiva delle forze sconfitte dalla storia e l’idea, ancora ispirata da una certa fiducia nel progresso, che il sommerso fecondi il tempo storico, che ciò che una volta è stato sconfitto possa farsi, nel futuro, vincitore. Di qui la peculiare tonalità del pessimismo cantimoriano, quel senso di “disincanto”, o persino di amara disillusione, che percorre tante sue pagine. Cantimori emerge, da questo libro, non soltanto come uno dei maggiori rappresentanti della cultura italiana del novecento, ma anche come un passaggio decisivo per intendere il successivo destino della nostra storiografia. È in questo senso che l’indagine su Cantimori si allarga, nelle pagine di Sasso, in una interpretazione più complessiva sul passato e sul presente della disciplina storica. Al centro di tale discorso vi è il rapporto, fatto di affinità e di profonde differenze, con Federico Chabod. Al contrario di Chabod, in Cantimori si consuma l’ideale della storia politica, o crocianamente “etico-politica”, e prevale, pur tra ambiguità e oscillazioni, un punto di vista analitico, decostruttivo, che tende a non trovare più l’aggancio di una sintesi comprensiva. Con una metafora pittorica, Sasso definisce la prospettiva aperta da Cantimori un “cubismo storiografico”, cioè il tentativo di osservare il passato nelle sue diverse angolature, di scomporlo nei suoi molteplici frammenti: in una direzione, possiamo aggiungere, che guarda alle linee verticali della profondità storica, piuttosto che al senso orizzontale degli avvenimenti. È proprio in questo cubismo dell’analisi, della destrutturazione, della demistificazione, in questa crisi interna dell’oggetto storico, che la storiografia italiana troverà, dopo Cantimori e oltre Cantimori, un significativo punto di riferimento.



PUBBLICATO IL : 14-06-2006

 

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