Il volumetto di Carlo Augusto Viano La filosofia italiana del Novecento, pubblicato da Il Mulino nella collana “Introduzioni”, riprende e aggiorna un saggio apparso dieci anni fa, al quale l’autore aveva già affidato considerazioni riguardanti la storia della filosofia italiana dell’ultimo secolo. Tredici capitoletti e una Nota bibliografica fanno il punto sui momenti salienti della produzione filosofica osservata con una certa distanza dai testi e una considerazione portata piuttosto sui personaggi che nel ‘900 hanno rappresentato nell’ambito della nostra cultura la parte che la filosofia vi ha svolto.
La piccola mole del lavoro ci avverte subito che Viano non si cimenta nella ritessitura della trama degli eventi della filosofia italiana, ma intende darne una interpretazione complessiva. La chiave di lettura è offerta al lettore senza tanti preamboli, e si vede subito come essa funzioni allo stesso tempo da cartina di tornasole del significato più proprio dei diversi movimenti di pensiero e da punto di osservazione dal quale l’autore formula il suo giudizio. Occorre dire, a questo proposito, che il giudizio di Viano è molto severo, che sotto i suoi colpi non si salva praticamente nulla di quanto il pensiero filosofico ha prodotto in Italia nel Novecento. Si tratta ora di capire se una simile condanna senza appello abbia fondati motivi o se, piuttosto, non sia il frutto di un disagio filosofico che non trova espressione più adeguata.
Il capo di tutte le tempeste sta per Viano nel fatto che la filosofia italiana avrebbe perseguito, in modo più o meno evidente, una strategia che ha avuto di mira l’affermazione del primato indiscusso della filosofia stessa nell’ambito complessivo dei saperi, l’imposizione della sua supremazia, ai danni di una visione più razionale, più moderna e più saggia che la vuole invece sapere tra altri saperi, ovvero una delle forme diverse e di diverso valore della conoscenza umana. In altre parole, in un mondo dove la scienza ha mostrato le sue portentose capacità esplorative, inventive e tecniche e si candida a dar prova di essere il sapere più creativo, talentuoso, efficace, e dove, malgrado ciò, il senso dei limiti del sapere umano è realisticamente accolto, la filosofia avrebbe invece sprezzantemente e stoltamente arricciato il naso e, ritiratasi nel gabinetto dei suoi sogni e delle sue pretese, di qui guarderebbe, senza però considerare sul serio, e quindi senza davvero vedere, ciò che accade attorno a lei. Patetica situazione, questa illustrata da Viano, perché vi si mostra un sapere che ha perso la bussola, un pensiero che, per incapacità di comprendere la sua nuova funzione e per intrinseca difficoltà a mettere in discussione un primato che non gli spetta più, si ammanta di una identità fittizia, non appropriata, rendendosi inutile e incomprensibile.
Sembra al nostro autore che non siano necessari grandi sforzi per mostrare che le cose stiano così, che effettivamente nel secolo appena trascorso i rappresentanti italiani di questo antico e nobile sapere abbiano operato in modo da trasformare quella antichità in inutilizzabile vetustà e che la nobiltà della filosofia, tutta legata al suo valore di pensiero critico, essendo venuto meno precisamente questo, si sarebbe convertita in una penosa e ridicola arroganza. Contro chi, innanzitutto, si può e si deve far valere questa accusa? Contro Benedetto Croce e Giovanni Gentile, autori di un idealismo che più volte e da più parti è stato tacciato di avere in disprezzo la scienza e di essere all’origine della nostra ignoranza scientifica. Questo idealismo, che Viano ragiona senza troppi distinguo come se tra Croce e Gentile non vi fossero notevoli differenze e ci si potesse limitare a dire che «Gentile dava un’interpretazione radicalmente soggettivistica delle tesi crociane»(11), ebbe come punto di partenza l’ Estetica di Croce. E’ qui che «identificando l’arte con la conoscenza dell’individuale, Croce lasciava cadere la teoria filosofica della sensibilità: l’arte è sì conoscenza iniziale diretta, intuizione, ma non presuppone un oggetto o uno stimolo sterno. Sottratta la conoscenza dell’individuale alla sensibilità, Croce le poteva mettere accanto una conoscenza dell’universale che, a differenza di ciò che accadeva nelle teorie filosofiche tradizionali, non si configurava più come un grado ulteriore, cui il primo fosse subordinato. Anche perché la conoscenza dell’universale era prodotta non dalla scienza ma dalla filosofia»(12).
E’ noto a tutti che il significato dell’Estetica è da ricercarsi nello sforzo di dar conto adeguatamente del bello e che in questo sforzo Croce combatté con intelligenza, e con apprezzamento assai diffuso per il carattere innovativo della sua opera, le concezioni fin lì dominanti; che nello studio che egli compì fu indotto a riflettere sulla natura conoscitiva dell’estetica e dell’intuizione, in particolare, che ad essa presiedeva, e che si decise, non senza travaglio, a concepire quest’ultima come la struttura della conoscenza dell’individuale nella quale l’intuizione stessa era sinonimo di attività e non di passività; è noto, infine, che in forza di questa natura dell’intuizione l’estetica si guadagnava una posizione di perfetta autonomia rispetto alla logica, della quale la conoscenza dell’individuale non aveva più bisogno, e rendeva inservibile la teoria della sensibilità, cioè la vecchia teoria secondo la quale la conoscenza, sia quella dell’ hic et nunc sia quella universale, si basavano sul presupposto metafisico di un oggetto dato e del soggetto che passivamente lo recepisce, sul presupposto cioè di una relazione aspramente aporetica come a più riprese tante menti filosofiche hanno ampiamente dimostrato. Può sembrare strano, ma è proprio quest’ultimo punto quello che, dimenticando tutto il resto e, quindi, dimenticandone il perché, Viano ritiene essere la vera anima dell’opera crociana. Infatti è in forza dell’aver soppiantato la teoria della sensibilità che Croce giungeva ad espungere dall’ambito teoretico la sensibilità e tutto il suo portato, ovvero che Croce negava valore conoscitivo alla scienza e la assegnava all’ambito della pratica. In altre parole, il senso dell’Estetica sarebbe il disconoscimento della scienza e averla confinata nella prassi era il risultato di un pensiero che pretendeva per la filosofia un predominio assoluto, che poteva essere assicurato più facilmente se la scienza fosse stata svuotata del suo precipuo valore. «Così Croce si liberava da ogni obbligo di tener conto della scienza, alla quale poteva riconoscere la massima autonomia, purché non pretendesse di essere conoscenza e purché non la si usasse per ricavarne inferenze filosofiche»(13). Quanto a Gentile, al riguardo non doveva aggiungere molto di più, se non corroborare questa strategia con il suo apporto più “tecnico” e mettere in moto una conquista dell’università che avrebbe fruttato alla filosofia di veder riconosciuto il suo primato non solo nei libri ma nelle istituzioni. Croce e Gentile operarono all’unisono «e così in Italia accadde una cosa singolare: la filosofia antiaccademica si collocò nel solco dell’idealismo classico, nella forma datagli da Spaventa, e, soprattutto con Gentile, preparò la conquista dell’università, in cui positivisti e neokantiani facevano più o meno quello ciò che si faceva nelle università europee, soprattutto in quelle tedesche, e cioè costruivano un sapere filosofico, magari finto, che però teneva conto delle specializzazioni della conoscenza che avevano modellato la cultura accademica. L’idealismo amava esibire un certo piglio eversivo nei confronti della cultura accademica e non nascondeva l’intento di interrompere la ricerca di una convivenza tra filosofia e specializzazioni scientifiche all’interno delle università; ma si trattava di una curiosa eversione (o forse no, ché spesso le eversioni sono ritorni al passato), che si richiamava a un idealismo di destra e si configurava come un ritorno alla tradizione filosofica, troncando ogni tentativo di confronto con le altre discipline, soprattutto scientifiche, e di elaborazione di teorie concettualmente complesse, che altrove la normalizzazione aveva prodotto. Anche gli idealisti volevano una propria normalizzazione, che doveva nascere non dall’interno delle istituzioni accademiche, ma da una loro conquista, e che sorgeva dal proposito non di conservare un posto alla filosofia accanto alle forme specialistiche del sapere, ma di imporre il primato di una filosofia, che era nata (o pretendeva di essere nata) fuori delle università, all’insegna dell’attivismo politico, letterario, pedagogico. Curiosa normalizzazione quella italiana, che avveniva attraverso il tentativo di conquista dell’accademia da parte di movimenti filosofici che si richiamavano a tradizioni ottocentesche ed erano nello stesso tempo eversivi, perché si proponevano di rovesciare la sistemazione che il sapere superiore aveva trovato al proprio interno … Del resto Croce e Gentile propugnavano il “ritorno al Risorgimento”, la “ripresa del Risorgimento interrotto o tradito” e la creazione di “una nuova Italia” … La filosofia idealistica si faceva così strumento di propaganda con scarso contenuto tecnico e con poca propensione a porre problemi e a discuterli. I filosofi idealisti preferivano proclamare altezzosamente i propri principi: che lo spirito domina la materia, la quale poi neppure esiste, che il soggetto produce le cose, che i problemi hanno sempre soluzioni e così via. Di qui ricavavano intrepide conseguenze e negavano in modo perentorio, talvolta minaccioso talvolta sprezzante, tutto ciò che potesse sembrare in contrasto con le loro posizioni. I loro erano discorsi ultimativi nei quali è raro trovare la discussione di difficoltà, la formulazione di possibili obiezioni o la costruzione di controesempi»(36-37). In questo modo il neoidealismo si caratterizzava come un movimento antiscientifico e nello stesso tempo reazionario, volto con lo sguardo al passato, e fatto di sostanza filosofica inconsistente che veniva sostituita da proclami e dalla retorica.
Non si capisce bene dove Viano attinga per poter riassumere i principi della filosofia neoidealistica in questo modo del tutto fantasioso, né meglio si capisce come possa dire di un personaggio come Benedetto Croce che avesse poca propensione a porre problemi e a discuterli, quando tutta l’opera del filosofo napoletano (e non è piccola cosa) è la prova tangibile di quanto ogni problema posto e ogni soluzione approntata fosse da lui costantemente rimessa in discussione, con instancabile forza e senza tregua fino alla fine dei suoi giorni (chi non ricorda il bellissimo dialogo con Hegel di Croce già tanto avanti negli anni e ormai alla vigilia della morte?). Si capisce bene, invece, che questo modo di trattare la questione è uno schema, per così dire, retorico, obbedisce cioè a quella movenza dell’arte del discorso in forza della quale la diminutio dell’interlocutore, il discredito portato nei suoi confronti, avvantaggia il nostro giudizio soprattutto se negativo. Ma è così che si rende ragione della filosofia? E’ così che si può ritenere di farne la storia?
Non è da credere che Viano riservi molto di meglio agli altri personaggi che hanno avuto la ventura di rappresentare il pensiero filosofico in Italia. Abbagnano, che «nell’accostare l’esistenzialismo aveva probabilmente il vantaggio di essere stato scolaro di Antonio Aliotta, uno dei critici più determinati dell’idealismo»(56), aveva cercato di reinterpretare la filosofia proveniente da Heidegger, Jaspers e Sartre in modo da «riprendere il concetto di possibilità e farne uno strumento analitico, capace di penetrare le forme di cultura che, come la scienza contemporanea, sembravano così lontane dall’esistenzialismo originario»(57), ma aveva perso poi il guadagno rappresentato da questa intuizione perché «non rinunciava neppure lui a recuperare l’idea di destino»(61). Nella fase migliore del suo pensiero aveva poi dato vita con Geymonat e Bobbio al “programma neoilluministico”, secondo il quale «la filosofia doveva riconoscere la molteplicità delle forme di sapere e la loro originalità metodologica, senza pretendere di imporre principi filosofici a principi e regole delle diverse discipline»(67). Erano gli anni cinquanta e Abbagnano «riscopriva la ragione, che riduceva a due componenti: un atteggiamento, che deve essere critico e che consiste nella disponibilità a mettere in discussione qualsiasi procedura, e la possibilità di usare tecniche, cioè strumenti operativi, capaci di produrre risultati, che però devono essere sottoposti al vaglio dell’atteggiamento critico»(68-69). Tuttavia la convinzione dei neoilluministi, che tutte le attività umane, dalla scienza al diritto alla sociologia, costituissero delle tecniche e che la conoscenza di poche regole metodologiche sarebbe stata sufficiente a garantirne il funzionamento, se aveva avvicinato questi filosofi torinesi alla nuova filosofia che si affermava in altri paesi europei, pure non era stata sufficiente a far fare loro il salto di qualità necessario: «attraverso la passione metodologica i neoilluministi vivevano, a modo loro e da lontano, quella che sarebbe stata considerata la “svolta linguistica” del Novecento: sembrava che per affrontare una questione o per capire un sistema di nozioni fosse necessario, ma forse perfino sufficiente, esaminare il linguaggio in cui erano espresse. Gli autentici protagonisti della svolta linguistica maneggiavano teorie e apparati logici e linguistici sofisticati, che sfuggivano ai neoilluministi, i quali esageravano l’importanza delle regole metodologiche semplici, alle quali ricorrevano nelle loro analisi, e si facevano illusioni anche sulle capacità della filosofia di esercitare una funzione critica apprezzabile»(69-70). Insomma, Bobbio Geymonat e Abbagnano erano un po’ degli orecchianti di un movimento filosofico di cui non sarebbero stati mai protagonisti, né avrebbero potuto esserlo date le illusioni che ancora si facevano a riguardo del ruolo e delle capacità della filosofia.
Pochi anni dopo toccava a Garin esemplificare la natura del pensiero filosofico nostrano. Viano definisce subito il grande storico della filosofia rappresentante dell’ideologia comunista ufficiale e pensatore «alieno dal radicalismo dei neoilluministi e dai loro entusiasmi per temi liberali e democratici, da un lato, e per la cultura scientifica, dall’altro»(75). Con le Cronache di filosofia italiana, redatte «nello stile che gli era proprio, allusivo e indiretto, con l’aria di raccontare fatti minori, come appunto si addice a una cronaca, ma lasciando emergere tutta la sua diffidenza per le teorie filosofiche pretenziose e l’apprezzamento per quelle che si erano dimostrate consapevoli dei limiti del sapere umano e della necessità di tener conto delle circostanze storiche», Garin era riuscito ad annodare l’eredità idealistica a quella marxistica nella figura di Gramsci e, quel che è più, aveva rilanciato l’idealismo nelle movenze di una filosofia non apertamente, ma certo nascostamente, antiscientifica. Infatti Viano dice che «quando uscirono le Cronache non era ancora possibile scorgere in tutta la sua portata la rivalutazione dell’idealismo, in particolare di quello gentiliano, cui Garin si avviava, accompagnata da una sottile svalutazione della cultura scientifica, alla quale avrebbe finito per attribuire la responsabilità delle peggiori manifestazioni dell’ideologia fascista». Il senso preciso di tale svalutazione è presto detto: Garin respingeva «ogni dottrina che pretendesse di essere indipendente dalle circostanze storiche nelle quali veniva formulata: la generalità dei concetti filosofici, ma forse dei concetti di qualsiasi genere, non andava presa sul serio perché, sotto l’uniformità concettuale apparente, si celano contenuti volta a volta diversi nei diversi momenti storici. Garin arrivava a considerare il sapere storico come la forma più valida di sapere e a esso riduceva tutta la filosofia. Era questa la forma assunta da quella specie di storicismo debole che respingeva qualsiasi filosofia della storia e assorbiva ogni forma accettabile di filosofia entro la storia. Apparentemente era un rovesciamento della posizione di Gentile, che aveva ridotto la storia alla filosofia, ma in realtà era una prosecuzione di quello che l’idealismo aveva rappresentato come immanentismo e storicismo assoluti, perché partiva dalla negazione di qualsiasi sapere che pretendesse di andare oltre l’orizzonte che lo storico può prendere in considerazione»(76-77). Il sapere storico era sapere eminentemente filosofico o meglio la filosofia, come che si giustifichi la soluzione di questa questione complessa, era sapere storico. Ciò significa che il sapere storico era radicalmente fondativo di ogni altro sapere, anche di quello scientifico, il quale, quindi, non poteva non esserne svalutato, ricondotto necessariamente nelle spire di un sapere ulteriore, più prossimo all’essenza delle cose del mondo, che lo avrebbe tenuto stretto alla corda del suo principio assoluto e transeunte. Quello che sembrava presentarsi come un “storicismo debole”, si rivelava essere un idealismo forte, nient’altro essendo l’immanentismo del sapere storico come sapere filosofico che l’immanentismo e lo storicismo assoluto di Gentile e di Croce, ovvero quell’idealismo che aveva preso le mosse, lo abbiamo visto, dalla negazione della teoria filosofica della sensibilità e dall’estromissione della scienza dal campo della conoscenza teoretica. Ancora una volta la cifra distintiva della filosofia italiana sembrava essere quella del rifiuto della scienza in vista della affermazione della supremazia della filosofia sulla scienza stessa e, naturalmente, su ogni altro sapere.
La seconda metà del secolo, dopo aver messo in conto un marxismo legato mani e piedi all’idealismo o altrimenti attratto dai filosofi della Scuola di Francoforte che della scienza (ma per la verità anche della filosofia, e anzi forse della scienza perché della filosofia) facevano un’alleata del potere e della sua oppressione, doveva misurarsi con la recezione di Heidegger, ora non più esistenzialista ma autore di una filosofia dell’essere che vedeva la tecnica come ciò «che ormai dominava il mondo contemporaneo e che, secondo lui, aveva impedito al pensiero autentico di affermarsi. Heidegger rovesciava lo schema consueto, per il quale il trascorrere del tempo produce progresso: l’umanità era regredita quando, passando da Parmenide ad Aristotele e alle sue teorie logiche, aveva smesso di pensare e aveva ingabbiato l’essere in una metafisica incapace di comprenderlo. La metafisica non era l’alternativa alla scienza, come molti filosofi ritenevano, ma era complice della scienza e della tecnica, generata dalla scienza»(95-96). Questa idea della tecnica si trovava d’accordo con quella che ne aveva Emanuele Severino, filosofo di formazione cattolica che «tentava di rifarsi addirittura a Parmenide, negando la realtà del divenire, cioè del principale strumento con cui la scienza occidentale, da Aristotele in poi, aveva cercato di spiegare il mondo. Che le cose derivino l’una dall’altra è pura apparenza, perché l’essere non può accogliere in sé il nulla: nulla ed essere si escludono e pertanto non ci può essere mutamento, che esige la scomparsa di una cosa e la comparsa di un’altra. La tecnica, che si propone di trasformare le cose, induce a pensare che l’essere possa essere soggetto a mutamento, e il dominio della tecnica, caratteristico della mentalità moderna, crea un velo di apparenze e cela l’unità e immutabilità dell’essere. Nonostante certe affinità di contenuto e di gusti filosofici, la filosofia dell’essere di Severino era diversa da quella di Heidegger … Ma sulla diagnosi del mondo moderno come prodotto del primato della tecnica c’era accordo tra la filosofia di Heidegger e quella di Severino: la cosa non era di per sé particolarmente emozionante, perché in tanti ormai si erano messi a denunciare il dominio della tecnica … In compenso la sua filosofia, semplice e ripetitiva, che offriva formule verbali ad effetto, destò interesse, soprattutto tra i dilettanti, anche perché nel grande coro di coloro che contestavano il sapere scientifico sembrava permettere di respingere a poco prezzo un sapere che non si era in grado di comprendere e praticare»(97). Una riformulazione “dolce” dell’heideggerismo e del bisogno di liberarsi dalla tecnica era invece quella offerta da Gianni Vattimo con l’idea dell’oltrepassamento della modernità. Alla base c’era anzitutto «un dolce invito a non prendere sul serio l’immagine del mondo proposta dalla scienza tradizionale … La versione serena dell’heideggerismo si presentava come pensiero debole, una filosofia che rinuncia a certezze per acquistare libertà, che fa dell’irraggiungibilità dell’essere non una ragione di tristezza, ma una condizione per esercitare il senso della misura e per instaurare un rapporto amichevole con le persone. Il messaggio lanciato dal pensiero debole poteva sembrare originale e attraente; ma era necessario rifarsi alle elucubrazioni heideggeriane sull’essere per dire cose che si potevano trovare nei tradizionali programmi liberali e che i neoilluministi avevano ripresi? Non erano stati proprio gli illuministi a dar valore a un sapere di cui avevano messo in luce i limiti? Non erano stati loro a cercare di dar fiducia e coraggio? Perché attingere a un filosofo che pretendeva di rifarsi a Parmenide e che in realtà aveva contratto debiti con neoplatonici e gnostici? In realtà a Vattimo stava a cuore … mostrare la superiorità dello spirito sulla materia, dare un’immagine negativa del sapere scientifico e della tecnica quando non siano toccati dalla luce dell’arte, respingere l’illuminismo e la dialettica che gli avevano appiccicato Horkheimer e Adorno. Il pensiero debole era un’altra manifestazione dello spiritualismo nostrano»(103). Insomma, se Heidegger aveva attaccato la tecnica, cioè il frutto dell’albero della scienza, e questa bandiera antiscientifica aveva potuto essere facilmente piantata nel campo spianato della filosofia di Severino; se anzi quest’ultima, “semplice e ripetitiva”, basata su formule ad effetto, era servita da una parte a divulgare quell’idea e dall’altra a dare soddisfazione a chi, per la sua ignoranza, preferiva respingere la scienza piuttosto che sforzarsi di conoscerla e capirla; chi, come Vattimo, poteva forse essere ispirato da buoni sentimenti di riconoscimento dei limiti della riflessione filosofica, di rinuncia ai compiti grandiosi della filosofia, di ripiegamento, senza ombra di sconfitta, in una prospettiva etica anziché teoretica nella quale le ambizioni del pensiero lasciavano il campo a vantaggio dell’impegno in una vita umana più soddisfacente e serena, finiva invece per tradire il senso del suo sentire ponendolo al servizio di un programma filosofico che non differiva sostanzialmente da quello dell’idealismo e dello spiritualismo e che aveva come obbiettivo principale non il sano ripiegamento degli ideali filosofici, ma al contrario la loro riaffermazione, cioè l’instaurazione del dominio assolutistico della filosofia. E questo, una volta di più, passava per la svalutazione della scienza.
Ancora un esempio di come il pensiero filosofico in Italia, pur tra differenti voci, si sia trovato a formare uno schieramento sostanzialmente compatto di contrapposizione alla scienza Viano lo offre illustrando l’operato di Umberto Eco. Questi guardava alla semiotica, dice Viano, «per costruire un sistema in cui i diversi livelli dell’apparato dei segni risultano dominati dalle ideologie, che assegnano i significati fondamentali: un modo per esprimere nel gergo ideologizzato proprio della cultura degli anni Settanta la vecchia tesi per la quale la realtà è determinata dalle “visioni del mondo” dalle quali si muove. Così Eco, pronto a far propri gli stimoli più vari e a restituire suggerimenti e trovate, proponeva uno spiritualismo aggiornato e di buon gusto, nel quale la realtà materiale delle cose spariva nella trasformazione delle cose in significati e l’interpretazione faceva aggio sulla conoscenza. L’antico timore che soltanto il linguaggio scientifico potesse essere considerato attendibile pareva fugato dall’idea che ovunque si trova linguaggio e l’esperienza comune, a saperla trattare, magari con un po’ d’immaginazione, è una guida attendibile quanto l’esperienza scientifica. Eco, che era considerato esponente di un cattolicesimo illuminato e liberale, civettava volentieri con la cultura laica e democratica e non rifuggiva dalla pratica di criticare i modi correnti di pensare e gli stereotipi culturali, ma lo faceva ricorrendo a strumenti letterari e trasformando in letteratura e narrazione anche le conoscenze: la tradizione letteraria più che il sapere era lo strumento per interpretare l’esperienza ordinaria»(100-101). Tornava anche con Eco lo spettro di un filosofare che fagocitava il sapere scientifico, sottomettendolo alla regola dei segni, o lo sviliva riconoscendo alla letteratura la capacità di interpretare l’esperienza ordinaria e, quindi, sottraendo alla scienza e alla sua giurisdizione un amplissimo scenario del mondo.
Si potrebbe continuare e vedere, per esempio, l’esposizione che Viano fa dello spiritualismo o della filosofia cattolica o della rinascita dell’etica. Ma quanto detto è sufficiente per lasciarci intendere lo scopo di questo scritto e le modalità che lo caratterizzano.
Un evidente fraintendimento è quello che Viano mostra nei confronti dell’idealismo, un fraintendimento grave che getta discredito e mette in burletta non solo un movimento filosofico, ma una esigenza profonda e caratterizzante della filosofia stessa. L’idealismo non è mai stato il convincimento che il soggetto crei il mondo, o meglio che il pensiero crei l’oggetto e dunque, quasi fosse Dio, crei il mondo; è invece la consapevolezza che il pensiero, impegnato nella ricerca della razionalità del reale, ovvero della sua pensabilità, e alla luce del quale, quindi, il reale si giustifica, si debba dimostrare banco di prova di sé e del mondo. L’idealismo, insomma, non è,come superficialmente si crederebbe, lo sforzo prometeico del pensiero umano che si sostituisce a Dio nell’assoluto trarre l’essere dal nulla, nella creazione, appunto; esso è invece la richiesta di rigore estremo, che il pensiero rivolge a se stesso perché ben cosciente che il suo talento di pensiero filosofico, critico, non può discostarsi da quel rigore, il quale consiste nel dispiegamento della razionalità ovvero del come e perché il nostro pensare giustifichi che ciò che pensiamo non sia flatus vocis. L’idealismo esprime così, con movenze peculiari, una esigenza che, tra mille travagli, tutti legati però al bisogno di darle corso e di rispettarla anche quando sembrerebbe il contrario, è propriamente ciò che sta alla radice del pensiero filosofico in quanto tale e che solo un profondo malinteso può tradurre nella favoletta del soggetto arrogantemente creatore. Eppure è così che Viano ci induce a pensare: una filosofia fondata su falsi principi che altro non sono che l’arroganza del pensiero (e cosa può essere più arrogante che ritenersi creatore assoluto?) esprime questa superbia insensata misconoscendo la scienza. Ma se l’arroganza consiste nel fatto che nell’esercizio delle sue funzioni il pensiero, che ha sperimentato l’aporeticità di soluzioni diverse, si pone a verificare se, concependosi come vis activa, possa più adeguatamente dar conto di sé e del suo concepire, cioè appunto possa avvalorare l’idea di razionalità, allora dobbiamo prendere atto che chi muove questa accusa la muove non contro una filosofia e i suoi eventuali errori ma contro la filosofia in quanto tale, perché è la ragion d’essere della filosofia che in questo modo viene investita dell’accusa. Insomma, l’insofferenza nei confronti dell’idealismo rivela, da parte di Viano, una sostanziale incomprensione che rischia di essere incomprensione delle ragioni del filosofare e ci fa riflettere sulla lamentata mancanza di riconoscimento di limiti della ragione filosofica. Ciò vale per gli idealisti come per il pensiero debole, per Garin come per Abbagnano, per Vattimo come per Severino o per Eco, tutti messi nella stessa carretta, quella di chi non ha voluto riconoscere un dato di fatto evidente: che esiste un sapere e questo è rappresentato dalle scienze naturali e davanti a questo sapere la filosofia deve debitamente fare un passo indietro. Il punto è che la filosofia non ha nessun bisogno di fare un passo indietro, per il semplice fatto che non è in competizione con la scienza. Il suo esercizio riguarda un territorio che la scienza non può occupare e viceversa. Chiederle di riconoscersi come un sapere tra saperi è inutile, perché essa lo è già, la cosa è inscritta nella sua ratio formalis. Pretendere che questo si traduca in una assegnazione di confini che tanto più si restringono quanto più si estendono quelli della scienza, significa togliere alla filosofia ogni specificità e assegnare alla scienza il compito impossibile di sottomettere a sé la ratio formalis di quella. Se è questo che intende Viano, allora la sua critica andrebbe rivolta non alla filosofia italiana del Novecento, ma alla filosofia tout court, ma dovrebbe essere comunque un argomento filosofico a sostenerla. Quanto alla filosofia italiana del Novecento, grande o piccola che sia stata, non deve i suoi difetti al mancato riconoscimento del valore della scienza, ma all’insufficienza, semmai, del suo proprio rigore, della sua coerenza, che resta sempre il solo banco di prova di un sapere non suscettibile di verifiche o di smentite dai fenomeni del mondo, perché se così si pensasse avrebbe davvero perso la bussola. |