Con un progetto editoriale che prevede la pubblicazione di cinque volumi, l’editrice Morcelliana raccoglie e ristampa tutti gli scritti di Alberto Caracciolo (1918-1990), filosofo religioso, che fu docente di filosofia teoretica all’università di Genova. L’iniziativa, curata da Giovanni Moretto che di Caracciolo è stato allievo e del quale ha scritto una biografia intellettuale dal titolo Filosofia umana. Itinerario di Alberto Caracciolo (Morcelliana 1992), offre l’occasione di conoscere un pensatore di spiccata sensibilità morale e di indubbia finezza teoretica, doti ravvisabili anche in coloro che alla sua scuola hanno imparato a coniugare rigore filosofico e istanze religiose.
C’è un modo semplice per cominciare a capire chi era Alberto Caracciolo e cosa fosse per lui la filosofia: leggere con attenzione il primo degli scritti che il volume I delle Opere propone e che si intitola L’estetica e la religione di Benedetto Croce. Questo libro giovanile (la prima edizione è del 1948, la seconda del 1958, qui viene riprodotta la terza edizione del 1988 alla quale l’autore aggiunse lo scritto L’interrogazione jobica nel pensiero di Benedetto Croce del 1983)), che Moretto dice aver accompagnato in certo senso l’intero percorso della riflessione di Caracciolo tanto da potersene definire il vero Lebenswerk, non è soltanto un lavoro di esegesi della filosofia crociana e tanto meno uno scolastico resoconto dell’approfondimento di essa e magari della capacità dell’interprete di metterne in luce i punti deboli, le sfasature, le contraddizioni. Nella esplicazione, assai puntuale, del pensiero di Croce emerge, insieme alla capacità di penetrazione filosofica, una matura coscienza riguardo al significato e valore della filosofia e al modo di praticarla, emerge cioè che fin da questo primo importante lavoro Caracciolo aveva chiaro quali fossero i punti fermi del suo operare.
Fin dall’esordio, Caracciolo dichiara che la metafisica è il problema del fine dell’esistenza e la sua soluzione è strettamente legata a quella del problema ontologico con cui spesso è stato identificato. Per quanto generica possa apparire l’affermazione, il prosieguo dimostrerà che esattamente in questo alveo, costituito dal tema dell’essere e da quello del fine dell’esistenza, si può –secondo Cracciolo- e si deve svolgere il compito assegnato alla filosofia; nella coniugazione rigorosa di ontologia e finalismo, dove un ruolo di spicco si dovrà assegnare all’etica, la filosofia, secondo lui, mostra il suo vero senso, che è poi tutt’uno con il senso tout court. Questo primo punto fermo è accompagnato da un secondo, rappresentato dal modo in cui il discorso filosofico viene dispiegato, da come viene effettivamente coniugato il problema ontologico e quello del finalismo. Questo modo è un argomentare, un ragionare, che di un pensiero già costituito come quello di Croce assume su di sé non solo gli intenti espliciti ma anche le intenzioni più sotterranee; è un andare a scovare la valenza di sistemazioni teoriche, di volta in volta organizzate in una determinata figura, in ambiti problematici più ampi, più afferenti alle questioni di fondazione filosofica, cosicché anche problemi che sembrerebbero particolari possano essere riguardati come tali che la loro soluzione non sia estranea, ma al contrario intrinsecamente connessa, con il fondamento. In questa modalità, che riconduce tutto con rigore alla domanda fondamentale, cadono le barriere che fittiziamente separano le diverse discipline filosofiche (sicché tra estetica, etica e ontologia non vi sono solchi insuperabili), ma cade anche, quanto più ci si avvicina al problema del fondamento, la contrapposizione tra una determinata filosofia e un’altra, tra pensiero e pensiero, e la filosofia dello spirito di Croce, o meglio il pensiero che la governa intimamente, non si trova più contrapposta ad una filosofia che della trascendenza faccia un suo punto qualificante. In altre parole i due punti fermi che abbiamo cercato di delineare e che si mettono in evidenza in L’estetica e la religione di Benedetto Croce sono: 1) un concetto di filosofia che connettendo la domanda sul fine a quella sull’essere scardina di fatto ogni rigida distinzione interna al pensiero filosofico; 2) un modo di praticare la filosofia che ne attraversa i diversi ambiti nello sforzo di mostrarne l’essenziale aggancio alla dimensione fondativa e, soprattutto, al problema morale e religioso che a quella dimensione è strettamente connesso. Che questo secondo punto faccia pendant rispetto al primo, è cosa facile a capirsi. Così come è facile capire che averli preliminarmente indicati agevolerà la comprensione di quanto subito vedremo.
Caracciolo prende le mosse da una analisi circostanziata dell’Estetica di Croce. Egli si sofferma in particolare su un aspetto, quello che riguarda il contenuto dell’intuizione. Nelle diverse fasi di sviluppo del pensiero di Croce, osserva Caracciolo, il contenuto dell’intuizione assume una diversa configurazione. Per meglio dire, dall’inizio alla fine della speculazione crociana il concetto di arte subisce un cambiamento radicale. Questo cambiamento è direttamente collegato alla diversa definizione del contenuto, così diversa da far dire a Caracciolo che tra l’inizio e la fine la distanza è «immensa». Da una visione quasi ingenuamente realistica della materia dell’intuizione, Croce è passato a concepire il contenuto dell’arte come sentimento; e da sentimento personale lo ha poi inteso come sentimento cosmico, come quella «piena umanità» che sta a indicare come nella contemplazione l’artista si sollevi al di sopra della sua individuale passione e ricollochi il suo sentire nel cosmo. E’ una concezione, quest’ultima, avverte Caracciolo, nella quale la realtà, che è la vita dell’uomo, è allo stesso tempo qualcosa che trascende la sua volontà e finanche il suo intelletto; è una idea della vita dove luci e ombre, positivo e negativo, sono elementi costitutivi a pari titolo e l’azione dell’artista, di ricollocare il suo sentimento nel cosmo, sta a significare la sua “comprensione” di esso, che non è comprensione concettuale, ma riconoscimento della necessità di accettare la realtà per come si presenta, per come è nella sua natura più profonda. Sentimento cosmico non vuol dunque significare che l’uomo è cosmo, che la realtà è, in certo senso, la sua proiezione, ma che il sentimento è pienamente umano, dice Caracciolo, perché su di esso agisce la legge di “essere” e di “dover essere”. Niente di immanentistico si troverebbe dunque nella definizione ultima del contenuto dell’arte e, quindi, nell’arte stessa. Se la Filosofia dello spirito è stata intesa soprattutto in questa chiave, se l’arte inizialmente intesa come conversione del senso (sensazione) nello spirito è stata il mondo più antiplatonico che si potesse immaginare, ora invece è proprio l’arte a mettersi in luce non semplicemente come un atto spirituale ma come atto morale, e di una moralità non sposata ad una concezione immanentistica del reale.
Parlare di moralità dell’arte è cosa che fa sussultare chiunque abbia letto l’ Estetica di Croce. Non voleva Croce che l’arte fosse autonoma, perfettamente autonoma e indipendente dalla volontà pratica e addirittura dall’intelletto? Che cosa intende dire allora Caracciolo?
La “filosofia della libertà”, come ad un certo punto Benedetto Croce la chiamerà, aveva insito in sé un germe che si sarebbe sviluppato inevitabilmente. Era l’interrogativo riguardante il male, il negativo, interrogativo che si sarebbe mostrato sempre più acceso dalla vicenda terribile della Prima Guerra Mondiale fino all’esperienza della dittatura fascista, ma che già nel confronto con le espressioni del decadentismo, del nichilismo e di tutti quegli atteggiamenti che, per comodo di esposizione, chiameremo irrazionalistici, era il segnale di una reattività filosofica di Croce legata non solo alla sfera teoretica ma che investiva direttamente la sua coscienza morale. Così se la prima Estetica non aveva cuore, dice Caracciolo, cuore aveva, e grande, Croce stesso. Sarà questo «cuore», come egli lo chiama, a sospingere la risoluzione di problemi che avrebbero potuto essere considerati “tecnici” verso l’esito che si è detto. La ricerca di una definizione più adeguata del contenuto dell’intuizione comporta un ripetuto riassetto della concezione dell’estetica in generale e dell’arte in particolare e in questo riassestare l’arte Croce, più o meno intenzionalmente, ne farebbe dapprima il primo atto veramente umano quando, contenuto essendo il «sentimento», essa si configura come dominio di tutto quel materiale psichico che, nella sua natura non del tutto coincidente con la forma, è per intima vocazione destrutturazione di ogni regola; poi, identificato il contenuto dell’arte con la «piena umanità», l’arte assurgerebbe a luogo nel quale si esprime una concezione della realtà permeata di moralità. Perché? Perché, risponde Caracciolo, la «piena umanità» non è altro che «totalità». Detto con le sue parole: «questo sentimento deve presupporre ansia di pensiero, esperienza di azione, compartecipazione al dramma della storia; cioè nel poeta deve essere l’uomo, non solo nel suo eterno dualismo, ma nella totalità delle sue forme … si richiede nel poeta l’uomo integrale … il quale sente tutte le fondamentali esigenze dell’essere suo, l’ansia della verità non meno che quella della bellezza, la forza del lavoro e della dedizione non meno che l’insopprimibile amore di sé, e il quale su tutte le sue forze fa dominare, forma unificatrice e armonizzatrice, la moralità, e, come essere morale, essere che uccide in sé l’individuo per vivere per l’umanità e con l’umanità nella creazione di valori che sono di tutti»(p. 111). Questo sentimento è, più che un risultato dell’arte, un presupposto di essa, anzi è un “presupposto” solo nel senso che è la presenza nell’uomo della realtà tutta, della totalità delle forme spirituali, o per meglio dire l’uomo, e segnatamente l’artista, è espressione del sentimento di totalità, di umanità, che è tanto più tale quanto meno sia identificabile con l’individuo, e che tanto più è moralità quanto più esso si struttura, come abbiamo già visto, come distacco dal proprio individuale sentimento per essere «ricollocato» nel cosmo. Insomma, dice Caracciolo, dall’esame di questo sentimento cosmico appare chiaramente che esso si struttura grazie al superamento della divaricazione dell’individuo dal cosmo che è, insieme, istituzione della differenza e della coincidenza con esso. La totalità, il cosmo, non ha natura diversa da quella umana, è fatto della stessa sostanza, dello stesso spirito; ma ciò non significa che tra i due termini vi sia identità. Per quanto incardinati nella stessa radice, il reale è «un Destino che ci trascende» e proprio tale trascendimento rende possibile la moralità. Il primo atto morale infatti è riconoscere la natura della realtà, è riconoscere e accettare che essa sia Destino che ci trascende, recedendo dalla tentazione di sovrapporre alla realtà l’idea che essa sia cosa “nostra”, l’insensato convincimento che sia riflesso di noi stessi, e recedendo dall’ancor più insensata intenzione di distruggerne ogni significato. E’ evidente che così facendo non si può non porre la domanda sul senso della realtà, ovvero sul senso tout court. L’abilità di Caracciolo si rivela proprio nella trasparenza teoretica con la quale ci dimostra come l’intreccio della ricerca filosofica sull’estetica e di conseguenza sulla natura del reale si lasci attraversare (e quindi non possa non incontrare) da quella sulla struttura della moralità e dall’interrogativo sul senso. «In quanto espressione dell’uomo sotto l’aspetto che si è fin qui chiarito –nella totalità e nella dialettica delle forme- l’arte è espressione della struttura eterna e immobile della realtà. Poiché lo Spirito rimane uguale sempre a se stesso nelle sue categorie e nella dialettica delle sue categorie: esso è il substrato permanente delle sempre nuove creazioni della storia. Come è noto, nell’ultima fase del suo pensiero, il Croce, in contrasto con le esigenze del suo radicale storicismo, è venuto sempre più sottraendo le sue categorie al divenire, e conferendo loro il carattere di struttura permanente in cui si articola la storia»(113). Proprio da questo punto dobbiamo ripartire per chiarire meglio il pensiero di Caracciolo.
Dopo aver identificato l’arte con il sentimento di «piena umanità» e aver indicato il carattere di questo come intimamente sostanziato di moralità, aggiungere che tutto questo non è poi altro che espressione della struttura eterna della realtà vuol dire non semplicemente affermare che l’arte è moralità, ma che moralità è tutto il mondo dello Spirito. Infatti, l’arte è moralità perché il sentimento che essa esprime e di cui si sostanzia porta alla luce la realtà come trascendente l’individuo e ne produce il riconoscimento e l’accettazione; ma se la realtà che essa esprime nel sentimento di «piena umanità» è la realtà dello Spirito, che ora Croce riconosce struttura permanente e sottratta al divenire, allora sarà lo Spirito stesso a essere moralità, proprio quella moralità che l’arte esprime, a suo modo, come sentimento di «piena umanità». E infatti non meno dell’arte, anche le altre forme dello Spirito, le altre attività, saranno anch’esse moralità. Moralità saranno anche la logica e l’economia, e la moralità non sarà più una determinata forma dello Spirito ma esso nella sua totalità. Insomma, tutta la filosofia dello Spirito di Croce sembrerebbe così travasata in una sorta di «etica generale», come la definisce Caracciolo, nella quale le funzioni dello Spirito sfumano sensibilmente in valori o, meglio, in modalità di un unico valore, che può essere riconosciuto se si capisce fino in fondo che la domanda metafisica “perché l’essere piuttosto che il nulla?” non è qualcosa di diverso dal problema del male. In altre parole, l’esame dell’Estetica ci ha portato di fronte al sentimento della totalità, cioè non solo a riconoscere questa come la realtà, l’essere, indipendente da noi, ma anche ad accettarlo come tale. In quel riconoscimento e in quella accettazione è contenuto il succo del ragionamento di Caracciolo. Il quale infatti vuol dire che se si arriva a riconoscere che la realtà è trascendente, cioè a riconoscerne la «non derivabilità dal soggetto», allora non potremo fare a meno di domandare se essa abbia un senso, se sia razionale. Questo interrogativo, lo si esprima chiedendo “perché l’essere piuttosto che il nulla?” oppure chiedendo perché il male nel mondo, è sostanzialmente lo stesso. Infatti il problema del male «è la domanda se il reale possa essere visto come “razionale”, tenendosi presente che razionale assume qui significato non logico ma, se così può dirsi, metafisicamente assiologico: razionale è quel reale che sia valore, che riveli diritto all’essere per l’interna giustificazione che reca di sé in sè»(pp. 167-68). Di qui la coincidenza e sostanziale identità della domanda metafisica che chiede perché sia l’essere e non invece il nulla con la domanda che chiede perché ci sia il negativo. Se da un punto di vista strettamente logico le due domande non coincidono affatto né, tanto meno, possono essere identificate, dal punto di vista di una razionalità che sia da intendersi più ampiamente come «aver diritto all’essere», come «interna giustificazione», esse possono essere intese come espressione della stessa domanda di senso. Domanda di senso, sembrerebbe di capire, che non deve esser costretta nel letto di Procuste della richiesta incondizionata, domanda che esigerebbe cioè una risposta affermativa ma, al contrario, domanda che proprio in quanto lascia libera la scelta è per questo capace di istituirsi a valore, cioè in quanto lascia libera la scelta può davvero essere guardata come quel punto nel quale insieme si fondano ontologia e moralità. Non a caso, crediamo, proprio sulla libertà Caracciolo poi si sofferma, con accenti più personali, per sottolineare come essa sia «diretto e genuino riattingimento della voce dello Spirito di contro alla pressione della tradizione»(p. 179), ovvero il fondamento vero e proprio del senso, dato che “riattingimento della voce dello Spirito” non significa altro che trovarsi davanti all’interrogativo riguardante il senso e decidere per il sì.
Questa esposizione piuttosto essenziale del tema di fondo di L’estetica e la religione di Benedetto Croce si presta già ad alcune osservazioni di vario e diverso carattere. La prima, e più estrinseca, riguarda il fatto che il testo di Caracciolo sembra avere impliciti alcuni riferimenti, per esempio a Blondel, che Caracciolo non cita, e al drammatico problema della ricerca del senso che nell’ Azione viene risolto consegnando la dialettica alla decisione libera; ma anche a Chiocchetti, il neoscolastico fortissimo estimatore di Croce, che invece cita e dal quale Caracciolo sembra aver tratto qualche lezione ma irrobustita di capacità espansiva e finezza teorica. Riferimenti, però, che nulla tolgono al nostro autore e alla sua originalità di interprete e di pensatore; anzi, semmai qualcosa aggiungono, per ricchezza di echi e di esperienza. La seconda osservazione che ci sembra di poter avanzare riguarda il concetto dell’idealismo che Caracciolo mette in campo. Interpretando la filosofia di Croce così come la interpreta, è chiaro che Caracciolo tende a isolarne gli elementi che ne fanno una filosofia idealistica e a ridimensionarli per portare, invece, in primo piano il carattere trascendente del reale e svolgere di qui il suo ragionamento. A più riprese il principio dell’idealismo viene indicato come uno”slittamento” in una sorta di “hegelismo deteriore” che permarrebbe nel pensiero di Croce e, comunque, come qualcosa di non rigorosamente pensato da Croce ma tenuto, piuttosto, come un «orientamento». Di questo principio in effetti Caracciolo non dice molto, a parte il fatto che lo dichiara in disaccordo con il teleologismo che informa tutta la filosofia di Croce e, definendolo un «orientamento» e qualcosa di non rigorosamente pensato, ne suggerisce il carattere spurio rispetto al sistema nel quale è ospitato. Ma quando si tratta di spiegarlo, Caracciolo si limita a sostenere che, creduto come fondamento di tutto, esso esclude non solo Dio, ma anche la realtà degli uomini e della storia, lasciando sussistere solo un atto che non è possibile trascendere. Questo principio, dice Caracciolo, che pretende di aver tolto ogni mistero, è esso stesso misterioso e assurdo e impenetrabile, essendo un atto di coscienza che si trova ad essere senza volerlo e con il quale tutta la realtà coincide. Parole nelle quali domina una certa genericità e approssimazione, ad eccezione che per il punto che sta a cuore al nostro autore, e cioè il fatto che l’atto di coscienza che dovrebbe rappresentare il principio è qualcosa che si trova ad essere senza volerlo, cioè non è libero, non è valore. Per la verità su questo punto per esempio Gentile (al quale forse l’espressione «atto di coscienza» sembra rinviare) era stato chiaro e aveva associato sempre, fin dalla prima formulazione della sua filosofia, la qualificazione di “libero” all’atto. Ma non meno chiaro è che qui quello a cui Caracciolo intende riferirsi è la valenza immanentistica dell’idealismo, quella valenza su cui Bontadini, allievo di Chiocchetti, aveva trovato molto da dire negli Studi sull’idealismo elaborati tra la fine degli anni Venti e quella degli anni Trenta. Insomma, Caracciolo tende a sminuire la portata idealistica della filosofia crociana («nel Croce né il concetto dell’arte fonda davvero l’immanentismo, né l’immanentismo fonda davvero la sua religione») perché traduce automaticamente idealismo con immanentismo e immanentismo con negazione della libertà. Ma che l’idealismo fosse davvero coniugabile in questo modo è cosa tutt’altro che fuori discussione. D’altra parte, la stessa riflessione di Caracciolo sulla filosofia crociana era un esempio non del travasamento di essa in un altro “contenitore”, ma di come il terreno fertile nel quale quella filosofia era piantata fosse suscettibile di sviluppi ed esiti forse meno scontati di quanto non si credesse. Insomma, con la sua operazione Caracciolo aveva sì dimostrato che il pensiero di Croce poteva non essere necessariamente destinato a soluzioni immanentistiche, ma ci sembra che non avesse con ciò stesso provato che quella filosofia non era idealistica.
La terza osservazione tocca un punto più delicato, quello della identificazione della domanda metafisica con la domanda riguardante il male. Con questa identificazione è chiaro che Caracciolo pensa di mettere a nudo la natura squisitamente morale dell’indagine metafisica qua talis. Ma è davvero così? E’ davvero la metafisica per sua natura filosofia pratica? Questa questione si può dire che sia il vero tema dominante del saggio ed è in realtà alla luce di questo convincimento che Caracciolo ha costruito la sua lettura del pensiero di Croce come di una etica generale e non viceversa. Ma proprio questo punto resta fuori discussione, assunto come un orizzonte all’interno del quale soltanto la riflessione filosofica appare a Caracciolo nella sua vera luce, qualunque siano i panni di cui è vestita. Tutto quello che egli ne dice in sostanza si riassume nell’osservare che l’interrogativo che chiede “perché l’essere invece che nulla” è di per sé un interrogativo rivolto a cercare il senso. Ugualmente rivolto a cercare il senso è quello che domanda “perché il male?”. Ma nei due casi il termine “senso” ha la stessa valenza? Se la risposta alla prima domanda fosse una necessità assoluta, ontologica, dove starebbe allora il valore morale? Se tale fosse la risposta, la domanda non sarebbe altro che frutto di ignoranza, o meglio dell’incapacità di vedere la necessità, l’assolutezza. Solo se la domanda assume valore essa stessa di strutturazione di ciò su cui si domanda, solo se ciò su cui si domanda fosse investito dal senso di quel domandare e il domandare stesso lo tenesse fermo nel suo “perché?” e l’intera situazione fosse quella che tiene insieme la domanda “perché l’essere?” e “l’essere” (a proposito di cui si domanda) e questa situazione non fosse altro che il domandare e, insieme, l’essere, che proprio così si configura, cioè come tale che di esso il domandare è elemento strutturante, costitutivo, - solo allora, dicevamo, sarebbe possibile pensare l’essere come moralità, come valore morale. Esattamente la stessa situazione del riconoscimento descritto da Caracciolo nel sentimento di «piena umanità» provato dall’artista. Ma alla domanda sull’essere, per adeguare la situazione descritta a proposito della «piena umanità», manca ancora di presentarsi come libera, libera di dire sì o no all’essere stesso. Ma come potrebbe essere libera di dire sì o no all’essere che sia necessità logico-ontologica? Qui non c’è nessuno spiraglio per la libertà. Altro è invece se l’essere è individuato e definito nella domanda che ne chiede il perché e che, appunto, si riserva di dare o meno il suo assenso. In quest’ultimo caso il senso è dato dal domandare stesso e dalla possibilità di dire sì o no. Nel caso dell’essere ontologico il solo senso concepibile è la sua necessità. Come è possibile allora identificare le due situazioni? In effetti l’identificazione che ne fa Caracciolo è alle spese della perdita della valenza ontologica dell’essere. E difatti, se si riflette bene, questo è precisamente anche quanto avviene nell’interpretazione della filosofia crociana, dove egli apre un varco nella compattezza ontologica della filosofia dello Spirito scardinandone proprio la valenza ontologica per tradurla e riformulare il senso dell’essere in quello del valore morale. E’ solo così che il silenzio di Croce riguardo alla domanda sul senso del vivere può essere letto non come la svalutazione decisa della domanda stessa, ma come la risposta, già da sempre implicita, che include la domanda, e, quindi, il positivo riconoscimento del senso del vivere; è così che quella prospettiva ontologica viene inglobata nell’orizzonte di una concezione pratica che ne corrode la specificità e la trasvaluta; è così, infine, che la dialettica viene ad essere intesa come elemento dell’etica e non più come struttura necessaria e che il problema crescente di questa struttura, sempre più presente agli occhi di Croce, viene salutato come quel problema unico della filosofia che è la filosofia stessa e che, per Caracciolo è il problema morale.
Insomma, l’inizio e la fine della riflessione filosofica in questo libro di Caracciolo coincidono, altro non essendo che la concezione dell’essere come valore, cioè della filosofia come moralità. Attraverso la cruna di questo ago egli fa passare la filosofia di Croce, convinto che esattamente grazie a questo travaso sia possibile attingerne il vero pensiero. D’altra parte, non potrebbe esservi ammissione più esplicita, a conferma di quanto detto, che quella fatta da Caracciolo nella Prefazione alla seconda edizione, dove dice che «l’eliminazione della metafisica strutturale era solo la strada dell’incontro col vero Croce».
E’ chiaro, allora, in che senso l’incontro con Croce resterà fondamentale e perché quarant’anni dopo, con L’interrogazione jobica, lo riproponesse come interlocutore per eccellenza. Anche allora, quando la sua concezione dell’etica si era trasformata al punto che tra questa e la religione egli non riconosceva più una continuità lineare, come mette bene in risalto Marco Ivaldo (Dall’orizzonte della metafisica a quello del “religioso”. Sul confronto di Alberto Caracciolo con Benedetto Croce, “Archivio di storia della cultura” 2006), Caracciolo insisteva sull’importanza di Croce per la retta comprensione del cammino che porta il pensiero non solo a riconoscersi morale ma a rapportarsi religiosamente a Dio. Il filosofo napoletano non era stato semplicemente un grande pensatore, il più grande in Italia nel Novecento, ma «forse anche il più profondo tra gli interpreti contemporanei, non solo italiani, del poetico», di quel sentimento di «piena umanità» che era il nucleo della concezione filosofica dell’essere come valore. Fedele a Croce nel solo modo in cui è possibile esserlo in filosofia, nel riconoscimento dell’importanza di Croce Caracciolo era anzitutto fedele a se stesso, al suo mondo morale e religioso che aveva trovato nell’autore dell’Estetica una fonte per dissetare la sete di senso filosofico e religioso. |