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Caterina Botti, Madri cattive. Una riflessione su bioetica e gravidanza , Il Saggiatore, 2007
di Antonella Ficorilli

Il volume di Botti si presenta come una voce distinta nel dibattito bioetico italiano. Da una parte per l’attenzione che l’autrice pone all’interazione tra filosofia, femminismo e bioetica ed il modo in cui essa diventa un’interazione fertile così da offrire una riflessione ricca ed accurata della gravidanza e del parto ed avanzare una particolare visione del soggetto morale e di nozioni centrali per la morale, quali l’autonomia e la responsabilità. Dall’altra, per il particolare tema che introduce e che sviluppa nella direzione di riconoscere alla donna la capacità di agire in qualità di soggetto morale. La tesi centrale del volume, infatti, è che di gravidanza e parto si parla in genere ed anche nella letteratura bioetica poco o male e che per poter sviluppare un’analisi adeguata su tali esperienze occorre riconoscerle come ambiti della sfera umana in cui si danno dilemmi morali ed in cui sono le donne le agenti principali delle scelte responsabili. Apprezzabile è la capacità dell’autrice di far emergere questa tesi nel corso del volume lavorando su più piani. Innanzitutto, mettendo a tema esperienze che coinvolgono in modo specifico le donne, Botti si sofferma su tutta una serie di precisazioni che riguardano il modo in cui le donne vengono viste in generale e in relazione alla procreazione. Analizzando questioni che sollevano interrogativi morali, si sofferma ad esaminare il modo in cui si è riflettuto sulle esperienze della gravidanza e del parto sul piano del dibattito bioetico e della morale in generale, rifiutando la validità dei paradigmi più diffusi in bioetica per render conto di queste esperienze e proponendo un`argomentazione che pone al centro il radicamento corporeo, le relazioni ed una concezione di autonomia in relazione a cui é connessa una particolare idea di responsabilità. La fertilità di questa argomentazione viene poi mostrata nella parte applicativa del libro in cui Botti esamina casi concreti. La presenza di questi esempi pratici dà ulteriore ricchezza al volume in quanto offre al lettore la possibilità sia di comprendere meglio le riflessioni esposte nella prima parte teorica sia di confrontarsi con la complessità delle scelte che oggi si pongono nella gravidanza e nel parto e di venire a conoscenza di informazioni di cui quasi mai si parla. Il libro, pertanto, risulta di estrema attualità, offrendo strumenti etici e filosofici e stimoli culturali per riflettere su quando una madre vada considerata buona e quando cattiva. Una riflessione coraggiosa che, aprendo una finestra a lungo tenuta chiusa, si pone come obiettivo innanzitutto quello di far emergere ciò che è sommerso e dato per scontato e di indicare un tipo di argomentazione morale innovativa, che sembra più adeguata per riflettere sulle questioni morali che si pongono nella gravidanza e nel parto. Nella sua argomentazione, accurata e dettagliata, Botti riesce a portare a termine l’obiettivo che si pone ed a mostrare che esistono “«madri buone» e «madri cattive», ma che il metro con cui questo giudizio viene dato vada cambiato completamente, tenendo conto appunto delle esperienze delle donne” (p. 12). In quanto segue ci soffermeremo su alcuni aspetti di particolare interesse.

Al centro del discorso che articola l’autrice vi é il rifiuto dell’identificazione tra essere donna ed essere madre. Storicamente, Botti spiega, questo rifiuto è stato portato avanti dal pensiero femminista, che ha denunciato come il sistema patriarcale ha impiegato la visione istintuale della maternità per relegare le donne nella sfera privata, nella naturalità e nella passività, portando a considerare la maternità non come un campo di azione o di scelta, ma come un processo biologico e naturale, di cui le donne sono degli strumenti e non delle protagoniste. Nel momento in cui si riflette sui temi della gravidanza e del parto, quindi, indica l’autrice, occorre innanzitutto liberarsi delle incrostazioni patriarcali e dare un significato diverso alla maternità ed alla soggettivitá femminile. Interessante é il modo in cui Botti definisce la soggettività femminile, il quale permette di liberare le donne non solo dal legame oppressivo con la maternitá, ma anche da qualsiasi contenuto specifico che possa andare a limitare la molteplicitá di modi in cui si puó esprimere ciascuna donna. L’autrice, infatti, sostiene che una definizione della soggettività femminile deve dare “la possibilità di dirsi donne a quante non sono interessate alla maternità, né reale né immaginata, a quante godono per esempio del fatto che oggi si può fare sesso senza fare figli; a quante hanno un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale, o preferiscono scrivere un libro piuttosto che fare un figlio” (pp. 39-40). Una definizione, quindi, che permette alle donne di esprimersi come una pluralità di soggetti simili tra di loro e distinti dagli uomini, in cui l`unico vincolo che bisogna riconoscere é quello dell`esperienza corporea, in quanto tutti noi siamo situati in un corpo, il quale ci permette di fare alcune esperienze e non altre. Evidente, pertanto, é il distacco che l`argomentazione di Botti ha con le concezioni tradizionali ed il punto di vista innovativo che offre anche rispetto a molte posizioni femministe.

La peculiarità del libro di Botti, e la necessitá di un libro simile, emerge anche dall’analisi che l’autrice offre dell’assenza quasi totale nella riflessione bioetica delle esperienze del parto e della gravidanza. L’unica eccezione, precisa Botti, riguarda le questioni connesse ai danni per i nascituri derivanti dai comportamenti e dagli stili di vita materni, le quali, tuttavia, vengono prese in considerazione impiegando paradigmi inadeguati. L’autrice riporta sia quanto sostenuto a tal proposito nell’ambito della bioetica cattolica sia in quello della bioetica laica e si discosta da entrambi. Nella concezione del magistero della chiesa cattolica, espressa in modo particolare nel contesto italiano da E. Sgreccia e D. Tettamanzi,  la procreazione è inserita nel quadro della legge naturale divina e, dunque, la gravidanza e il parto risultano essere stati di natura definitivi e determinati e la donna caratterizzata essenzialmente dal compito naturale di far nascere bambini/e. In un quadro simile, fa notare l’autrice, neppure si ritiene che possano sussistere dei dilemmi morali in relazione alla gravidanza e al parto, poiché la madre è considerata essere per natura accogliente e benevolente nei confronti dei nascituri e, quindi, il suo comportamento sarà sempre in favore della loro vita e benessere. Questa, pertanto, ė una concezione chiaramente lontana da quella dell’autrice, che ignora tutti quegli aspetti che Botti, invece, ritiene moralmente rilevanti. Sembra, allora, più interessante dire qualcosa sul modo in cui Botti si discosta da prospettive bioetiche laiche molto più vicine alla sua, come quella di E. Lecaldano. La sua tesi é che queste prospettive, pur offrendo considerazioni interessanti sulla procreazione assistita, non portano avanti una trattazione sistematica delle problematiche etiche connesse alla gravidanza ed al parto. Ad esempio, l’autrice condivide l’appello alla responsabilità  che Lecaldano offre (sviluppato anche da altri autori come P. Singer, J. Harris e S. Pollo) per analizzare le questioni riproduttive ed apprezza il fatto che egli metta in primo piano la responsabilità delle donne. Tuttavia, precisa, questo non è sufficiente, in quanto l’autore, non avendo esteso tale responsabilità a momenti della procreazione diversi dal concepimento e dalle fasi iniziali del suo sviluppo, non articola in modo adeguato un tale richiamo. Questa inadeguatezza emerge chiaramente nell’analisi del ricorso alle tecniche di fecondazione assistita per evitare la nascita di una persona con gravi anomalie genetiche. Lecaldano argomenta in favore di una posizione secondo cui la responsabilità verso la qualità della vita della prole sembra prevalere sull’autonomia dei genitori, dando forma ad un obbligo morale per i genitori di ricorrere a tali tecniche. Qui, evidenzia Botti, l’autore mette a tema un obbligo morale ma  trascura l’aspetto pratico e materiale della sua applicazione, la quale, invece, pone rilevanti problematiche, quali ad esempio la presenza di conflitti tra madri e feti e di costi per la madre dovuti agli interventi chirurgici o terapeutici a cui dovrà sottoporsi. Questi aspetti, sostiene Botti, che non compaiono nell’argomentazione di Lecaldano, devono invece essere inseriti nella valutazione morale della responsabilità, la quale deve essere affidata alla capacità di ciascuna singola donna di valutare e di bilanciare le considerazioni in gioco nel momento in cui si trova a vivere l’esperienza della gravidanza. L’argomentazione di Botti, quindi, riesce a cogliere maggiormente la complessitá del contesto reale in cui un soggetto morale agisce ed a concedere reale autonomia alla donna. Dinanzi alla medicalizzazione odierna che sembra obbligatoria e non lasciare alcuna scelta, infatti, una tale argomentazione offre alla donna la possibilitá di interrogarsi sulla sua condizione di soggetto attivo, anche nello stato di gravidanza, e di decidere autonomamente partendo dalla situazione in cui si trova, sentendo di essere responsabile anche di un`altra vita e non avendo bisogno di una lista di doveri per sapere come comportarsi. Paradossalmente, tuttavia, é proprio questo tipo di madre, responsabile ed autonoma, che spesso nel dibattito comune ed anche filosofico viene considerata una cattiva madre. 
 
Altro aspetto fondamentale del discorso che porta avanti Botti è il modo in cui viene inteso il soggetto morale. L’autrice suggerisce di sostituire al soggetto disincarnato ed immutabile della tradizione filosofica occidentale un soggetto incarnato, sessuato e relazionale. Nella sua visione centrali sono la dimensione corporea e quella temporale, che permettono di considerare il soggetto morale come un agente che nasce, cresce, invecchia e muore, ed acquista una propria soggettività attraverso questo percorso in cui é costantemente in relazione con gli altri. Il soggetto che propone Botti, allora, è inteso come una “intersezione di una serie di relazioni, nel tempo” (p. 90) ed è il particolare intreccio di relazioni e la particolare dimensione corporea che dà unicità a ciascun singolo soggetto morale concreto. Questa diversa visione porta l’autrice a ridefinire alcune importanti nozioni morali, in particolare quelle di autonomia e responsabilità. Se si assume la concezione di un soggetto morale relazionale, fa notare, l’autonomia deve essere intesa come un qualcosa che non si può dare per scontato, né che è incondizionato, ma anzi che dipende da una serie di relazioni affettive o personali ed é sempre immerso in un preciso contesto relazionale. Unendo queste considerazioni con una concezione della morale che dà priorità ai sentimenti, Botti propone la nozione di “autonomia in relazione” (p. 104), vale a dire un’autonomia di cui si dispone a partire da vincoli emotivi e sentimentali in cui ci si trova e di cui ci si sente responsabili. L’autrice, inoltre, articola tale responsabilità come una responsabilità che sorge proprio dalla specifica esperienza che si sta vivendo e che procede da un “coinvolgimento sentimentale e solo dopo razionale” (p. 106). Da questa prospettiva nelle esperienze del parto e della gravidanza, quindi, “la donna è sì libera di decidere, ma non lo fa come una persona qualsiasi, lo fa come colei che è in quella specifica relazione e se ne sente responsabile. Una responsabilità che sorge proprio da quella specifica esperienza” (p. 103) ed a cui la donna darà risposta in base ai suoi affetti e passioni e non solo alla sua ragione.

L’esperienza del parto, che Botti riporta in modo accurato, é un caso che mostra chiaramente la mancanza di un riconoscimento alle donne della capacità di gestire autonomamente le responsabilità connesse alla scelta di mettere al mondo e la fertilitá della concezione del soggetto morale relazionale che l’autrice propone. Durante il parto, infatti, tutte le pratiche che vengono messe in atto sono in favore del nascituro e non si ritiene necessario considerare il parere della donna sulla adeguatezza o meno della loro attuazione. Eppure, fa notare l’autrice, nel momento del parto raramente le scelte che vengono fatte mettono a repentaglio la vita di chi nasce, mentre possono avere un certo grado di invasività per la donna. Si tratta, ad esempio, di attaccare la donna ad un apparecchio per monitorare le contrazioni, determinando in tal modo una condizione di immobilità, o di fare un’anestesia epidurale in caso di un travaglio molto doloroso. Di particolare rilievo, inoltre, è il fatto che il ricorso a queste pratiche avviene in modo sistematico, spesso senza avere un’evidenza scientifica che lo giustifica e senza avere una partecipazione consapevole da parte della donna, poiché a lei non viene detto nulla di quello che gli verrà fatto né tanto meno chiesto il consenso. Un tale annullamento é presente anche nella riflessione morale, in cui, riporta Botti, il criterio prevalente è quello della beneficenza nei confronti di chi deve nascere, il quale non viene liberamente scelto dalle donne, ma loro imposto. In un momento in cui, pertanto, nell’ambito dell’etica medica si sta ponendo cosí tanta enfasi sull`autonomia e i diritti del paziente, risulta inaccettabile che la donna continui a partorire senza poter scegliere nulla. È evidente, quindi, quanto adeguata ed attuale risulta la concezione che propone Botti di una donna incinta che è in grado di decidere e partecipare e che, anzi, è l’agente più competente per farlo. Da questa prospettiva, l’utilità del ricorso alle pratiche che si danno durante il parto, anziché data per scontata, deve essere valutata caso per caso e nella valutazione deve essere la donna ad avere la priorità di parola. Per quanto riguarda il comportamento beneficente della donna, questo, qualora ci sia, non sarà dovuto all’imposizione esterna di un criterio morale, ma al fatto che lei sente determinate affezioni positive e che, quindi, qualora senta affezioni negative, sarà libera di assumere un comportamento diverso.

L’importanza delle considerazioni che Botti offre emerge anche nell’analisi della gravidanza. In questo caso, l’autrice precisa, i dilemmi morali che si pongono fanno riferimento da una parte ad una serie di incombenze dovute alla medicalizzazione della gravidanza; dall’altra, ad una serie di interventi imposti alle donne, come il taglio cesareo coatto o il ricorso a sanzioni legali per impedire che la donna abbia dei comportamenti che si considera possano mettere gravemente a rischio la salute del feto. A tal proposito, sembra interessante evidenziare un problema che solleva la medicalizzazione della gravidanza e che l`argomentazione di Botti evidenzia, mentre il dibattito bioetico ed in generale morale trascura. Il tema é quello del peso che le prescrizioni mediche hanno sulle donne che portano avanti una gravidanza, il quale a volte può essere vissuto come eccessivo o può entrare in tensione con altre loro esigenze. L`autrice affronta questa questione mettendo al centro l’idea di responsabilità delle donne e la loro capacità di darsi un metro soggettivo di giudizio. È la donna, sostiene, che, vivendo in prima persona i conflitti che si pongono, é l’agente morale più competente per valutare qual è il bilanciamento più adeguato da scegliere tra questi conflitti. Questo perché è “la stessa situazione della donna incinta a far emergere in lei la consapevolezza della scelta e della propria responsabilità morale; il che non vuol certo dire – precisa l’autrice - che le donne incinte sono tutte buone, che tutte sceglieranno dandosi un metro morale o che quello che adottano non sia criticabile, ma che difficilmente non ne sentiranno la responsabilità” (p. 162) in quanto immerse in una relazione intima e speciale con il feto. Questa argomentazione, inoltre, sembra adeguata anche per affrontare il tema del crescente aumento delle responsabilità che il soggetto morale si trova ad avere in seguito alle possibilità aperte dagli avanzamenti tecnologici. Un aumento che, se si percorre la strada di una valutazione oggettiva dei costi, rischi e benefici in gioco, può sembrare avere come risultato una richiesta eccessiva di responsabilità. Nell’argomentazione che offre Botti, invece, essendo la valutazione spostata da un piano oggettivo ad un piano soggettivo, è il singolo individuo a dover fare un bilanciamento ed alla fine scegliere il corso d’azione che trova più rilevante per lui o per lei. In tal modo, il tipo di responsabilità, che viene richiesta al soggetto morale, è una responsabilità che il soggetto sente ed emerge dalla specifica esperienza che il soggetto stesso si trova a vivere e che, quindi, difficilmente verrà intesa come una richiesta eccessiva.
 
Quanto Botti propone, ovviamente, è valido in un contesto in cui le donne sono intese come soggetti responsabili, capaci di distinguere tra comportamenti sensati e comportamenti insensati. Concludendo, allora, ci soffermeremo su alcuni esempi che evidenziano un aspetto fondamentale che l’autrice sostiene fin dall`inizio del volume: il bisogno di decostruire la costruzione patriarcale della donna. L’analisi che l’autrice offre dei casi di cesarei coatti o involontari mostra proprio un tale bisogno. In essa Botti fa leva sul confronto tra parti cesarei eseguiti anche contro la volontà delle donne e situazioni confrontabili, ma che non riguardano le donne incinte, come ad esempio situazioni in cui genitori o parenti possono cedere organi pari, midollo o sangue a favore di figli/e o parenti, ma si rifiutano di farlo anche se come conseguenza si ha la morte di questi ultimi. In queste due situazioni, fa vedere Botti, si ha una disparità di trattamento: la donna è obbligata a sottoporsi al cesareo, i genitori o i parenti non sono obbligati a cedere organi pari. Eppure non vi sono diversità rilevanti tra i due casi. Anzi, nel caso dei cesarei coatti spesso le procedure legali sono molto sommarie rispetto ad altri casi di valutazione legale per trattamenti sanitari obbligatori, e le conoscenze scientifiche portate a favore del ricorso al cesareo spesso sono incerte. Ciò che permette che simili asimmetricità siano accettate, allora, sostiene Botti, è solo la concezione che ancora permane di una donna debole e non in grado di decidere. Questo pregiudizio é evidente, precisa, se si mette a tema l’aspetto della coerenza: se ciò che motiva il cesareo coatto è l’interesse del nascituro, esso deve essere fatto valere anche in quei casi in cui è l’interesse dei già nati/e ad essere in gioco. Una pretesa che, invece, non viene avanzata. Un tale pregiudizio nei confronti delle donne, inoltre, permane anche nel modo in cui vengono affrontati i casi delle gravidanze post-mortem, vale a dire quelle situazioni in cui donne incinte sono dichiarate in stato di morte cerebrale e continuano ad essere mantenute attaccate a delle macchine per consentire alla gravidanza di progredire fino al punto in cui il feto può essere fatto nascere. A tal proposito Botti sostiene l`importanza di mettere a tema la questione del diritto della donna a decidere sul proprio corpo, il quale permette alle donne di poter avere desideri validi sul destino del loro cadavere o sul loro trattamento alla fine della vita e, quindi, di poter desiderare in base a valide ragioni di non voler continuare la gravidanza in una situazione simile. Anche in questi casi cosí estremi, l’argomentazione di Botti risulta fertile non solo perché riconosce le donne come soggetti morali, ma anche perché concede loro una reale autonomia di scelta in un momento storico in cui, invece, paradossalmente le possibilità offerte dalle nuove tecnologie sembra che stiano portando nella direzione di togliere, anziché dare, autonomia alle donne.

La lettura del libro di Botti è un’occasione per ampliare ed approfondire le proprie conoscenze filosofiche e bioetiche, ma anche per riflettere accuratamente su quanto oggi sia diverso il modo in cui la gravidanza ed il parto vengono portati avanti e sulle nuove questioni morali che in essi si pongono.



PUBBLICATO IL : 18-07-2008

 

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