Finalmente è tradotto in italiano Force de loi, il testo che
raccoglie le due conferenze, Dal diritto alla giustizia e Nome di Benjamin,
tenute da Derrida negli Stati Uniti nel 1989 e nel 1990; a Nome di Benjamin
sono aggiunti dei Prolegomeni e un Post-Scriptum, che Derrida ha scritto
appositamente per la pubblicazione del 1994 in Francia. Scriviamo “finalmente”
in quanto fin da subito Force de loi ha sollevato un forte clamore e
un certo imbarazzo; in particolare, è Nome di Benjamin che ha
attirato l’attenzione di chi con il pensiero di Walter Benjamin
ha una assidua frequentazione. Infatti, Nome di Benjamin rappresenta
un contributo volutamente e consapevolmente polemico nei confronti di
uno scritto in particolare del filosofo berlinese, Zur Kritik der Gewalt
del 1921, che Derrida analizza e commenta con grande acribia, per dimostrare
la fondatezza della questione di fondo con cui inizia e termina il suo
saggio, radicale e sicuramente controcorrente rispetto alla più
ovvia e diffusa interpretazione del pensiero benjaminiano: «Cosa
avrebbe pensato Benjamin, o almeno quale pensiero di Benjamin è
virtualmente formato o articolato in questo saggio (ed è anticipabile?)
riguardo alla “soluzione finale”?» [p. 88]. La questione
è estremamente delicata perché, con “soluzione finale”,
Derrida intende proprio il progetto nazista di sterminio di massa degli
ebrei. Considerando che Benjamin stesso è ebreo ed è morto
suicida per non essere consegnato ai nazisti, che i suoi scritti hanno
sempre condannato senza mezzi termini la “barbarie” del
nazismo e chiunque minimamente accettasse ogni compromissione con le
sue premesse ideologiche, sarebbe fin troppo facile liquidare il testo
di Derrida sussumendolo sotto la categoria letteraria del pamphlet.
Eppure, Nome di Benjamin è troppo complesso e argomentato per
essere una semplice provocazione; a scanso di equivoci, il filosofo
francese non sostiene affatto che Zur Kritik der Gewalt, anche solo
per un fatto cronologico, teorizzi la soluzione finale così come
il nazismo l’ha concepita. L’intenzione di Derrida è
molto più sottile: distinguere il più chiaramente possibile
la sua “decostruzione” dalla concezione benjaminiana della
“distruzione”, accomunata senza una dovuta giustificazione
alla Destruktion di Heidegger, utilizzando come criterio di valutazione
proprio la “soluzione finale”, “il peggio” come
Derrida anche scrive. Dunque, sia chiaro, Zur Kritik der Gewalt non
può trattare e non tratta della soluzione finale, eppure la concezione
che vi è esposta non escluderebbe una deriva di quel genere;
citiamo la conclusione del libro, dove Derrida sembra difendere non
soltanto la teoria della decostruzione da paternità che non riconosce,
ma anche la sua stessa originalità: «Ma se vi fosse un
insegnamento da trarre, un insegnamento unico fra gli insegnamenti sempre
unici dell’omicidio, foss’anche singolare, fra tutti gli
stermini della storia (poiché ogni omicidio individuale e ogni
omicidio collettivo è singolare, dunque infinito e incommensurabile),
l’insegnamento che potremmo ricavarne oggi, e se lo possiamo lo
dobbiamo fare, è che dobbiamo pensare, conoscere, rappresentarci,
formalizzare, giudicare la complicità possibile fra tutti questi
discorsi e il peggio (qui la “soluzione finale”). Ciò
definisce ai miei occhi un compito e una responsabilità di cui
non ho potuto trovare traccia né nella “distruzione”
benjaminiana né nella Destruktion heideggeriana. È il
pensiero della differenza fra tali distruzioni da un lato e un’affermazione
decostruttrice dall’altro che mi ha guidato in questa lettura.
È questo pensiero che la memoria della “soluzione finale”
mi sembra dettare». [pp. 142-143].
Zur Kritik der Gewalt: già il titolo dello scritto di Benjamin
esige una precisazione fondamentale. Come sottolinea Derrida, la traduzione
francese e inglese, e quella italiana aggiungiamo noi, rende Gewalt
con “violenza”: il significato del termine tedesco Gewalt
non si esaurisce completamente in violenza, perché Gewalt indica
anche l’autorità legittima. E il termine “critica”
deve essere inteso nel senso kantiano; in sintesi, il testo benjaminiano
si propone di considerare a quali “condizioni di possibilità”
la violenza è espressione legittima di una autorità; ancora
più precisamente: è possibile una giustizia che non si
legittimi esclusivamente attraverso l’utilizzo della “forza
di legge”, che non debba necessariamente ricorrere alla violenza
per affermarsi? Sempre kantianamente, con il termine Gewalt, Benjamin
cerca anche di definire una idea di Gewalt “pura”, l’unica
per la quale si può parlare di una “vera” giustizia,
di una autorità senza violenza. Come è nel suo stile,
Benjamin procede escludendo tutti quei rapporti in cui la giustizia
deve ricorrere alla violenza per affermarsi; prima di tutto, egli esclude
il rapporto mezzi-fine, che caratterizza sia il diritto naturale che
il diritto positivo: quello giustifica la violenza dei mezzi con la
giustizia dei fini, questo garantisce la giustizia dei fini con la legittimità
dei mezzi. Tuttavia, il diritto positivo ha escluso la violenza dal
proprio sistema solo apparentemente: non può evitare che il singolo
individuo si appelli al proprio diritto naturale di ricorrere a mezzi
violenti in vista di scopi che il sistema giuridico non contempla. Con
tale analisi, Benjamin vuole evidenziare che l’autorità
di nessun diritto positivo è in grado di escludere completamente
la violenza: la violenza fa parte del diritto stesso in quanto suo gesto
di fondazione e vi trova legittimazione al suo interno come “violenza
conservatrice”. Il diritto ha bisogno della violenza per sussistere:
la violenza che fonda il diritto non sparisce con la riconosciuta autorità
del diritto positivo istituito, ma il diritto afferma la propria autorità
ricorrendo alla violenza che ne garantisce la conservazione contro ogni
violenza potenzialmente fondatrice. Derrida evidenzia molto accuratamente
che la violenza fondatrice e quella conservatrice non si contrappongono,
ma il loro polemos rappresenta il movimento stesso del diritto, che,
fondandosi su una autorità derivata dalla violenza, deve costantemente
ricorrere a questa per confermare la propria legittimità. Tuttavia,
per Derrida, come emerge in Dal diritto alla giustizia, proprio l’inquietudine
intrinseca al diritto, il suo essere una rappresentazione sempre in
opera della giustizia è il fondamento stesso della democrazia;
dunque, nella critica del sistema rappresentativo e nella nostalgia
di una presenza “pura” della giustizia, Derrida riconosce
l’affinità del saggio benjaminiano con il “peggio”,
la “soluzione finale”. In effetti, Benjamin definisce l’indecidibilità
del rapporto tra posizione e conservazione come ciò che è
“guasto nel diritto”: nessun diritto può rappresentare
la giustizia. Tuttavia, la questione non si risolve semplicemente con
l’accogliere Benjamin nella tradizione rivoluzionaria; certo,
in Zur Kritik der Gewalt, come in altri testi benjaminiani, non mancano
sferzanti giudizi contro il parlamentarismo ed effettivamente Benjamin
è in compagnia anche di Carl Schmitt nel criticare la Repubblica
di Weimar, come Derrida non manca di ricordare più volte, ma
tale compagnia all’epoca era molto ben nutrita. Comunque, Derrida
riscontra nei giudizi più radicali dell’epoca contro il
parlamentarismo una sostanziale affinità: «Il discorso
di Benjamin, che si sviluppa allora in una critica del parlamentarismo
della democrazia liberale, è dunque rivoluzionario, di tendenza
marxista, ma nei due sensi del termine “rivoluzionario”,
che comprende anche il senso reazionario, quello di un ritorno al passato
di una origine più pura. Questo equivoco è abbastanza
tipico e ha alimentato molti discorsi rivoluzionari di destra e di sinistra,
in particolare fra le due guerre. Una critica della “degenerazione”
(Entartung) come critica di un parlamentarismo impotente a controllare
la violenza poliziesca che gli si sostituisce, è certo una critica
della violenza sulla base di una “filosofia della storia”:
messa in prospettiva archeo-teologica, cioè archeo-escatologica
che interpreta la storia del diritto come una decadenza (Verfall) dall’origine.
Non c’è bisogno di sottolineare l’analogia con alcuni
schemi schmittiani o heideggeriani». [p. 118]. Ci sembra che Derrida
in questo passaggio tenda a interpretare un po’ troppo semplicisticamente
l’argomentazione benjaminiana sulla scorta di “alcuni schemi
schmittiani o heideggeriani”, piuttosto che evidenziare la peculiarità
del discorso di Benjamin rispetto a tali schemi o al modo in cui Derrida
schematizza il pensiero schmittiano o heideggeriano: la “degenerazione”
di cui scrive Benjamin non consiste tanto nella decadenza dalla presenza
alla rappresentazione, dalla presenza originaria della giustizia alla
sua rappresentazione nel diritto, quanto, al contrario, nella decadenza
dalla rappresentazione alla presenza, dalla rappresentazione del diritto,
come tale sempre soggetta alla critica, all’illusione o inganno
della presenza. L’analisi di Derrida è ineccepibile nell’attribuire
al diritto lo statuto della rappresentazione, eppure scavalcare il piano
della rappresentazione per affermare la “pura” presenza
della violenza, in cui questa si mostra direttamente e non si rende
disponibile alla critica è la vera degenerazione. Derrida finisce
per intendere la critica della rappresentazione del diritto come il
presupposto per il ritorno a una origine caratterizzata dalla semplice
e diretta manifestazione della giustizia. Invece, proprio perché
è una rappresentazione, l’ordinamento giuridico è
soggetto alla critica, proprio perché è fondato sulla
Gewalt assume quella consistenza e quella concretezza per essere rifondato.
È sulla scorta di tali riflessioni che in Zur Kritik der Gewalt
s’inserisce la critica del parlamentarismo, che tanto irrita Derrida.
Nell’interpretazione che Derrida fornisce dell’argomentazione
benjaminina sul parlamentarismo, questo è il momento terminale
del declino (Verfall) dalla violenza originaria e originante alla rappresentazione
del diritto: «La perdita di coscienza non sopraggiunge per caso,
né l’amnesia che ne segue. Essa è il passaggio stesso
dalla presenza alla rappresentazione. Un tale passaggio forma il percorso
del declino, della degenerazione istituzionale, il loro Verfall. […]
Ecco come [Benjamin] deplora il Verfall della rivoluzione nello spettacolo
parlamentare: “Se vien meno la consapevolezza della presenza latente
della violenza in un istituto giuridico, esso decade (verfällt)”.
Il primo esempio scelto è quello dei parlamenti di allora».
[p. 119]. Derrida legge questo passo benjaminiano nel senso che, quando
un sistema politico s’illude di poter liquidare la presenza della
violenza mediante la rappresentanza, esso è destinato a decadere
nel momento in cui si manifesta una nuova Gewalt: è il caso sia
dello Stato di polizia che della rivoluzione. Nonostante che il testo
benjaminiano in certi passaggi possa giustificare una tale interpretazione,
pensiamo che possa essere valida anche un’altra versione. Ricordiamo
che Gewalt non significa soltanto violenza, ma anche autorità
legittima e la mera forza diventa autorità se ha la capacità
di farsi riconoscere dagli altri in quanto legittima: nella rappresentazione
giuridica che la Gewalt pone c’è la consapevolezza che
essa è soltanto legittima, è soltanto un mezzo in vista
di uno scopo, la giustizia, da cui resta distinta e, quindi, sempre
sottoposta alla verifica e alla critica.
La Gewalt che presume di essere immediata manifestazione della giustizia
e non semplice mezzo per fini giusti è definita da Benjamin mitica.
Per Benjamin, il mito è in generale una categoria filosofica
ed ermeneutica che ricorre ogni qualvolta l’ordine predominante
è quello della rappresentazione. L’intenzione di Benjamin
consiste nello svincolare la giustizia dalla petizione di principio
secondo la quale fini giusti possono essere conseguiti attraverso mezzi
giusti, in cui la giustizia è necessariamente dedotta dai mezzi
che sancisce il diritto. Dunque, la violenza s’impone ogni volta
che la giustizia è rappresentata come quell’universale
a cui la singolarità e la contingenza della situazione devono
necessariamente essere sussunti; Benjamin ribadisce il legame inscindibile
tra Gewalt e rappresentazione, soprattutto nel senso che si determina
un rapporto di potere se la giustizia è ridotta a rappresentazione
di uno scopo universale, valido per ogni situazione particolare: dietro
ogni definitiva e compiuta presenza immediata della giustizia si nasconde
sempre e soltanto la rappresentazione delle logiche di forza che ogni
fondazione del diritto presuppone. Violenza mitica è semplicemente
la definizione che Benjamin deduce dal confondere la fondazione di una
rappresentazione sempre particolare e provvisoria del diritto con l’immediata
manifestazione della giustizia. L’interpretazione di Derrida procede
lungo una traccia ormai segnata: certamente la violenza che fonda il
diritto è mitica in quanto è la rappresentazione di una
logica di dominio, tuttavia la Gewalt che pone il diritto non si perde
nell’atto della fondazione, ma resta in ogni sistema giuridico
come violenza conservatrice, un’ambiguità che denuncia
la logica di dominio dietro ogni presunta rappresentazione della giustizia.
Ogni rappresentazione della giustizia nella forma del diritto è
un “privilegio dei re, dei grandi e dei potenti”, correttamente
sintetizza Derrida, ma egli non procede oltre, non ne deduce che la
Gewalt, proprio perché può fondare soltanto una rappresentazione,
espone alla critica il diritto scaturito dal privilegio dei potenti:
«Gli esempi di quest’ambiguità (Zweideutigkeit) si
moltiplicano, la parola ricorre almeno quattro volte; c’è
quindi ambiguità “demoniaca” di questa posizione
mitica del diritto che è nel suo principio fondamentale una potenza
(Macht), una forza, una posizione di autorità e dunque, come
suggerisce Sorel stesso, che Benjamin sembra qui approvare, un privilegio
dei re, dei grandi e dei potenti: all’origine ogni diritto è
privilegio, una prerogativa. In quel momento originario e mitico, non
c’è ancora giustizia distributiva, nessun castigo o pena
ma soltanto “espiazione” (Sühne) piuttosto che “retribuzione”»
[p. 127]. Che sia il principio del potere e della forza a decidere sulla
rappresentazione sembra assodato, tuttavia il problema che la trattazione
della violenza mitica espone consiste nel fatto che questa non agisce
sulla rappresentazione storica del diritto, dove la giustizia distribuisce
e retribuisce pene e privilegi seppure non secondo un principio di uguaglianza,
ma agisce direttamente sulla nuda vita, la vita naturale non ancora
storica. Forse a nessun altro luogo come in quello concernente la nuda
vita si addice il sottotitolo di Forza di legge: il “fondamento
mistico dell’autorità”. L’autorità che
la Gewalt mitica fonda pretende una maggiore originarietà rispetto
a ogni diritto storico particolare, pretende di essere giusta in quanto
non rappresentabile e come tale esente da ogni possibilità di
critica: la violenza mitica opera come destino, direttamente sul vivente
colpevole semplicemente perché vive, agisce sulla creatura e
non sull’uomo storico e sul cittadino. Questo è un passaggio
cruciale per esplicitare la nostra critica non tanto all’analisi
quanto alle conclusioni di Derrida: non ci sembra ci sia in Benjamin
alcuna nostalgia di un’origine precedente all’affermarsi
del diritto, nessuna auspicabile presenza da riconquistare contro la
violenza della rappresentazione. Prima della rappresentazione e del
diritto non c’è la nuda vita esposta alla violenza indiscriminata
del destino; prima del diritto non c’è la presenza della
giustizia; prima della storia non c’è alcuna origine, nessun
“fondamento mistico dell’autorità”. Il destino
in quanto espressione della Gewalt mitica è già una forma
diritto, espressione dell’autorità degli dei sugli uomini,
e la concezione stessa della sacralità della nuda vita è
un prodotto storico.
Ulteriore prova del fondamento storico di ogni autorità è
la tematizzazione benjaminiana della violenza divina, che si contrappone
alla violenza mitica non perché più originaria dell’origine
mitica, ma in quanto effettivamente storica. Derrida stesso ne sintetizza
chiaramente il carattere: «La violenza divina è la più
giusta, la più effettiva, la più storica, la più
rivoluzionaria, la più decidibile o quella che decide di più.
Ma, in quanto tale, essa non si presta ad alcuna determinazione umana,
ad alcuna conoscenza o “certezza” decidibile da parte nostra.
Non la si conosce mai in se stessa, “come tale”, ma soltanto
nei suoi “effetti”. I suoi effetti sono “incomparabili”».
[p. 132] La violenza divina è “giusta” non perché
originaria, non perché pone un fondamento “mistico”,
non rappresentabile, a cui dover tornare mediante la rivoluzione ad
esempio, ma in quanto produce effetti “incomparabili” per
l’uomo. La violenza divina è storica; storica è
anche la violenza mitica, ma solo in quanto l’esercizio della
critica ne ha svelato, dietro il presunto “fondamento mistico”,
il potere e la forza come suo unico principio; invece, la violenza divina
è immediatamente storica, inscritta direttamente nel tempo storico,
è la storia stessa in cui l’uomo è immerso e in
cui si costituisce in quanto uomo. Dunque, la critica della violenza
è la premessa della violenza rivoluzionaria, che rompe la continuità
del potere rappresentato dal diritto e pone un nuovo inizio, senza precedenti,
una possibilità per l’uomo di farsi portatore dell’immediata
manifestazione della violenza divina? Sembrerebbe la conclusione attesa
fin dall’inizio del saggio, ma, come scrive Derrida, «nelle
ultime righe si recita un nuovo atto del dramma o un colpo di scena».
[p. 131] Prima di tutto, la violenza rivoluzionaria non è la
violenza divina per un motivo essenziale: la violenza divina è
irrappresentabile, quindi neanche la violenza rivoluzionaria ne può
essere la rappresentazione; piuttosto la violenza rivoluzionaria è
possibile, non deve giustificarsi di fronte a nessun fondamento d’autorità,
né tanto meno davanti al diritto, ma anch’essa non può
essere invocata a manifestare la giustizia pura. E, allora, di chi è
la firma che la violenza divina pone sulla giustizia, si domanda Derrida:
«Essa firma, quest’ultimo indirizzo, e vicinissimo al nome
di Benjamin, Walter. Ma essa nomina anche la firma, l’insegna
e il sigillo, nomina il nome, e ciò che si chiama die waltende.
Ma chi firma? È Dio, il Tutt’Altro, come sempre. La violenza
divina avrà preceduto ma anche dato tutti i nomi. Dio è
il nome di questa violenza pura – e giusta per essenza: non ce
ne sono altre, non ce n’è alcuna prima di essa, e davanti
alla quale essa debba giustificarsi. Autorità, giustizia, potere
e violenza sono tutt’uno in lui» [p. 134]. Ecco, definito
chiaramente da Derrida, il “fondamento mistico dell’autorità”:
l’unica autorità è Dio, Dio è prima di ogni
rappresentazione umana della Gewalt in quanto ha “dato tutti i
nomi” prima che l’uomo potesse nominarli. La creazione di
Dio precede ogni creazione umana, tra cui il diritto, che è destinata
inesorabilmente alla decadenza (Verfall) in quanto non può attingere
a un fondamento che resta sempre “altro”. Secondo Derrida,
è ancora alla divina violenza che governa (waltende) che Walter
si affida in quanto singolo che non crede alla capacità umana
di realizzare la giustizia. Che sia fatta la volontà di Dio:
senza esagerare potrebbe essere questa la conclusione dell’interpretazione
derridiana di Zur Kritik der Gewalt, da cui emergerebbe un pensiero
anti-illuminista, impolitico, irresponsabile, ambiguo e, dunque, potenzialmente
“complice con il peggio”. Stiamo esagerando? Leggete allora
la conclusione di Derrida stesso: «Ciò che, per finire,
trovo più preoccupante, anzi insopportabile in questo testo,
anche al di là delle affinità che mantiene con il peggio
(critica dell’Aufklärung, teoria della caduta e dell’autenticità
originaria, polarità fra linguaggio originario e linguaggio decaduto,
critica della rappresentanza e della democrazia parlamentare, ecc.),
è in fondo una tentazione che lascerebbe aperta, e in particolare
ai sopravvissuti o alle vittime della “soluzione finale”,
alle sue vittime passate, presenti o potenziali. Quale tentazione? Quella
di pensare l’olocausto come una manifestazione ininterpretabile
della violenza divina […]». [pp. 141-142] Al di là
dell’utilizzo eccessivamente disinvolto della terminologia benjaminiana,
che tuttavia è ben lungi dall’eludere un certo carattere
evocativo, Derrida dimentica nelle sue conclusioni che nessuno può
arrogarsi il privilegio di farsi rappresentante della violenza divina,
nessun uomo, gruppo, epoca storica o altro, tanto meno i nazisti: “non
è altrettanto possibile, né altrettanto urgente per gli
uomini, stabilire se e quando la pura violenza si sia realizzata in
un determinato caso”, scrive lo stesso Benjamin. Ciò deve
sempre rammentare la critica della violenza, che dunque è filosofia
della storia, che denuncia l’infondatezza di ogni rappresentazione
che si presenta nella forma dell’autoritarismo e del dominio.
Le conclusioni di Derrida non rendono giustizia alla sua stessa analisi,
sono troppo segnate dal riferimento a una teoria della caduta o del
declino (Verfall), che egli fa derivare da quella che definisce matrice
schmittiana e heideggeriana.
|