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Marco Ivaldo, Storia della filosofia morale , Editori riuniti, 2006
di Claudio D’Errico

Il manuale in esame, pur nella agevolezza della sua veste, delinea una esauriente storia del pensiero morale attraverso tutto l’arco della tradizione occidentale. Non manca nemmeno un colpo d’occhio sulle principali idee morali elaborate dalle culture extraeuropee, specie nel «periodo assiale» (Jaspers). È allora infatti che il pensiero dell’uomo, ancora inviluppato nella indifferenziata matrice religioso-politica, rivolgendosi progressivamente a se stesso e alle forme del proprio esistere, si apre in Occidente a quella prospettiva “laica” che chiamiamo filosofia. Questo tipo di riferimento al quadro storico-culturale è costante nel testo, e si approfondisce nelle fasi di transizione epocale. Il fine dell’opera, come leggiamo nella premessa, consiste infatti nell’offrire «una, pur sintetica, presentazione storica della filosofia morale». Occorreva quindi in primo luogo evitare di «privilegiare univocamente taluni autori, periodi, correnti» (7), dando un panorama quanto più possibile completo dell’argomento. Così, adeguato spazio è dato al pensiero morale del Novecento, per il quale la tradizione ancora non ha operato la selezione che stabilisce i classici, e al quale occorreva quindi concedere una più ampia polifonia. L’assetto grafico del volume asseconda efficacemente l’esigenza di brevità, con analogie e confronti segnalati in scorcio mediante telegrafiche indicazioni parentetiche. Il tutto senza compromettere, anzi agevolando, il considerevole sforzo di chiarezza da parte dell’autore. Si direbbe quasi che l’incontro tra l’interesse dell’editore alla maggior brevità possibile e quello dell’autore a un’adeguata ampiezza argomentativa finisca per premiare entrambi. Il testo per questo aspetto potrebbe infatti essere visto come «una (certo molto ampia) voce di enciclopedia», che, tracciando le linee fondamentali del tema, offre una base di lavoro maneggevole e di facile consultazione per chi è già addentro alla cosa; dando invece al profano un discorso fluidamente argomentativo che lo informa con rigore e completezza, sviluppando l’«oggetto della trattazione nel suo plurale e differenziato svolgimento, cioè la filosofia morale» (7). A tal fine si trattava allora «di raccogliere gli “elementi”, di illustrarne in modo essenziale i rapporti, le permanenze, le variazioni, di fornire insomma le informazioni indispensabili per mettere chi legge in condizione di capire e di muovere a sua volta verso personali indagini» (7). L’autore segnala infatti due pericoli in cui può incorrere il semplice «accumulare una serie di dati»: il primo è di «lasciare lacune materiali»; il secondo è di non fornire al lettore un «filo conduttore» che lo orienti nella connessione e nella comprensione degli argomenti proposti (7).
      Il primo pericolo viene evitato proprio perché il testo si incentra sull’esame degli «“elementi” (che già i greci intendevano come i costituenti fondamentali)» su cui si innervano le teorie considerate, reperendone quelli che risultano essenziali per intendere il pensiero dell’autore in questione, ma anche in vista degli sviluppi ulteriori dell’intero ambito del pensiero morale. In funzione di ciò la terminologia degli autori viene ricondotta all’uso moderno, esplicitandone l’attualità del contenuto. Al secondo pericolo fa fronte un «interesse sistematico, rivolto alla comprensione della forma di costituzione delle teorie etiche, cioè […] dei loro “elementi” nella loro connessione» (8). È noto però che, specialmente da Nietzsche in poi, alla filosofia, che tenta faticosamente di essere (come deve) sistematica, si è andata affiancando e sovrapponendo una filosofia frammentaria (aforistica, nichilista, debole), che finisce per ripercorrere i luoghi dello scetticismo classico trasfigurati in una luce esistenziale e/o mistica. Senza contare che anche l’approccio che vuole (immodestamente?) essere scientifico, se si intende questo termine nella accezione comunemente corrente, verrebbe ad esaurirsi nella dimensione matematizzante del positivismo logico e dell’empirismo naturalistico. Alla scelta di metodo sembra quindi inseparabilmente connessa una scelta di campo: «So bene […] che anche questo – proprio questo – interesse sistematico è oggetto di controversia: con questa elaborazione vorrei però portare un contributo, se pur parziale, alla illustrazione della sua legittimità e fecondità» (8). Asseverato che senza una tale opzione la riflessione filosofica non potrebbe nemmeno cominciare, resterebbe sempre la possibilità che tra la disposizione tetica del dogmatismo e quella antitetica dello scetticismo, si situi quella sintetica di una filosofia che (come Cartesio, Kant e Hegel) vede nella scepsi un momento essenziale, ma non certo conclusivo, della conoscenza filosofica. A questo punto la «legittimità» di una tale prospettiva potrebbe essere giustificata, pragmaticamente, solo dalla sua «fecondità», cioè dalla sua capacità di enucleare dalle teorie contenuti e strutture veramente essenziali.
       Il primo da delucidare, tra gli “elementi” di cui si diceva, è la nozione di costume, cui rimandano insieme l’etimo di etica e quello di morale. La definizione proposta, rintracciabile già in Varrone, vede il costume come «un complesso di modi del comportamento che sono oggetto di consenso da parte di una comunità di individui in un certo momento storico sulla base di tradizioni» (9). O, più universalmente: «ethos è in definitiva la forma, il modo di essere al mondo in comune da parte degli uomini» (10). Solo questa «forma» ha costitutivamente in sé il carattere di essere incontro di libertà («consenso»), come ha mostrato Fichte, sviluppando le indicazioni di Kant; e «la posizione decisiva di Kant nella storia dell’etica» (113) è confermata dal suo essere «un interlocutore essenziale della ricerca etica della fine del Novecento» (181), ovvero della contemporaneità. Il grande merito di Kant nell’etica sta nell’aver mostrato che la libertà è il soggetto esclusivo di ogni agire morale, cioè di ogni agire vero. Questo significa che, se l’incontro è tale perché è libero, esso è altrettanto originariamente morale; vale a dire che la legge morale è fondativa, dobbiamo dire, a priori del «modo di essere al mondo in comune da parte degli uomini». Essendo infatti la moralità inestricabilmente fusa e identica con la libertà, essa non è una qualità che si possa aggiungere all’uomo. Si deve invece semplicemente affermare che prima della disposizione morale non c’è uomo. Che la libertà (e quindi la moralità) non possa essere altro che “il termine iniziale di una serie”, significa infatti che essa può esistere solo come primum assoluto. Il movimento della prassi umana (e deve essere lo stesso per la teoria) va allora dalla libertà/moralità all’essere, e non al contrario, come vorrebbe il naturalismo. In questo senso, per Fichte, «che la ragione è pratica equivale a dire […] che “il concetto [cioè l’idea etica] sia il fondamento del mondo”, si manifesti cioè come principio di costituzione della realtà effettuale» (121). Qui sta il nocciolo di quella che Pareyson ha felicemente chiamato “ontologia della libertà”.
       Nel suo principio ispiratore la ricostruzione di Ivaldo può allora ben essere vista come una ricerca sulle tracce della libertà attraverso la storia del pensiero. Si può non abbracciare la prospettiva teoretica che vi è sottesa, che peraltro non appare dalla trattazione e non ne sfiora l’oggettività scientifica. Si può infatti propendere per una delle opzioni di cui si diceva. Sembra però impossibile sostenere che essa non valorizzi adeguatamente l’elemento morale e tutto quanto vi si riferisce. E questo è senz’altro una buona condizione della possibilità che quella prospettiva sia «legittima». Che essa sia «feconda», sarà certo in grado di dirlo anche il lettore comune, a cui si indirizza, ma come abbiamo visto non esclusivamente, questo manuale.



PUBBLICATO IL : 23-09-2008

 

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