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Chiara Bottici, A Philosophy of Political Myth , Cambridge University Press, 2007.
di Ottavia Nicolini

A volte i giovani talenti italiani compiono un percorso decisamente curioso, a zig zag tra le varie lingue ed università dell'Europa. Così il libro di Chiara Bottici, giovane ricercatrice uscita dall'European University Institute di Fiesole, pubblicato prima presso la Cambridge University Press ed ora in corso di traduzione italiana presso la Bollati Boringhieri. Frutto di un accurato lavoro di dottorato, il libro si propone di lavorare alla “costruzione di un quadro filosofico per una teoria del mito politico” (p. 8), tematica suggestiva e ambiziosa.
Avvalendosi di un taglio ad alto profilo interdisciplinare (e forse possibile solo in questi centri di alta formazione europei), la ricerca confronta tra loro, classificandole e rivelandone le incompletezze, le diverse teorie sul mito elaborate dalla filosofia (Blumenberg, Cassirer) così come dalla sociologia (Durkheim, Weber), dall'antropologia (Malinowski, Geertz) e dalle scienze storiche (Bloch, Mosse). Ad una proliferazione per così dire empirica della parola “mito”, intensificatasi soprattutto negli ultimi anni – basti pensare al mito dello scontro di civiltà o a The Invention of Tradition (Hobsbawn e Ranger,1983) o The Symbolic Construction of Community (Cohen, 1985) – Bottici oppone lo scarso numero di studi teorici volti a chiarire il lavoro del mito nel quadro di una filosofia politica. Come dire, ad una generalizzazione diffusa dell'uso del termine “mito” non corrisponde un adeguato lavoro di comprensione filosofica della sua specificità.
“Mito” è infatti un termine che incontra amici e nemici, sostenitori ed oppositori. E tra i nemici Bottici, prendendo apertamente posizione, non manca di annoverare proprio la filosofia politica. Due sono le cause di questa “svista”: una per così dire temporale, l'altra per così dire strutturale. Da una parte infatti, spiega l'autrice, il ruolo sempre più politico giocato dal mito è un fenomeno abbastanza recente, (basti pensare agli studi sulla “nuova politica” del nazionalsocialismo dove il richiamo all'elemento mitologico ha giocato un essenziale ruolo di unificazione politica, per citare gli studi di G.L. Mosse) emerso, sotto la condizione della modernità, con la separazione di  religione e politica; dall'altra parte invece viene chiamata in causa la dicotomia classica tra razionale e irrazionale, che struttura il dominio di applicazione della filosofia politica. Tale disciplina infatti, chiusa nella sua dicotomia, viene accusata di non riuscire a prestare particolare attenzione proprio a quegli elementi che, come il mito, giudicati non razionali,  sono stati, con troppa leggerezza, esclusi dal suo dominio. Secondo la definizione classica di tale disciplina infatti politica si definisce solo in termini di attività svolta da agenti razionali. E, in questo quadro, non fanno eccezione neanche gli studi di Rawls o la proposta di etica comunicativa avanzata da Habermas. Eppure, probabilmente, già la definizione di cosa è politica, cosa rientra di diritto nel campo di analisi di una possibile filosofia politica è già una scelta politica di per sè. Proponendo una filosofia del mito politico, Bottici dunque opta per una re-visione della filosofia politica che, finalmente usufruendo degli apporti provenienti dalla sociologia, così come dall'antropologia o dalla storia, sappia uscire dai suoi angusti confini strutturali, per approdare ad una comprensione a tutto tondo della società contemporanea.
Ma come definire un mito? Come prima mossa Bottici sceglie l'approccio genealogico. Il capitolo I, intitolato Genealogia del mito, utilizzando il metodo genealogico nietzscheano secondo cui una genealogia “si confronta con il problema del significato guardando alle circostanze in cui fu creato e così al valore che è in gioco nella sua creazione” (17), prende in esame la definizione di uso corrente secondo cui un mito è ciò che è non vero e non reale. Monitorando allo stesso tempo differenti tappe storiche dello sviluppo della nozione di mito, l'autrice parte dalla identificazione operata nel pensiero dei greci tra logos e mythos. Ancora in Platone ne troviamo l'eco. Seguendo l'interpretazione heideggeriana del concetto di verità per i greci – l'aletheia – Bottici insiste nel ricordarci la pluralità che caratterizzava quella concezione di verità. “Infatti, è precisamente la pluralità dei miti greci che costituisce uno scandalo per noi” (39). Solo con la parola rivelata della Bibbia, il dis-velamento tenderà a divenire singolare -ovvero la verità - perdendo la sua pluralità intrinseca. Tale concezione si ripercuote sul mito il quale, oramai escluso dal regno della verità, diviene ciò che è irreale, finto. Il metodo scientifico del '600 così come la razionalità dell'illuminismo non fanno che accentuare questo modello del mito come qualcosa di sacro e tuttavia irreale,  ribaltando i due termini della questione nel romaniticismo ma lasciando immutata la dicotomia.
Cosa distingue un mito dal simbolo o dal simbolico che vi è connesso? Come abbordare il mito (capitolo II)? Relegando il mito nel campo degli elementi non razionali, sacri, si rischia infatti di non riuscire più a distinguerlo dalle altre forme a lui correlate come il simbolo, la narrazione e la leggenda. Eppure, per esempio, non si potrebbe mai dire “la leggenda della rivoluzione francese”, quanto piuttosto il “mito della rivoluzione francese”, così come non ci riferiremmo mai alla “narrazione dello stato di natura”, quanto al “mito dello stato di natura”. L'uso tramandato dal linguaggio comune suggerisce dunque il bisogno di insistere su un lavoro filosofico sul mito, lavoro in grado di fornirci le basi teoriche per arrivare a una sua definizione. Se infatti il mito opera attraverso dei simboli, per rifarsi agli studi dedicati alla dimensione simbolica del potere,  non è vero l'opposto: non tutti i simboli sono dei miti. Prova ne è il segno linguistico, difficilmente scambiabile per un mito. Oppure non tutte le narrazioni diventano miti. Il Decameron non è un mito, così come non lo sono i racconti di Chaucer. Dopo aver analizzato una serie di definizioni, rivelandone le carenze teoriche, Bottici sceglie di riferirsi al Mythosdebatte sviluppatosi in Germania negli anni '70, rifacendosi alla celebre definizione di mito data da Hans Blumenberg. “Arbeit am Mythos”, “work on myth”, infatti, permette di sottolineare proprio quell'aspetto processuale che il mito deve contenere per essere tale. “Se il mito consiste nel lavoro su/del mito, non solo non ci sono singoli miti, dati una volta per tutte, ma lo stesso mythologema (il cuore della narrazione) cambia nel corso del tempo, perché in ogni occasione viene ritradotto/riappropriato (Umbesetzung) a seconda dei differenti bisogni ed esigenze. Per lavorare come un mito, una narrazione deve sempre rispondere ad un bisogno di significanza (Bedeutsamkeit)” (12-13).
Se dunque l'utilizzo di tale definizione di mito afferma, in maniera imprescindibile, il suo carattere processuale, rendendo vane tutte le altre definizioni che, insistendo sull'oggetto mito e non sul processo del divenire mito, ne cercano di cogliere il valore di verità o meno (come i recenti saggi di Flood, Political Myth: A Theoretical Introduction, 1996 e Lincoln, Discourse and Construction of Society: Comparative Studies of Myth, Ritual and Classification, 1989), l'asse si sposta di nuovo su quelle discipline che cercano di cogliere e rendere conto dei processi piuttosto che degli oggetti. Utilizzando la critica di Wittgenstein al Ramo d'oro di Fraser, Bottici rende conto della “linguistic turn” nel campo dei miti, giudicando inappropriato considerare un mito a seconda del suo valore di verità. Facendo un uso antropologico-politico della filosofia del linguaggio di Wittgenstein si afferma che, “interrogare i miti dal punto di vista delle loro condizioni di verità/falsità significa assumere una veduta troppo limitata di ciò che è il linguaggio umano e i significati: gli esseri umani sono animali cerimoniali, che, con il loro linguaggio, compiono (perform) innumerevoli azioni che non sono basate su nessuna ipotesi circa la costituzione del mondo” (9). Il paragrafo 4 del capitolo II – Mito e significato - contiene una esauriente discussione della posizione di Wittgenstein, avanzando l'ipotesi di un suo risvolto politico. 
Si chiama in causa dunque, ancora una volta, la filosofia politica e le scienze sociali. Seppure è innegabile l'enorme lavoro volto a cogliere il lavoro del mito svolto da queste ultime - ad esempio nel tentativo di comprendere il nazionalsocialsmo e il nazionalismo che ha portato a forme estreme di politiche identitarie - Chiara Bottici guarda ancora alla filosofia politica. E' infatti all'interno della filosofia politica che bisogna comprendere il lavoro del mito. Le altre discipline infatti hanno studiato approfonditamente singoli esempi, case studies, senza però riuscire a dare una definizione del lavoro politico operato dal mito. E l'autrice infatti non manca di rilevare come la riluttanza della filosofia politica ad occuparsi del mito stride con la mole degli studi filosofici dedicati al mito. Le teorie classiche del mito politico, analizzate nel capitolo III Mito Politico, come quella di Sorel dedicata al mito dello sciopero generale o quella di Cassirer dedicata al mito della razza ariana, infatti si sono concentrate solamente su casi particolari, senza riuscire a generalizzare la loro funzione in un quadro teorico più ampio. Riferendosi a Spinoza e alla sua ricostruzione del ruolo svolto dalla profezia nella costruzione dell'antico Stato di Israele, Bottici arriva a definire il mito politico come “il lavoro svolto da una narrazione comune attraverso cui i membri di un gruppo sociale forniscono significatività alle loro condizioni politiche (o esperienze politiche, potremmo aggiungere) e bisogni” (200) in quanto rispondono ad un bisogno universale: “il bisogno di vivere in un mondo meno indifferente a noi” (Ibidem). Se questo rappresenta il cuore teorico del libro, l'ultimo capitolo – capitolo IV Mito e politica dell'identità – getta le basi per una “sociologia del mito politico” (2002), in cui centrale diviene il concetto di “immaginario sociale” proposto da Castoriadis. Da ultimo infatti il mito politico si interseca con la formazione di identità culturali, sociali e politiche, diventando non l'espressione di identità già costituite, ma collaborando attivamente alla loro formazione. Il mito diviene un dispositivo di costruzione identitaria.
Resta però a questo punto una domanda: non si rischia, insistendo su una filosofia del mito politico di procedere verso un'astrazione e generalizzazione che, preoccupandosi di chiarire solo le strutture del processo e lavoro del mito, non riesca più a saper cogliere il lavoro particolare, contingente operato dal mito? Non si rischia di lasciar correre l'analisi della narrazione attuale, a favore di un'analisi dei presupposti della narrazione o delle condizioni della possibilità di una narrazione? Seppure l'intento dell'autrice è estremamente apprezzabile nel suo tentativo di voler dilatare i confini della filosofia politica fino ad inglobare l'altro lato, il lato oscuro della filosofia, quello costituito dal non razionale, dalle passioni o dalle emozioni (e di cui l'esclusione storica delle donne dalla filosofia rappresenta il caso più evidente di questa discriminazione dei criteri filosofici), il rischio è quello di una “colonizzazione” dell'altro lato piuttosto che di una revisione della struttura dominante, volta a modificare i criteri di inclusione/esclusione dal dominio della filosofia politica. Ma forse questa paura di rinchiudersi ancora una volta entro i confini di una disciplina, sia pur rimodellata, sono inutili dubbi che un buon uso dell'interdisciplinarietà – lavoro arduo e faticoso-  contribuirà senz'altro a dissolvere, come neve al sole.
 

PUBBLICATO IL : 27-12-2007

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