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Emidio Spinelli, Questioni scettiche. Letture introduttive al pirronismo antico , Lithos, 2005
di Michele Alessandrelli

I lavori qui presentati riepilogano la lunga e appassionata meditazione di Emidio Spinelli su quel ricco e controverso fenomeno filosofico che viene oggi, senza troppi distinguo, rubricato come scetticismo neopirroniano. Anche se non pensati originariamente, almeno in modo esplicito, come parti di un tutto, essi risultano caratterizzati da una forte unità tematica, dovuta al privilegio accordato da Spinelli a Sesto Empirico, sicuramente il più illustre fra gli esponenti del neo-pirronismo. Va detto subito che è proprio il focus su Sesto a consentire a Spinelli di esaltare per contrasto la pluralità di voci in cui lo scetticismo neopirroniano si è declinato nel corso della sua storia. Spinelli invita a leggere i suoi saggi nell’ordine in cui sono raccolti nel volume, per seguire passo dopo passo le critiche, le argomentazioni, le posizioni di Sesto e del movimento di pensiero che egli così degnamente rappresenta o ricapitola. Scopo di Spinelli è consentire un avvicinamento al neo-pirronismo antico come a una delle correnti filosofiche più attraenti e senza dubbio storicamente più ricche di “posterità teorica”.
     Nel saggio che apre la raccolta, Gli scetticismi antichi: uno schizzo introduttivo, Spinelli si pone il problema della corretta delimitazione del campo d’indagine, problema che sfocia immediatamente nella domanda riguardante cosa si possa e si debba intendere per scetticismo. A questa domanda Spinelli risponde individuando l’ambito cronologico e concettuale nel quale fiorì lo scetticismo nel dibattito epistemologico ed etico acceso, su versanti e da prospettive diverse, fra IV e III sec. a.C. da Pirrone e da Arcesilao. Per comprendere il senso di questa risposta il lettore deve tener presente il suo carattere retrospettivo. Spinelli procede infatti a ritroso, muovendo dal dato storico di una agoge filosofica, quella pirroniana, che ha affermato se stessa attraverso il distacco dallo scetticismo accademico. Di questo fatto innegabile e incontestabile viene ritrovato l’embrione nel succitato dibattito. Sarebbe però sbagliato pensare che già con Pirrone e Arcesilao vi fosse coscienza di ciò, tanto che si potrebbe affermare che lo scetticismo nasce accademico e solo in un secondo momento diviene pirroniano, come reazione ai limiti e alle aporie del primo. Come Spinelli mette bene in luce, Pirrone fu un dogmatico negativo, sostenitore di una metafisica negativa o indifferentista, non uno scettico. Il primo pirroniano consapevole fu Timone, e neanche questi può a rigore essere considerato uno scettico. Come si è arrivati allora alla biforcazione in scetticismo accademico e scetticismo pirroniano? Fu Enesidemo a prendere nettamente le distanze dall’Accademia scettica e dalla piega volutamente dogmatica e stoicheggiante che essa aveva preso con Antioco. Giustamente però Spinelli mette in risalto una ragione più profonda, e cioè il ripudio da parte di Enesidemo delle nuances platoniche dei grandi scettici accademici, che egli fraintese come foriere di esiti dogmatici. Mi riferisco in particolare alla tendenza al metadiscorso presente negli Accademici scettici, sicura eredità platonica. Enesidemo fu irritato e sconcertato dal carattere dichiarativo e programmatico dello scetticismo accademico al quale contrappose un atteggiamento più concreto e operativo. Lo scetticismo accademico sembrò a Enesidemo autoconfinarsi a dichiarazioni di principio sull’impossibilità della conoscenza facendosi dogmatica ideologia di tale impossibilità. Con Enesidemo lo scetticismo matura una nuova sensibilità. Il ritorno a Pirrone non fu casuale. Pirrone non era stato “contaminato” dalla tendenza accademica, arcesilea in particolare, a includere i filosofi precedenti in genealogie di precursori dello scetticismo accademico. Non solo: Pirrone, nella versione fornitane da Timone, mostrava inclinazioni antisocratiche che dovevano risultare gradite a un filosofo come Enesidemo che scorgeva la causa della deriva dogmatica dello scetticismo accademico nelle sue silenti ma non per questo ininfluenti premesse socratiche e platoniche. Enesidemo comprese che non è attraverso polarità dogmatiche che lo scettico deve portare avanti la propria impresa. Si tratta allora di produrre dispositivi argomentativi che generino l’apparenza di un conflitto indirimibile tra logoi contrapposti. Si tratta di entrare nel cuore della filosofia dogmatica per mostrare come essa non possa e non sappia fare altro che produrre dilemmi e aporie. In poche parole si tratta di fare vedere come ogni filosofia dogmatica, opportunamente smascherata, sia destinata a collassare dall’interno. L’essenza del pensiero dogmatico risiede nella convinzione che vi sia una realtà esterna indipendente dalle phantasiai. La pretesa avanzata dal pensiero dogmatico consiste nella convinzione di poter superare, dati certi dispositivi conoscitivi privilegiati, la varietà delle percezioni e la diversità o contrasto delle valutazioni e delle credenze. Le argomentazioni di Enesidemo prima, di Agrippa e Sesto poi, non mettono in dubbio un tale modo di intendere la realtà ma la possibilità di trascendere il proprio particolare punto di vista attraverso strategie che si vorrebbero neutrali e universali. Con il neopirronismo sembra affermarsi l’idea dell’ineliminabilità degli aspetti soggettivi dell’uomo e dell’ostacolo insormontabile che essi rappresentano per la pretesa dell’homo dogmaticus di imporsi come agente di verità.
     È solo all’interno di una cornice siffatta che è possibile apprezzare pienamente il valore dei dieci tropi, delle voci scettiche, della critica all’induzione, alla definizione e nozione di causalità, ampi resoconti dei quali troviamo in Sesto Empirico. Sarebbe impossibile riassumere la complessità di questa operazione di demolizione dei pilastri dell’edificio dogmatico. Spinelli si addentra nel testo di Sesto e nei suoi lunghi resoconti con sapienza e sensibilità. I tropi sono le varie argomentazioni e gli strumenti tecnici che la tradizione cui Sesto attinge ha elaborato nel corso della sua storia per raggiungere l’epoche o sospensione dell’attività assertiva. Spinelli, nel secondo capitolo (I dieci tropi scettici), ne fornisce un’accurata esegesi. Le sue conclusioni liberano i dieci tropi dall’interpretazione che Pappenheim ne aveva dato in termini di griglie ordinatrici del reale di diretta derivazione aristotelica. Spinelli li riscatta restituendoli al progetto operativo e concreto di demolizione dall’interno del dogmatismo. Egli ha inoltre il merito di cogliere quello che forse è uno dei limiti “teorici” dello scetticismo neopirroniano, il presupposto realistico che i neopirroniani condividono con i dogmatici, l’idea che la conoscenza, per usare le parole di Mario Dal Pra, consista «nella rispondenza delle nostre rappresentazioni a una realtà che fa da archetipo e che si ritiene esterna e indipendente dalle rappresentazioni». È questo presupposto che, come fra poco vedremo, rende possibile, come sola proposta positiva da parte pirroniana, la teresis, ovvero la non filosofica “osservanza” alla quale Spinelli dedica forse le pagine più belle e ispirate dell’intero volume. È questo presupposto, con lo scacco che comporta per la conoscenza, che porterà da un lato all’idealismo radicale, con la sua esaltazione del versante soggettivo della conoscenza, e alla fenomenologia dall’altro, che con l’affermazione del carattere primitivo e originario della correlazione tra soggetto e oggetto proverà ad abbandonare il presupposto realistico di cui sopra.
     Anche la critica neopirroniana all’induzione e alla definizione, oggetto tematico del terzo capitolo, mostra la medesima ispirazione. Oggetto controverso di indagine a causa dello stato tormentato delle fonti, la critica sestana all’induzione sembra echeggiare la comprensione aristotelica del procedimento induttivo. Il mediatore tra Sesto e Aristotele fu Alessandro d’Afrodisia. Le conclusioni di Spinelli sono che con la sua critica all’induzione Sesto intese demolire quel procedimento che Aristotele stesso aveva presentato come condizione necessaria per conoscere i primi principi.
     Il problema della definizione non è meno controverso e per questo mi limiterò al nocciolo della critica sestana: sterilità e inutilità di tutte le definizioni dogmatiche (compendiate nel resoconto sestano da due formulazioni, la prima stoica, la seconda peripatetica) per il carattere o già noto o numericamente indominabile del definiendum. Molto importante il capitolo quarto (Non scire per causas…) che mostra come l’attacco pirroniano fosse esclusivamente rivolto al segno indicativo stoico, ritenuto in grado di condurre per natura da ciò che è evidente a ciò che non lo è. Preoccupazione di Sesto sembra esser stata quella di far naufragare epistemologicamente l’astrologia e ogni tentativo dogmatico di stabilire nessi inferenziali cogenti e necessari tra eventi. È forse proprio nell’ambito della critica allo scire per causas che traspare più evidente il profilo di un positivo contributo pirroniano e sestano. Come scrive Spinelli, Sesto vuole esplorare ed esibire solo quelle connessioni garantite da un’osservazione empirica ripetuta e costante, sorretta da un’implicita fiducia nella regolarità del corso della natura. L’insistenza, in questo contesto, sulla teresis e sulla memoria va intesa come una spiegazione non teoretica del modo in cui giungiamo a produrre conoscenza specialistica.
     Molto stimolanti risultano essere anche le pagine dedicate alle voci scettiche (Comprensione filosofica e prassi comunicativa). L’operazione condotta sul linguaggio dai pirroniani, volta a disinnescare la sua implicita ma inesorabile tendenza alla reificazione e ontologizzazione del significato, sembra produrre nel movimento referenziale naturale del linguaggio una sorta di inversione. Dispositivi linguistici come (“non più”, “forse”, “sospendo il giudizio”, “nulla definisco”, “tutte le cose sono indeterminate” etc.) rimandano ad affezioni del parlante e modulano i significati delle parole secondo tali affezioni, frenano in altre parole la deriva ontologizzante del linguaggio.
     E siamo così giunti al lavoro che chiude il volume (“Fatti non foste a viver come scettici…”). Penso di non sbagliare affermando che esso rappresenta il cuore del libro. Insieme a John Christian Laursen, Spinelli rivendica il carattere storico dello scetticismo pirroniano e la natura ateoretica della sua proposta etica. Molto interessante scoprire un passo sestano (PH I 12) che riconduce la genesi dell’atteggiamento dogmatico al bisogno di vincere, sul piano conoscitivo, il turbamento provocato dal carattere caotico e non anticipabile della realtà. Anche i dogmatici secondo Sesto hanno di mira l’imperturbabilità, ma scelgono la via sbagliata per arrivarci. Il modo in cui vi perviene lo scettico pirroniano sembra uno dei primi, a me noti almeno, episodi di serendipità. Mi riferisco al passo in cui Sesto paragona lo scettico ad Apelle. Come Apelle ottenne una splendida rappresentazione della schiuma solo dopo aver gettato contro il dipinto la spugna con cui detergeva i colori del pennello, ormai giunto alla disperazione per l’esito fallimentare dei tentativi che fino a quel momento aveva messo in opera, così lo scettico solo dopo aver sperimentato il fallimento di tutte le strategie dogmatiche e per questo aver sospeso il giudizio, in maniera altrettanto casuale e inaspettata conoscerà l’imperturbabilità che ne deriva. L’enfasi sulla passività rispetto ai fenomeni dell’atteggiamento dello scettico non deve trarre in inganno. Essa non ha di mira solo l’imperturbabilità che consegue alla sospensione del giudizio. La passività di cui parla Sesto è il punto di arrivo di un lungo cammino di disinnesco di tutte le tendenze dogmatiche e razionaliste che si affermano spontaneamente nel nostro commercio con la realtà. Scopo dello scettico non è la stasi e l’attesa oziosa e inoperosa. Lo scettico è tutto fuorché statico. La passività dello scettico va intesa come rinuncia a una comprensione teoreticamente fondata della realtà. Vi è probabilmente in Sesto il sospetto che ogni postura teoretica tenda a degenerare, per la frustrazione che l’indominabile irregolarità e l’anomalia della realtà produce, in un atteggiamento smodato e violento. A ragione allora Spinelli enfatizza la metriopatheia come l’altro fine dello scettico, insieme all’imperturbabilità. Il rapporto con la tradizione, con le leggi, con i costumi, non deve essere anticipato da nessuna teoria. Le diverse situazioni in cui lo scettico si trova a operare devono essere accolte senza pregiudizi e valutate di volta in volta per quello che in esse si lascia vedere. In altre parole, lo scettico è continuamente rimesso in gioco, perché non esiste una situazione identica a un’altra. Il neopirronismo è il primo indirizzo di pensiero a sottolineare in modo così forte il carattere situato e non normativo dell’etica.

     In conclusione, vorrei raccomandare questo libro, che anche se focalizzato su Sesto non manca di dar voce ai molti scetticismi che nell’antichità si sono intrecciati. Nel corso di questa recensione mi sono soffermato soprattutto sugli snodi teorici del libro, dando forse al lettore l’impressione che quello di Spinelli sia un libro di carattere teoretico. Non è solo così. Tutte le conclusioni cui Spinelli giunge, come si è visto di notevole interesse filosofico, sono il frutto di un lavoro sui testi e sulla letteratura secondaria filologicamente e storicamente molto raffinato ed equilibrato.


PUBBLICATO IL : 25-03-2007

 

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