Emilio Garroni nacque a Roma il 14 dicembre 1925. Fu un filosofo di estrema acutezza e profondità, che si occupò principalmente di estetica nell’accezione di filosofia critica dedita a rintracciare le condizioni della sensatezza della nostra esperienza nel mondo. Durante il suo esercizio trentennale del ruolo di titolare della cattedra di Estetica dell’Università La Sapienza di Roma, Garroni diede un contributo fondamentale alla svolta degli studi di questa disciplina in Italia dopo Croce. Collaborò assiduamente con la testata giornalistica Paese sera. Nel 1993 gli fu conferito il titolo di Doctor honoris causa alla Universidad de la Plata, in Argentina. Fu anche scrittore, pubblicando tre romanzi e due raccolte di racconti, e pittore: nel 2006 il suo dipinto Autoritratto venne esposto alla “Sala Santa Rita” di Roma. Era un appassionato e competente amante della musica classica. Morì a Roma, il 6 agosto 2005; l’orazione funebre si tenne a Villa Mirafiori, sede della Facoltà di Filosofia de La Sapienza.
La capacità di seguire un percorso intellettuale rigoroso e coerente, incentrato sulla filosofia critica, unita ad una vivace e intramontabile volontà di mettere in discussione i risultati ed i presupposti del proprio pensiero, percorre tutta la produzione di Emilio Garroni, rendendo la sua opera una delle più interessanti e feconde della filosofia contemporanea.
Nel 1951, subito dopo essersi laureato, divenne assistente volontario della cattedra di Filosofia teoretica, di cui era titolare Ugo Spirito, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, incarico non retribuito che lo costrinse a trovare un lavoro al di fuori dell’Università. Per poter continuare il suo impegno con la cattedra, accettò di lavorare in Rai come redattore di rubriche e servizi televisivi nei programmi culturali. L’allora direttore della Rai, Filiberto Guala, aveva infatti avuto la felice intuizione di impiegare nelle redazioni dei programmi culturali della Rai dei giovani professori universitari, con l’intento di svecchiare i programmi delle emittenti nazionali; insieme a Garroni vennero assunti altri giovani professori e molti neolaureati destinati a grandi carriere in diversi ambiti della cultura e dello spettacolo . In questi anni Garroni ha la possibilità di incontrare artisti di rilievo, come Le Corbusier, Mirò, Burri, Gropius, Alvar Aalto, e di scrivere rubriche di grande interesse. Lavorerà nei programmi 10° migliaio, L’approdo, Arti e scienze, Avventure di capolavori. In particolare quest’ultima rubrica avrà dei momenti di grande interesse che Garroni ricorderà con piacere. In questo periodo avrà modo di stare in stretto contatto con la scena artistica italiana, redigendo anche presentazioni di artisti e cataloghi d’arte. Ma l’esperienza televisiva rimane una necessità imposta dalle circostanze, più che una passione. Per scelta dello stesso Garroni il suo impiego alla Rai rimarrà sempre precario; durante quegli anni continuerà a portare avanti i suoi veri interessi, lavorando gratuitamente o quasi all’Università e studiando i temi che più gli stavano a cuore, in attesa di un’occasione.
L’occasione arrivò nel 1964, quando ottenne la libera docenza di Estetica con la presentazione del testo La crisi semantica delle arti; da questo momento in poi Garroni potrà dedicarsi completamente agli studi filosofici abbandonando il lavoro alla Rai. Il testo che gli valse la libera docenza ebbe successo anche al di fuori della cerchia dei lettori di formazione strettamente filosofica ed interessò in particolare gli studiosi d’arte. Mancava infatti un testo che ripercorresse e spiegasse le teorie estetiche e l’arte contemporanea analizzandole in modo approfondito e con un taglio filosofico. In questo libro un lettore attento può già ritrovare alcuni dei temi che poi caratterizzeranno i lavori successivi di Garroni, come per esempio il trasformarsi dell’immagine interna in figura, tema scaturito dalla lettura del testo Kritik der Urteilskraft di Kant che impegnerà Garroni per gran parte della sua carriera di filosofo. Per altro verso, questo testo segna l’inizio dei suoi studi semiotici che, pur essendo di grande profondità critica ed allontanandosi decisamente dai trattati semiotici ‘di moda’ in quegli anni, sfoceranno in un suo distaccamento dalla semiotica. La semiotica voleva essere infatti la risposta all’insoddisfazione che l’estetica idealistica, in particolare crociana, aveva suscitato negli studiosi di arte e nei filosofi. Si sperava di riuscire a ridurre l’espressione artistica ad un codice facilmente analizzabile, simile alla lingua delle grammatiche. Nacquero così molte semiotiche volte all’analisi e alla codificazione di arti specifiche, come l’architettura o la pittura. L’avvicinarsi di Garroni alla semiotica, o semiologia, non avvenne però sotto questo segno. Distanziandosi dalla ricerca semiotica italiana, Garroni voleva trovare non una semiotica contingente e particolare, ma piuttosto una descrizione formale di semiotiche non linguistiche che gli permettesse di costruire un apparato teorico generale e allo stesso tempo applicabile con profitto alla comprensione delle singole opere d’arte. I suoi studi si concentrarono su autori come Saussure, Jakobson, Peirce, Morris, Hjelmslev. Quest’ultimo, in particolare, gli dava gli strumenti formali per costruire una teoria generale che si prestasse anche ad essere applicata alle opere singole, non tanto per tentarne una decodificazione o un’analisi che ne indicasse il valore artistico (operazione impossibile che non fu mai nelle intenzioni di Garroni), quanto per capirne meglio la loro peculiare configurazione. Il suo sospetto verso la semiotica come teoria ‘scientifica’ dell’arte lo allontanò quindi decisamente da gran parte dei semiotici italiani. Queste teorie semiotiche, vere e proprie teorie dei codici, si sono poi evolute in più raffinate teorie dell’interpretazione. Come Garroni aveva già allora intuito, neanche il linguaggio è analizzabile in modo soddisfacente in termini di codice e di sistema, essendo piuttosto sfrangiato e mai concluso, e proprio per questo infinitamente creativo. Ma se neanche il linguaggio, pur essendo estremamente istituzionalizzato, può essere ridotto ad un codice, figurarsi le singole arti.
Questo periodo di “militanza semiotica” , come lui stesso vi si riferì in un’intervista con Doriano Fasoli, doveva concludersi con una profonda critica della ricerca semiologica a lui contemporanea. Dopo la pubblicazione nel 1973 del testo Progetto di semiotica, inizia una profonda rivalutazione delle possibilità e degli scopi della semiotica, riconsiderazione che si concretizzerà nel libro Ricognizione della semiotica (1977), testo che segna, in un certo modo, la conclusione di una fase del pensiero di Garroni. In questo libro il filosofo analizza le pretese e le aspettative teoriche sia della semiotica generale che della semiotica concentrata sui ‘linguaggi’ artistici. Il risultato è una critica ed un ridimensionamento delle potenzialità della semiotica e delle speranze di cui era lecito investirla. Interessante è, in questo libro, l’approfondimento di un argomento successivamente ripreso da Garroni, e cioè l’accostamento tra semiosi e operatività e tra le coppie linguaggio/meta-linguaggio e operatività/meta-operatività: così come una caratteristica fondamentale del parlare è il poter parlare dello stesso parlare, allo stesso modo una caratteristica altrettanto fondamentale dell’operatività è potersi esercitare non solo sugli oggetti, ma sulla stessa operatività: per esempio quando si costruiscono degli strumenti mediante altri strumenti, facoltà tipica ed esclusiva dell’uomo, che neanche i primati posseggono. Questa riflessione indica un interesse di Garroni per la definizione dell’uomo anche da un punto di vista evolutivo che tornerà spesso in molti suoi scritti (come nell’Introduzione Che cosa si prova ad essere un Homo sapiens? scritta per il testo dello psicologo Armando B. Ferrari L’eclissi del corpo. Una ipotesi psicoanalitica, del 1992). Il concetto di meta-operatività diventa importante per spiegare diverse attività umane, non per ultima quella artistica che è, per Garroni, chiaramente un’operazione a dominante metaoperativa.
Tornando alla semiotica, il voler ridurre il linguaggio ad un codice senza tener conto della creatività e della mutevolezza del linguaggio storico, come anche il non tematizzare il problema fondamentale del senso e del riferirsi del linguaggio al mondo, porteranno Garroni ad allontanarsi da questa disciplina.
Dopo la pubblicazione di Ricognizione della semiotica il pensiero di Garroni si rivolge ad altri percorsi filosofici. Da questo momento nella sua riflessione diventa fondamentale la lettura e lo studio del pensiero di Kant, un autore che da tempo faceva parte degli interessi di Garroni, ma che ora diventa il centro della sua ricerca e di gran parte della sua produzione filosofica. L’attenzione di Garroni sarà rivolta, in particolare, alla terza critica kantiana, la Kritik der Urteilskraft; questo impegno costante e appassionato culminerà nella pubblicazione nel 1999, insieme a Hansmichael Hohenegger, della traduzione del testo kantiano, preceduta da una lunga introduzione in cui viene esposta una lettura rivoluzionaria della terza critica. In questa introduzione si condensano più di trent’anni di riflessione sul determinante testo kantiano, proponendo un’interpretazione inedita del problema interno della filosofia critica, cioè il suo riflettere sulle condizioni universali della possibilità di una conoscenza dall’interno stesso di una conoscenza finita e determinata storicamente. Lo stesso Garroni sottolinea il debito filosofico che lo lega alla lettura kantiana di Luigi Scaravelli. Quello che Scaravelli intuisce, pienamente supportato dal testo, è che la terza critica non parla del bello e dell’arte, ma ha il suo centro e fondamento teorico nell’epistemologia. Non una filosofia speciale che parla d’arte, ma una filosofia critica fondante che pone le basi e analizza la possibilità della conoscenza umana in generale, analizzandone prima di tutto i presupposti e i fondamenti non teoretici. Insomma, la Kritik der Urteilskraft è il luogo dove viene fondata la stessa filosofia critica.
Ma la riflessione su Kant ha dato anche altri frutti. Nel 1976 Garroni pubblica il libro Estetica ed Epistemologia. Riflessioni sulla “Critica del Giudizio”, testo che inaugura la lunga serie di scritti sui testi kantiani. Garroni qui si concentra sullo stretto legame tra la prima e la terza critica kantiana, sottolineando la continuità dei due testi e riflettendo sulle apparenti contraddizioni. Come accennato, la Critica della facoltà di giudizio viene interpretata da Garroni, sulla scorta di Scaravelli, come uno snodo fondamentale del pensiero kantiano sull’estetica e sulla filosofia critica. La Kritik der Urteilskraft è la messa in luce del fondamento di tutta la conoscenza umana, un fondamento indeterminato e indeterminabile che condiziona e caratterizza ogni esperienza. L’opera d’arte, e l’impossibilità di giudicarla secondo tratti pertinenti che la inseriscano in una classe determinata, è esempio del fondamento indeterminato dell’esperienza stessa dell’uomo. Lo stesso principio che determina il giudizio delle opere d’arte è all’origine di ogni legge empirica e di ogni conoscenza. Per questo la terza critica è lontanissima dall’essere una filosofia dell’arte o una dottrina del bello, ed è invece uno snodo fondamentale della filosofia critica, in cui ci si avvicina al fondamento pre-teorico di tutta l’esperienza. Da questa riflessione sulla terza critica kantiana si sviluppa uno dei temi principali della riflessione garroniana, quella sull’estetica come filosofia non-speciale, cioè non vincolata al discorso sull’arte o sulla sensibilità, ma riguardante la riflessione sui fondamenti stessi del nostro stare nel mondo.
Nel 1986 Garroni pubblica Senso e paradosso: l’estetica, filosofia non speciale. In questo testo Garroni, attraverso la riflessione su Heidegger, su Wittgenstein, sulla psicoanalisi e sulle scienze cognitive, si interroga sui compiti e sulle finalità dell’estetica e sottolinea come la filosofia sia fondata su un paradosso dal quale è impossibile uscire. Questo paradosso si riferisce al fatto che la filosofia, non essendo un discorso su un oggetto particolare, ma piuttosto sugli oggetti in generale, non può evitare di parlare di una totalità in cui essa stessa è inclusa; quindi la filosofia cerca qualcosa che, inevitabilmente, le sfugge sempre di mano. Per questo la ricerca filosofica non porta mai ad una vera e propria conoscenza, ma avvicina semmai ad una comprensione della possibilità di una qualsiasi conoscenza. Il paradosso della filosofia ha a che fare con la necessità di un senso che fondi la totalità dell’esperienza ma che non è mai esplicitabile. Ma questa situazione non è propria solo della filosofia, anche il linguaggio è caratterizzato da una condizione simile: tutti i parlanti sono immersi in questo paradosso, per cui parlando di qualcosa di specifico fanno sempre riferimento anche ad una totalità incompresa ed incomprensibile che rende possibile proprio quel discorso sul particolare. Ma se questo si può dire del linguaggio, a maggior ragione si può dire dell’esperienza poetica e artistica in generale. In essa emerge e diviene intuibile proprio il paradosso che fonda la nostra esperienza, e per questo diventa un riferimento esemplare per l’estetica. Ma, occupandosi l’estetica dell’esperienza in generale, l’arte è solo un referente privilegiato, non l’unico possibile.
Lo statuto particolare dell’arte, oggetto privilegiato ma non esclusivo dell’estetica, viene studiato da Garroni nella raccolta di saggi L’arte e l’altro dall’arte, del 2003. In questi saggi il punto focale è nel rivolgere uno sguardo diverso dal solito all’arte e all’estetica per comprendere, da un lato, il doppio statuto dell’opera d’arte come, appunto, opera d’arte e come oggetto, dall’altro l’estetica come filosofia critica che non ha nell’arte il suo oggetto epistemico ma solo un suo riferimento esemplare. Il titolo Arte e altro dall’arte vuole proprio richiamare questa duplicità intrinseca dell’oggetto artistico inteso in senso moderno.
Infine, nel testo Estetica. Uno sguardo attraverso, del 1992, Garroni affronta lo statuto particolare dell’estetica, ripercorrendo criticamente la questione del senso sia in autori precedenti a Kant, quali Batteaux e Burke, sia in autori e filoni di pensiero successivi allo stesso, come Hegel e il neoidealismo, per arrivare infine alla contemporaneità. L’espressione “uno sguardo attraverso” è presa in prestito da Wittgenstein e vuole indicare la condizione particolare della conoscenza umana che avviene sempre come all’interno di un filtro. Questo filtro condiziona quindi la percezione del mondo, ma allo stesso tempo non preclude l’accesso alle cose. Con ciò si evitano le due derive insostenibili dell’oggettivismo, che vuole la percezione come un doppio esatto della realtà, e del soggettivismo solipsistico, che rinchiude il soggetto in se stesso e gli preclude ogni tipo di conoscenza degli oggetti. Attraverso questo filtro si raggiunge una conoscenza condizionata del mondo. L’estetica intesa come filosofia critica è quindi uno sguardo-attraverso nel guardare, una ricerca della possibilità stessa di un’esperienza sensata.
Un altro tema caro a Garroni, collegato sia alle sue analisi del linguaggio che alla creazione del senso nell’opera d’arte, è quello letterario. Un autore che approfondì particolarmente fu Thomas Bernhard, cui è dedicato anche un capitolo dal titolo Osservazioni finali nel libro Estetica. Uno sguardo attraverso; al suo romanzo Korrektur Garroni ha anche dedicato un saggio in cui esplora cosa significa analizzare un testo letterario . Per Garroni, Bernhard è lo scrittore contemporaneo che più tematizza il legame indissolubile tra senso e non-senso, mettendo in luce il continuo e difficile dover essere del senso.
Garroni sviluppa una complessa teoria dell’interpretazione dei testi narrativi, in cui contrappone la comprensione alla narrazione. La comprensione annulla, con il suo riformulare gli elementi della narrazione in elementi coesistenti e ordinati spazialmente, proprio la narrazione, fondata invece su elementi ordinati temporalmente e successivi. Interpretare un testo narrativo, cioè passare in qualche modo dalla narrazione alla comprensione, è quindi un’operazione complessa e mai risolta del tutto. L’interprete deve infatti rendere conto sia della comprensione che della narrazione, senza sacrificare nessuno dei due aspetti; deve insieme esporre la comprensione globale del testo, senza ridurre tutto il romanzo alla sua ideologia, e, allo stesso tempo, ripercorrerne la narrativa. Posta questa definizione di interpretazione di un testo, Garroni sottolinea che non esiste una regola generale per guidare questa operazione. Non si può formulare una teoria dell’interpretazione univoca che possa funzionare da riferimento per ogni testo. Questo non significa neppure, però, che ogni interpretazione è possibile: presupposto fondamentale per ogni interpretazione è che il testo rimanga in primo piano, come referente principale, e non venga mai trascurato per dare spazio alla soggettività dell’interpretante. La correttezza e l’interesse di una interpretazione possono allora essere giudicati solamente in una discussione tra interpreti che riconoscono le stesse regole e si attengono a simili principi regolativi.
Emilio Garroni scrisse anche un bel libro sull’interpretazione del Pinocchio di Collodi, nel 1975, che è stato ripubblicato recentemente. Il libro porta il titolo di Pinocchio uno e bino ed è un esempio di interpretazione di un testo narrativo non strutturalista, paradigma che in quegli anni era il più seguito dalla critica letteraria. Garroni parte dall’assunto che il Pinocchio di Collodi sia un romanzo “doppio”, che comprende al suo interno due diversi romanzi; uno di questi ingloba l’altro, rendendo il testo un esempio inedito e complesso di narrativa per l’infanzia. Su questa linea, Garroni procede con una lettura psicoanalitica, sociologica e culturale che mette in luce la profondità dell’opera.
E sulla riflessione a proposito della creazione di un testo letterario Garroni aveva un punto di vista privilegiato, essendo egli stesso autore di romanzi e di racconti. Fin da giovane e per tutta la sua vita scrisse testi letterari, parte dei quali furono pubblicati. Questi scritti ricevettero un’attenzione speciale da parte dei critici più attenti, ma uno scarso successo di pubblico. La loro lettura è estremamente interessante, anche, ma non solo, alla luce dei suoi scritti filosofici. Come, per esempio, il romanzo Dissonanzen Quartett. Una storia (1990), un romanzo che, a dispetto del sottotitolo, non racconta una storia, nel senso classico, ma piuttosto dispiega una storia, presa per presupposta, nelle sue possibilità. Un altro libro, una raccolta di racconti che sembrano quasi dei piccoli saggi, dal titolo Sulla morte e sull’arte, prende il nome da un’interpretazione dell’arte moderna che, non essendo più esemplarmente e limpidamente la sede del rivelarsi del senso, e cioè della pienezza della vita, diventa inevitabilmente il luogo del non-senso, della morte, nel tentativo di far trasparire dal non senso un senso lontano e irraggiungibile, rappresentabile solo per via negativa. In questo libro si trova una bella descrizione di cosa sia o possa essere uno scrittore, definizione che si può estendere ad ogni artista: «lo scrittore, pur essendo lontanissimo dalla vita, è la vita stessa e la mette in mostra come nessun altro può e sa fare».
L’ultimo libro scritto da Garroni, Immagine Linguaggio Figura (2005), affronta la questione della sensatezza dell’esperienza in genere partendo proprio dall’inizio, cioè dalla nascita del concetto percettivo come frutto della percezione interpretante propria dell’uomo, e solo di quest’ultimo. Garroni si adopera a districare il complesso concetto di immagine interna, traendo conclusioni illuminanti sul nostro stare al mondo e sul nostro esistere e sopravvivere come specie, come Homo sapiens. E dall’analisi di immaginazione e percezione non può non emergere lo strettissimo legame che queste intrattengono con il linguaggio. Quest’ultimo, infatti, non si può mai distaccare o prescindere dalla percezione, pur riuscendo a creare concetti lontanissimi da quest’ultima in virtù di una trasformazione raggiunta mediante i procedimenti dell’analogia. Il fatto che l’immagine non sia statica, ma assolutamente dinamica e mutevole, spiega anche l’esemplarità dell’arte per la ricerca estetica. Nell’arte, ma anche in altre esperienze che abbiano una certa complessità, viene mostrato il gioco tra determinatezza e totalità indeterminata, in un continuo movimento che non fa altro che mettere allo scoperto i meccanismi della nostra stessa percezione e della nostra esperienza. Per questo l’arte, con il suo gioco di mostrare nel determinato dell’oggetto l’indeterminato della totalità, che pure non viene raffigurata positivamente ma traspare solo in modo negativo, somiglia, scrive Garroni, alla famosa siepe di Leopardi: essa ci permette di immaginarci l’infinito al di là di essa, senza che questo infinito sia mai, o possa mai essere, di fronte ai nostri occhi nella sua interezza. Pur mantenendo il legame con i temi che costituiscono il perno delle sue riflessioni filosofiche, in quest’opera Garroni si avventura in teorie nuove e prolifiche, mostrando una freschezza intellettuale ed un acume critico eccezionali. |