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Vittorio Possenti (a cura di), Annuario di filosofia 2007 – Natura umana, evoluzione ed etica , Guerini, 2007
di Claudio D'Errico

L’Annuario di filosofia 2007 propone «tre termini chiave: natura (umana), evoluzione, etica, incrociati secondo varie prospettive e metodi di lettura» (9). Si va dagli approfondimenti epistemologici di Evandro Agazzi, Vittorio Possenti, Giovanni Federspil e Roberto Vettor, all’esame della nozione di natura di Antonio Da Re, alle considerazioni etico-ontologiche di Marco Ivaldo. Ampio spazio è dedicato al diritto con Francesco D’Agostino, Gerardo Cunico, e Antonio Delogu. Barbara De Mori affronta i rapporti tra evoluzionismo ed etica e Gaspare Mura le pretese del riduzionismo nell’etica. Ai contributi dei nostri si aggiungono infine le interviste a Martha Nussbaum e a Robert Spaemann, due voci dissonanti, ma tra le più autorevoli del dibattito contemporaneo sull’etica.
         L’editoriale che lo introduce precisa che nel testo «il tema della natura umana e del suo futuro viene accostato in specie attraverso le lenti dell’evoluzione e dell’etica» (10). E, all’inverso, è alla natura umana nella sua evoluzione che occorre collegare il “fatto” della moralità, per cui «sembra… che etica e antropologia non possano essere separate e che occorra formare una teoria morale che detti norme per l’essere umano elaborando un’antropologia» (14). D’altro canto «il fenomeno della moralità… accostato dalla ‘parte naturale’ permette di immergere l’esistenza umana in quel contesto di prossimità col vivente che si apre con la teoria dell’evoluzione» (De Mori 186). Nel dibattito contemporaneo «dopo la questione sociale, quella antropologica occupa imperiosamente la scena» (9), perché la questione della ‘natura umana’ impone un impegno comune, ineludibile anche per le posizioni più radicali, di qualunque segno siano, purché aperte alla parola.
       Il dato reale è che la nostra è una «società che vive nello spaesamento morale» (Delogu 302), lacerata da «una profonda crisi antropologica che coinvolge il significato e il valore della “persona umana”, dovuta in gran parte alla sua riduzione naturalistica» (Mura 259). La «ybris dell’autoaffermazione assoluta dell’uomo» (Mura 243) libera «lo scatenarsi illimitato di desideri soggettivi» (Spaemann 39) di «uomini che annegano nella palude dell’individualismo edonistico» (Delogu 300), tentando disperatamente di reggersi su un relativismo naturalistico. Diventa sempre più attuale la denuncia di Adorno: «“il soggetto è al centro” e “il mondo è solo un’occasione per il suo delirio”» (Mura 257) (un dato di fatto che confuta l’ambiguo topos della “morte del soggetto”). Questo stato per Jonas coincide con lo «gnosticismo», che non è solo una delle «eresie del nascente cristianesimo», ma è «una condizione dello spirito umano che emerge nei momenti di crisi della sua storia e della sua cultura». È una «orientale… attitudine di rivalsa» contro il «logos greco… che approda a un nichilismo di valori filosofici ed etici» (247). Questo appaiamento nella crisi indica un doppio impegno morale all’autentica filosofia, che, prima di pretendere di poter, come deve, positivamente incidere sul contesto in cui si è formata, ha l’obbligo di confutare convinzioni, ormai dominanti nella prassi e nella teoria della nostra società, esemplificabili per Mura nella «tesi sartriana, secondo cui “la libertà o è totale, o non è libertà”» (245). Nussbaum ci ricorda invece che «la dignità richiede l’accettazione dell’incompletezza, e quindi la rinuncia all’impulso a dominare» (18).
         Lo sradicamento e la «solitudine» cosmica dello gnosticismo connotano dunque il corrente, pericoloso «intreccio di “pensiero debole”, nichilismo e perdita del senso etico» (Mura 247), il cui esito è «intendere l’essere umano come un semplice soggetto di volontà per il quale non sussiste alcuna determinazione di tipo normativo» (Spaemann 38). «Risiede qui la radice del rifiuto dell’obbligazione morale come referente della libertà» (Mura 245), ed è in forza di questo rifiuto che l’individualità, come in tutti i grandi momenti critici, diventa principio eversivo di ogni ordine. Giova ricordare che, ad esempio per Vico, una filosofia “monastica”, che giustifica cioè l’individualismo particolaristico che mina le basi della convivenza civile, non può essere vera. È solo filosofia nella crisi che preannuncia il “ricorso”, non filosofia della crisi. Per la filosofia “vera”, o che almeno vuole “veri-ficarsi”, corre allora l’obbligo doppiamente morale di confutarla: 1) perché è falsa, cioè, essendo a priori, contraddittoria; 2) perché, come pertiene alla natura della menzogna, è fattore di disgregazione civile e fa da pendant teorico alla «violenza subdola di quotidiani ammaestramenti a stili di vita in cui il culto del corpo sostituisce quello dell’intelligenza e dello spirito (a essi di fatto la società “educa” l’individuo); in cui la caducità delle cose viene elevata a criterio di valore» (Delogu 303).
         «La civiltà moderna è caratterizzata da una dialettica tra naturalismo e spiritualismo» (Spaemann 35), ma il naturalismo domina la cultura contemporanea non tanto nella forma nichilista (infatti, con un’inversione necessaria, la metafisica nichilista si regge su un ‘naturalismo di sfondo’), quanto in quella del materialismo biologista, cioè della teoria darwiniana e dei “neo-darwinismi” che l’hanno seguita. Bisogna quindi prendere preliminarmente atto che «l’evoluzionismo [è] divenuto ormai l’ideologia dominante e quasi la “filosofia prima” dell’odierna cultura» (Mura 262). Nelle scienze infatti «accadono profondi cambiamenti epistemologici, e la teoria dell’evoluzione assume un’importanza non solo paragonabile ma superiore a quella esercitata a lungo in passato dalla fisica newtoniana» (Possenti 75). «Il naturalismo, che per lunghe epoche ruotava attorno alla fisica, appare oggi centrato sulle scienze biologico-evolutive.» (Editoriale 12). Benché Nussbaum non veda «validi argomenti contro la nostra tendenza a interferire sistematicamente nei processi ‘naturali’» (22), le capacità operative delle scienze sono oggi ben più inquietanti. Basta menzionare il termine ‘genetica’ per avvertirlo. Se infatti «per lunghe epoche erano la meccanica e la macchina il problema da risolvere, da tempo sono la vita e l’organismo» (Possenti 76). La cultura non filosofica deve allora lasciarsi ricordare dallo Husserl di Krisis che «le scienze… hanno… visto naufragare il loro tentativo di sostituirsi alla filosofia per spiegare la totalità del mondo» (Mura 255), perché «le scienze, il cui modello di sapere è oggi dominante, non hanno nulla da dire per quanto riguarda il senso dell’esistenza» (256). Il valore della fenomenologia sta invece proprio nel fatto che essa «ci sollecita a considerare noi stessi e il mondo come senso e non come semplice cosa» (Delogu 291). Quella stessa cultura deve anche lasciarsi ricordare da Stefanini (citato ancora da Mura) che «“relativismo.. funzionalismo.. energetica si sono indebitamente trasferiti dalle scienze della natura, dove forse hanno ragione di essere, alle scienze dello spirito e, quel che più importa, al senso corrente dell’umana esistenza”» (266). Almeno per quanto riguarda le scienze, si tratta dell’esito abnorme di «abusi metodologici» (Agazzi 72), perché «interpretare l’intero» è compito «specificamente filosofico» (73).
         Quasi tutti gli interventi concordano nel giudicare che il «paradigma evoluzionistico» viene in effetti «dilatato oltre l’ambito dello strettamente biologico, fino a investire la dimensione antropologica e porsi come la chiave per l’interpretazione generale della realtà» (D’Agostino 117). Quel che primariamente importa sul piano morale è però che l’evoluzionismo, non riconoscendo un principio superiore a una meccanica assolutamente casuale di mutazione e selezione, nelle vesti di «teoria antropologica… tende a ritenere una mistificazione metafisica l’idea propriamente umana della libertà» (126). Se così fosse dovremmo semplicemente rinunciare alla moralità, perché soltanto la libertà ne è ratio essendi. Identico problema nel diritto (ma anche nella politica), qualora non ci si voglia ridurre al formalismo procedurale del positivismo giuridico. È quindi indispensabile «esplorare le implicazioni metafisiche e antropologiche delle teorie dell’evoluzione», considerando che «l’approccio conoscitivo che cerca spiegazioni e cause non può evitare il passaggio al metaempirico… e quasi sempre le teorie scientifiche inglobano ‘metafisiche di sfondo’» (Edit. 11). In realtà, come dovrebbe risultare già dalla «mancata distinzione fra teoria scientifica dell’evoluzione ed evoluzionismo filosofico» (Federspil/Vettor 142), «il materialismo è una metafisica che non si dichiara, presentandosi come una concezione soltanto scientifica» (Edit. 13). L’argomento è in effetti universalizzabile, se «già in ogni affermazione relativa a uno stato di cose è con-affermata l’intenzione di dire la verità con questa affermazione stessa, di farla valere erga omnes, ed è implicato almeno incoativamente un giudizio su tale stato di cose alla luce di una regola» (Ivaldo 220). Nella vita come nella scienza è impossibile dismettere, senza recedere dall’umano, la dimensione metafisica, cioè «evitare di avanzare “frontalmente”… pretese di validità normativa o valutativa, che sono implicite in ogni atto linguistico» (Cunico 275).
         La storia della scienza mostra che in realtà l’uomo interpreta naturalisticamente, riflettendo su di sé e sulla natura il modello della macchina che in quel momento è capace di costruire (Verum factum convertuntur). È paradossale, ma forse si tratta ancora di un’inversione necessaria, perchè il vizio riduzionista del naturalismo (che è anche la sua maggior virtù) consiste proprio nel pensare il naturale a partire dall’artificiale, nell’«utilizzazione della “macchina” come modello esplicativo». Infatti, dopo che come «macchina meccanica», il pensiero moderno passò a «pensare il vivente come una macchina chimica, così come in seguito lo si sarebbe interpretato come macchina termodinamica, elettrodinamica, cibernetica» (Agazzi 49). Nessuna di queste funzioni può però superare se stessa e, se «i processi naturali non possono produrre la libertà» (Spaemann 36), tanto meno lo possono (per ora?) quelli artificiali. Di fatto «gli evoluzionisti fanno un uso assolutamente ingenuo di quasi tutti i loro concetti fondamentali» (D’Agostino 119), mancando le questioni filosoficamente decisive. Prendendo ad esempio la categoria fondamentale delle scienze, la causa efficiente, si domanda: se nell’effetto non ci può essere più che nella causa, «come accade che il grande, il differenziato, lo sviluppato si generi dal piccolo, il più dal meno?» (Possenti 82). Perché la biologia evoluzionista si “riduce” al causalismo meccanicista, rigettando la prospettiva finalistica, che pure sembrerebbe più adeguata a spiegare la vita e il pensiero (la libertà)? «Sia le cause sia i fini non cadono, infatti, sotto il dominio dei nostri sensi e ciò che noi possiamo constatare è soltanto il fatto che certi fenomeni precedono o seguono con regolarità certi altri fenomeni. Quelli di ‘causa efficiente’ e di ‘causa finale’ sono giudizi che il nostro intelletto formula intorno a certi fenomeni osservati e, da un punto di vista filosofico, non appare giustificato accettare a priori i primi e rifiutare i secondi» (Federspil/Vettor 156). Osserva infatti il nobel Granit: «“La finalità non è né chimica né fisica. È un punto di vista”» (146) (ma non in senso relativistico). La verità è che «le risposte… in ogni caso… lasciano l’ultima parola a una fede» (Agazzi 73). È la fede a decidere, così nella scelta tra finalismo e causalismo, come in quella (in fondo non tanto diversa) tra religione e ateismo. Dovrebbe infatti risultare ovvio che, esattamente quanto l’affermazione, anche la negazione dell’esistenza di Dio è un puro asserto metafisico che oltrepassa qualsiasi esperienza concepibile. Ne consegue, come mostra di ignorare Dawkins, che «pure l’ateismo è una fede, e dunque anch’esso “cieca fiducia”» (Possenti 103n). Si può però, con Hegel, universalizzare anche questo argomento: «Non c’è alcun pensiero che non contenga una fede, sia pure momentanea; perché una fede, in generale, è la forma di qualsiasi presupposizione».
         Le contraddizioni performative, in cui cadono naturalismo e nichilismo, quando i loro argomenti si riflettono sull’enunciante, appaiono ragionevoli solo in virtù di una “modestia epistemologica” riduzionista, che di fatto è arroganza dogmatica. In effetti, e non potrebbe essere altrimenti, «le asserzioni materialiste sparse nei manuali dell’evoluzionismo non sono conseguenze filosofiche della teoria dell’evoluzione, ma rappresentano le convinzioni metafisiche degli autori» (Federspil/Vettor 144). Quando queste convinzioni orientano ideologicamente il materiale scientifico, il «paradigma evoluzionistico» passa nella sua versione “forte”, inclinando al «vetero-positivismo» e a costituirsi come «religione secolare». Come si è visto però, da un punto di vista strettamente razionale, «non [è] ineluttabile che il suo esplicito “naturalismo” confluisca nel relativismo» (D’Agostino 116). Si può cioè evitare che la «ricca polisemia» della parola ‘natura’ sia annientata da un materialismo cieco nei confronti di tutto il resto, privo quindi di qualsiasi luce unificante. La ragione essenziale del ricorso al concetto di natura umana, come accade da prospettive diverse per Nussbaum e Spaemann, sta infatti proprio nell’esigenza di stabilire un terreno comune, un principio condivisibile per la definizione dialogica (in senso trans-culturale e, potremmo dire, trans-ideologico), di una universalità fondante, contro il disorientamento cui fatalmente approda il relativismo. Sulla base di esso è sempre possibile istituire un confronto razionale, perché il concetto di natura (praticamente in qualunque accezione) può fungere da medio, rinviando costitutivamente a un qualche principio. Così «nell’uso linguistico comune, ai concetti di ‘natura’ e di ‘naturale’ appartiene sempre qualcosa di normativo» (Spaemann, 34), anche se, nelle varie forme di condizionamento con cui la comunità preme sul singolo, troppo spesso il richiamo alla normatività del naturale «si riduce a un dispositivo per impedire qualcosa che viene percepito come nuovo o allarmante» (Nussbaum, 20). Spaemann d’altronde ribadisce che «per l’essere umano la sua natura può essere normativa solo se la natura stessa viene intesa come cifra della volontà divina, altrimenti vale la frase di Dostojewski: “se Dio non esiste, allora tutto è permesso”» (36). Questa polifonia conferma che è in corso «una sorta di riabilitazione della valenza etica del naturale» (Da Re 161), e insieme di quella giuridica e politica. Annas ha rilevato che «il ricorso alla natura… è anche il richiamo a un ideale etico… in grado di indicare, di criticare e di modificare quegli elementi delle mie opinioni etiche che si basano su mere convenzioni» (178). Questa stessa funzione «critica» del concetto di natura, agendo in senso inverso, è «legittimatoria», e «l’appello a una istanza sovrapositiva può consentire l’una e l’altra funzione». Questo vale in generale, ma qui Cunico si riferisce agli organismi sovrastatali che hanno meritoriamente sancito «l’ampliamento successivo, avvenuto negli ultimi due secoli, del catalogo dei diritti fondamentali della persona umana» (282).
         Il rischio primario, trattando la nozione di natura, è di «assimilare il concetto ‘natura umana’ a quello di ‘natura’… un corto circuito, purtroppo non infrequente» (Edit. 10). Si deve invece riconoscere con Spaemann che «l’essere umano non è la sua natura ma possiede una natura» (35), ossia che «la nostra natura deve venir pensata… come un limite generante» (Ivaldo 234). «È inadeguato definire l’uomo… animal rationale» (230), poiché questo presuppone che la natura sia sostanza e la libertà accidente (attributo), cioè nulla. Non perché l’accidente sia nulla, ma perché la libertà, come accidente di una sostanza, sia essa “naturale” oppure no, è nulla. L’uomo è invece la soggettività che eccede la “mera” natura (dentro e fuori di sé), potendola affermare o negare in tutte le forme sottese alla polisemia del termine. Questo dice la metafora dell’«uomo come il primo liberto della creazione (secondo l’espressione di Herder), cioè come l’unico soggetto naturale capace di porsi al di fuori e al di sopra della sua natura» (D’Agostino 119-20). È precisamente in questo che consiste la moralità (la libertà). «L’essere soggetto morale impegna l’individuo al dover essere morale, alla tensione di essere altro da ciò che è», altro dalla sua “natura”, «scoprendo il senso originario sotteso al categoriale… ri-conoscendo la trascendenza nell’immanenza, l’universalità nell’individualità, il dover essere nell’essere, il valore nel fatto» (Delogu 295). Se, come sostiene Dawkins, «“siamo macchine sopravviventi programmate per diffondere i data-base digitali che fecero il programma”» (79), se, come per Breivik, non siamo che «“colonie temporanee” per i nostri geni» (168), allora libertà e altruismo sono «qualcosa che sospende le leggi di natura», un puro «miracolo» (Possenti 101). Dopo aver introdotto l’aconcettuale nozione di “altruismo” per spiegare il fatto morale, gli evoluzionisti sono costretti a svuotarla e a ritenere «che l’altruismo abbia sempre, contro le apparenze, motivazioni alquanto basse e sia sempre rivolto a proprio vantaggio» (Vogel citato da D’Agostino, 122). Al contrario, «la moralità… implica il fatto che la soggettività non sia il punto di incrocio di relazioni funzionalistiche» (Delogu 294); che l’«essenziale dimensione della relazionalità che ci costituisce» (291) s’innervi invece proprio sulla moralità, sul “fatto della libertà”, inattingibile con l’apparato concettuale riduzionistico.
         Questa impossibilità è stata riconosciuta anche dal pensiero analitico, nella forma della «grande divisione evocata dalla cosiddetta legge di Hume tra essere e dover essere», e cioè che «è un “ragionamento illegittimo” quello che fa derivare.. il “si deve”… dall’“è”» (Da Re 163 e n.). Se però, capovolgendo il procedimento naturalistico, la «libertà [viene] intesa come centro genetico della persona» (Ivaldo 217) e non come risultato di altro, allora «si palesa… l’inversione trascendentale: dalla libertà alla natura» (232). Esemplificando, si può capovolgere Aristotele e pensare l’uomo non come animal rationale, ma piuttosto come ratio animalis che nella sua “radice” di senso è moralità. Per il pensiero trascendentale (nel testo Kant, anche se non univocamente, è l’autore più citato) «il fattore generativo dell’io come libertà è una richiesta incondizionata» (222): «il sum, existo, è possibilizzato da un basale “Sii!”» (224). Che solo la legge morale sia ratio cognoscendi della libertà, significa che «la posizione originaria della libertà è quella del trovare sé in quanto appellata da una richiesta assoluta che la rivela a se stessa come libertà» (222-3). L’esistenza sorge come «rapporto con l’essere» orientato nella direzione impressa da una scelta morale o, se si preferisce, valoriale, o semplicemente di senso. La scelta è comunque inevitabile (ma non irrevocabile), perché la scelta è in realtà l’esistenza stessa: è l’«essere una immagine determinata del Tu devi che fonda quel rapporto che la persona è» (228). Il movimento va quindi in senso inverso a quello della “fallacia naturalistica”, ma non a quello della grande tradizione filosofica. «Dal tu devi all’“io sono”, dall’imperativo all’indicativo: questo è il procedimento della deduzione» (222). Qui però la deduzione non è soltanto il metodo scientifico, ma è lo stesso costituirsi ontologico della soggettività propriamente umana nell’espansione esistenziale del proprio nucleo morale, è deduzione di sé.
         Per concludere, si potrebbe muovere al testo l’appunto che sono scarsi i riferimenti all’unico “mezzo” per curare le segnalate tendenze disgregatrici, cioè all’educazione. Forse però, piuttosto che lamentare la mancanza di una trattazione che necessariamente sarebbe stata angusta, il tema può essere suggerito per futuri, interessanti «incroci», al modo per esempio delle Leggi di Platone.



PUBBLICATO IL : 12-06-2008

 

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