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S. Chiodo, G. Scaramuzza (a cura di), Ad Antonio Banfi cinquant’anni dopo , Unicopli, 2007
di Daniele De Santis

A oltre mezzo secolo di distanza dalla morte di Antonio Banfi, avvenuta nel 1957, il volume curato da Chiodo e Scaramuzza, ed esplicitamente dedicato al filosofo milanese, intenderebbe richiamare la memoria filosofica, e più in generale culturale, allo sforzo di una «seconda navigazione» (come quella di Vasco da Gama, F. Piselli) da attuarsi a oltre mezzo secolo di distanza dalla morte. Suddividendo la ricognizione del pensiero banfiano in tre momenti – «Testimonianze e lettere» (pp. 11-112); «Confronti» (pp. 113-253); «Problemi» (pp. 255-348) – i curatori hanno operato nella «convinzione […] che ripensare Banfi possa ancora insegnare qualcosa».
È l’uomo, e la sua personalità, a emergere con forza dagli scritti della prima sezione: ad aprire infatti sono, personalissimi, i ricordi, e le lettere, di alcuni dei suoi allievi (D. Formaggio; F. Papi; F. Monterosso). A completare, le presentazioni di alcuni carteggi: primo fra tutti quello, ancora inedito, con Giuseppe Fagin (E. Renzi); poi quello con Giulio Preti (S. Chiodo-P. Valore); quello, di prossima pubblicazione, con Luciano Anceschi (L. Cesari); con Clelia Abate (G. Scaramuzza); e quello con Valentino Bompiani, – l’editore che affidò a Banfi la direzione della celebre collana «Idee Nuove» e con il quale, tuttavia, i rapporti, che già erano venuti logorandosi nel corso degli anni del Secondo Conflitto, si romperanno del tutto, così come con altri allievi, soprattutto per l’adesione ufficiale del maestro milanese al marxismo-leninismo (M. Zanantoni).
La seconda sezione, quella dei «Confronti», ci presenta invece il Banfi interprete tanto della storia della filosofia quanto della propria, internazionale, contemporaneità filosofica. Intento comune a molti degli autori é quello di rigettare il cosiddetto “provincialismo” banfiano, la vulgata che lo avrebbe raffigurato come isolato dai grandi dibattiti filosofici perché arroccato in una solitaria fortezza, quella della ragione in dialogo solamente con sé medesima. Interessante ed esemplare risulta, in merito, l’incontro-confronto tra il razionalismo critico di Banfi e il Critical Realism di G. Santayana (A. Di Miele), ad un volume collettivo (1940) per il quale il primo, unico italiano, fu invitato a contribuire. Per l’occasione, è proprio sul concetto di ragione che il pensatore milanese si appunta: il quale, ai suoi occhi, si configurerebbe ancora, nel filosofo ispano-americano, «come l’emblema di un realismo che non possedendo un principio di unitarietà del reale, cerca altrove un tale completamento e scade in un dogmatismo delle essenze» (pp. 194-196), – con ciò inevitabilmente metafisicizzando, pietrificandola in una determinata sua figura fenomenologica (l’intuizione delle essenze), la «problematicità infinita del conoscere».
Ed è proprio tale «problematicità», vero e proprio nerbo della pura sfera teoretica, a modulare, dal fondo, la quasi totalità delle ricostruzioni le quali risultano (bisogna tuttavia farlo notare) in più occasioni molto, forse troppo, brevi. Esse riguardano l’interesse banfiano per Alfred Whitehead (L. Vanzago), o di alcuni dei suoi corsi tenuti all’Università di Milano: in particolare, quelli su Spinoza (V. Morfino, R. Diodato) e su Nietzsche (C. Gentili). In merito a quest’ultimo, poi, si porta all’attenzione, non risparmiando critiche, l’operazione messa in atto nel 1974 dai curatori dell’Introduzione a Nietzsche. Lezioni 1933-1934 e, in particolare, da Dino Formaggio: operazione duplice – da un lato tutta tesa a rivendicare l’autonomia della lettura banfiana da quella che Heidegger avrebbe inaugurato a Friburgo “solamente” tre anni più tardi, nel semestre invernale 1936-1937; –dall’altro, collocandone l’interpretazione «nel quadro di una lettura francese di Nietzsche molto in voga negli anni Settanta», ad avvicinarla a quella, a-sistematica, di Jacques Derrida (p. 214).

Ma della «divina opera della ragione», per servici di una formula dei Principi di una teoria della ragione che a lungo bisognerebbe meditare, M. Ferrari rintraccia precedenti in quella che fu la tesi di laurea dello “studente” Banfi su Renouvier, Boutroux e Bergson: «il Banfi della prima navigazione filosofica non “parlava” solo tedesco, ma almeno per un breve momento anche francese» (p. 135); ed il francese in questione era quello in cui «neocriticismo e nuove frontiere dell’epistemologia si incrociavano sullo sfondo di una perdurante tradizione spiritualista» (ibid.). Nella quale, ciò che Banfi va a cercare – vi si percepisce l’influenza martinettiana – è «il problema dell’apertura del piano trascendentale alle forma storiche del sapere»: apertura di un a priori che, mai dovendosi concepire staticamente, è diretta espressione dell’attività spirituale che lo sorregge in una continua e infinita sintesi con l’esperienza e dell’esperienza. I Principi, ne conclude Ferrari, «si rivelano – almeno sotto questo profilo – anche come uno sviluppo, per quanto molto complesso e articolato, di un “programma di ricerca” varato nel 1909» (p. 141).
Ma che debba aprirsi alla fluidità dell’esperienza non vuole affatto significare che l’a priori vi si dischiuderebbe come apertura, non-storica, alla storia. Niente affatto: sono le forme stesse della ragione che si storicizzano – «storicismo assoluto, per cui l’Essere si manifesta nella storia e solo in essa» (D. Assael, p. 151) – facendosi carico di quella che «Banfi considera quale unica idea trascendentale», vale a dire «l’assunto idealistico dell’identità di reale e razionale, ma trasfigurato in una istanza storico-dinamica di identificazione». Evidente l’influsso di Hegel (C Munari), rispetto al quale, però, la peculiarità del «problematicismo banfiano» consisterebbe nell’investire «nel processo di autodialettizzazione ogni sintesi logica, compresa la stessa forma dialettica, altrimenti ridotta a una legge astratta» (p. 228).
Ed è proprio tenendo fermo questo storicismo – la filosofia come filia temporis – che si tratteggia tutta una serie di ulteriori confronti: quello polemico con Croce (V. Stella, G. Scirocco Pagni), quello con il maestro tedesco, Simmel (C. Portioli) e uno con il marxismo di Sartre (L. Rossi). Eterna crux commentatorum, quella della storia ha rappresentato, e rappresenta ancora oggi, per molti degli allievi (o allievi degli allievi) che hanno tentato di pensare sulla scia di Banfi, la questione ineludibile (si pensi, emblematico, a Guido Davide Neri): il rapporto tra “Ragione” e “Storia”, tra la pura teoreticità della prima e il piano pragmatico, non universale né universalizzabile, cui il capolavoro del ’26 relegava la seconda; ma, soprattutto, quella che è poi divenuta, a partire dal 1945, non semplicemente una convergenza, ma in molti casi vera e propria identificazione del «regno del Logo» e della «coscienza dell’attualità» del materialismo storico; – identificazione di tal portata da far scrivere a Giovanni Maria Bertin che «l’uno è il presupposto teoretico, l’altro il complemento pragmatico di una identica esigenza etica, che trova nel principio di ragione il momento di verità, nel principio di rivoluzione il momento di attualità» (cit. a p. 131).
L’interpretazione di Bertin, tuttavia, non risolve i problemi; al contrario, li apre nella dialettica delle possibili letture. Ché Banfi, negli anni del suo impegno politico, ha sempre enfatizzato il ruolo giocato dalla storia: è stata questa ultima, e solo lei, a rivelarsi come il luogo di risoluzione di quella antitesi nella quale il suo filosofare si era come ritrovato, negli anni Trenta, imprigionato. La storia, in breve, e ben più radicalmente, forse, di quanto sostenga Bertin, non semplicemente attualizza la verità – nell’eventualità del suo poterla non realizzare – ma è il luogo, l’unico, di ogni suo strutturarsi. Per cui, se Paci ha giustamente potuto sostenere che, nell’ultimo Banfi, «il trascendentale deve attuarsi come praxis» (cit. a p. 133) – testimoniando dell’autonomia della sfera trascendentale, e del suo potersi ancora distinguere da quella pratica – in un passo de L’uomo copernicano troviamo una rappresentazione della «coscienza storica» realizzata con colori che, anni prima, Banfi avrebbe impiegato solamente per raffigurare la pura legge teoretica: «Il materialismo storico […] risponde alla domanda del come […]; ricerca non il fine ultimo, ma la legge ossia la relazione funzionale dei fatto storici […] un dispiegarsi della coscienza storica nella sua universalità» (cit. a p. 130). Nei Principi, infatti, «la legge ossia la relazione funzionale» è solamente una: quella della sintesi teoretica infinita di soggetto-e-oggetto che trascende ogni, parziale e individuale, prospettiva storico-pragmatica.
È qui che si entra nella terza sezione, quella dei «Problemi». Ed è qui che si fa chiaro come l’eventuale lettura che si dà del problematicismo dell’ultimo Banfi (la commessura di Ragione e Storia) dipenda da quella che si offre del suo primo razionalismo critico, quello che ha avuto nei Principi del 1926 il suo vertice speculativo.
In alcuni casi, critica della Ragione nella sua operazione continuamente trascendente il dato immediato e in ciò tanto più totalizzante, perché trasfigurante, l’esperienza – «Banfi […] rimane fermamente convinto che la ragione possa risolvere i problemi del presente, possa comprenderli e modificare il corso della storia per realizzare gli ideali concepiti fin dal suo inizio» (M. Ophälders, p. 304) – alla quale si oppone una rivendicazione, di sapore “canettiano”, di una certa “a-razionale” separazione del reale: «Il mondo è senza testa e la ragione non ha presa sul mondo reale» (ibid.); o, agli antipodi, polemica (di pretiana memoria) nei confronti della vacuità delle forme di una ragione incapace, non già di trasfigurare, ma anche soltanto di entrarvi in contatto, con l’esperienza (F. Minazzi): «“una Ragione [quella banfiana] tesa nella sua pura (ma vuota!) dialetticità, immediatamente posta a se stessa” cui “fa riscontro un movimento altrettanto libero […] dell’esperienza, abbandonata a se stessa e alla sua anarchia”» (ibid.). Ragione che «sconta l’elevatezza della sua pretesa con la vuotezza di contenuto cui si riduce l’eterno movimento» (M. Bianchetti, p. 332).
A questo iato, che rischierebbe di riconfermare la drammaticità teoretica di cui già Platone ci ha fatto fare esperienza nella prima parte del tremendo suo Parmenide, si porrebbe rimedio riconsiderando il Verstand kantiano da Banfi rimosso: «Se si disconosce la funzione critica di mediazione costruttiva dell’intelletto, allora ragione ed esperienza tendono a configurarsi come poli antinomici non mai effettivamente mediabili» (p. 268). «“Nullificazione dell’intelletto”», di questo Banfi si sarebbe macchiato. La «conoscenza intellettiva (scientifica, pragmatica) appare un momento necessario nel processo di trasposizione dell’esperienza sul piano della ragione» – questa, invece, la soluzione intentata da Preti. La quale tuttavia, abbozziamo qui un’annotazione polemica, – pretendendo fare dell’intelletto (sinonimo del «sapere scientifico») ciò che, unico, «media continuamente ragione ed esperienza costruendo quest’ultima secondo le strutture puramente formali della ragione» (ibid.) – non si avvede di concedere spazio logico a due sole conseguenze: o, infatti, l’universalità della ragione è, paradossalmente, ridotta a momento dell’intelletto, essendo solamente «il sapere scientifico (intellettuale)» ciò che struttura l’esperienza nella sua razionalità, di modo che da mediatore l’intelletto si ritroverebbe a costituire la relazione ragione-esperienza in tutta la sua estensione concettuale; o, questo l’altro corno dell’alternativa, si finisce semplicemente coll’identificare la razionalità tout court con ciò che di essa ne fa l’intelletto, quindi con la razionalità scientifica – perdendosi, inevitabilmente, quell’universalità (trans-scientifica) della ragione che sola, a detta di Banfi, può comprendere il momento fenomenologico “scienza” per poi travolgerlo nell’infinito procedere della sintesi dialettica. Una singola figura si innalzerebbe, metonimicamente, rappresentando quel tutto dinamico che dovrebbe contenerla.
O “divina Ragione” – secondo la cui verità tutto «riposa nel seno dell’Eterno»; o “vuota ragione” – stretta a se stessa in un abbraccio, o identità, meramente formale. Di modo che, se di eredità banfiana è ancora lecito discorrere, lo è, ci sembra, proprio in relazione a tale possibile, o impossibile, articolazione di Ragione e In-dividualità (storico-pragmatica): l’inesausto rinnovarsi di una philosophia perennis che avrebbe, nell’eterna e tragica gigantomachia intorno all’esperienza, il suo cuore pulsante.
Il volume tuttavia, prima di chiudersi, ci offre ancora qualche contributo, qualche accenno concernente «l’eredità pedagogica» di Banfi (A. Erbetta) e l’interesse religioso inteso o nei termini, più generali, della «dialettica esistenziale tra cultura e problematica religiosa» (A. Sardi) o, volendo entrare nello specifico, in quelli del più stretto rapporto con il neoplatonismo e con il neoprotestantesimo (I. Giannì). Per finire, un breve resoconto del viaggio che Banfi compì, nel 1952 in veste di senatore del Partito Comunista Italiano, in Cina (M. Cappuccio); resoconto che ci viene fornito con la convinzione che «le osservazioni sul ruolo della “ragione” in Cina permettono di chiarire e completare il quadro già tracciato in Principi di una teoria della ragione» (p. 338): quello della tensione, «tutta occidentale, tra il pensiero e l’azione, tra l’idea e la realtà fattuale, tra la novità creatrice del giudizio individuale e la prassi socialmente affermata della tradizione» (p. 341).



PUBBLICATO IL : 11-11-2008

 

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