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Lia Formigari, Introduzione alla filosofia delle lingue , Laterza, 2007.
di Arturo Martone

Non è affatto opera immune da rischi quella di dipanare il filo del discorso di questa narrazione (L.Formigari, Introduzione alla filosofia delle lingue, Roma-Bari, Laterza 2007). Non è neppure così scontato individuarne, di primo acchito almeno, il leit-motiv più proprio e la specifica posta in gioco. E questo non certo perché sia in questione una chiarezza mancata, ma solo perché, all’opposto, l’apparente scorrevolezza e la cattivante agilità dello stile narrativo (dov’è da segnalare una formula discorsiva ricorrente come: «il che non esclude (non significa) che», che denota l’ammissione di un paradigma interpretativo fondato sulla inclusione più che sull’esclusione delle voci convocate a questo dialogo pubblico) dissimula profondità delle questioni e ampiezza di riferimenti, entrambi al più taciuti (o appunto dissimulati) in quanto ritenuti come fuori bersaglio o forse esorbitanti. Ma le acque tranquille, a chi è solo un po’ esperto di cose di mare, nella fattispecie, sono per solito da auscultare con vigile attenzione, laddove chi è appena di loro un po’ meno esperto si assume, a suo proprio rischio e pericolo, di solcarle con imprudente (e impudente) incoscienza.
Diciamo allora, da subito e in primo luogo, che pochi sono oggi in Italia (e fuori) gli Autori della disciplina (quella che per intenderci si barcamena tra Filosofia, Linguistica e Teoria e/o Filosofia del Linguaggio, e per tacere, almeno per ora, delle co-implicazioni di queste con le Scienze Cognitive e le Filosofie della Mente) che, come Lia Formigari, hanno sempre ben chiari i tanti oneri (e i pochissimi onori) di un lavoro teorico avveduto, di un lavoro tale cioè da non perdersi fra i rivoli della più immediata (ovvero recente) ‘trovata’ filosofico-linguistica (e tante sono oggi le voci che enunciano e annunciano siffatte ‘trovate’ !), ma da sapere, di contro, ricondurre le fila di siffatte trovate (o scoperte che siano) a una trama narrativa più estesa e ‘porosa’, una tramatura socio-storica.
E intanto, per iniziare, e quale puntuale conferma di quanto detto, ecco una importante e non banale, anche se enunciata quasi di passaggio, citazione sul tema, quello appunto della relazione fra Teoria e Storia (delle teorie):

Ci sono nodi teorici fondamentali che si perpetuano nella storia delle teorie, e ne vedremo alcuni esempi in quel che segue: domande, ipotesi e punti di vista che vengono formulati e riformulati ogni volta secondo lo stile filosofico del tempo. L’individuazione dei grandi modelli teorici diventa essa stessa uno strumento per la teoria, e qualifica la ricerca storica come una tecnica essenziale della conoscenza (p.24).

Questo abito interpretativo, inteso a coniugare indissolubilmente, nella prassi concreta del proprio lavoro di ricerca, Teoria e Storia (delle teorie) costituisce da sempre un ‘marchio’ di attendibilità nei lavori di Lia Formigari (si abbiano presenti al riguardo, e solo per citare i suoi più recenti lavori: La sémiotique empiriste face au kantisme, Liège, Mardaga 1994 e Il linguaggio. Storia delle teorie, Roma-Bari, Laterza 2001; e si veda pure nel testo in questione e per fare solo due significativi esempi: (a) l’utile (e innovativa) sottolineatura di una filiazione kantiana di Chomsky (p.43) e (b) il raccordo della teoria degli Speech Acts ad alcune procedure della Semantica medievale (p.109).
E diciamo pure, e in secondo luogo, che il filo del discorso di questa narrazione non sembra essere prima facie auto-evidente, o tale da essere afferrato a una lettura soltanto ‘ingenua’ – non essendo in esplicito dichiarate né la posta in gioco e neppure le regole per farne oggetto di una inequivoca lettura, pare quasi che questo filo non ci sia, tanto esso viene affidato a quella scorrevolezza e agilità di cui si diceva. Quel che viene invece dichiarato in esplicito è che a una introduzione alla filosofia delle lingue viene richiesto di soppiantare una più onerosa e connotata filosofia del linguaggio. Andando però a leggere il motivo di questa opzione («Il titolo che ho scelto descrive meglio un percorso che, tralasciando ad es. lo studio dei sistemi formali o i problemi di ontologia che hanno occupato tanta parte della filosofia linguistica del secolo scorso, tratta piuttosto dei dispositivi che si realizzano in quelle formazioni storico-empiriche che sono le lingue naturali», p.1), ci si avvede che essa non è poi né così semplicistica e neppure tanto scontata: che si tratti di lingue invece che di linguaggio appare infatti già essere una opzione di fondo che mette in questione una maniera quasi ‘di scuola’ oramai, quella secondo cui è stato, almeno in epoche più recenti, svolto il lavoro storico-critico nell’ambito delle ricerche linguistiche (dove la focalizzazione sul ‘linguaggio’, appunto, ha comportato di fatto, e per fare un altro semplice esempio, un appannamento del tema pre- e post-humboldtiano, oggi come ieri di straordinaria attualità, della ‘diversità delle lingue’).
E allora, e al fine di ‘discoprire’ leit-motiv e posta in gioco di questa narrazione svolgeremo qui alcune considerazioni in ordine sparso, prime fra tutte quelle concernenti l’impianto di essa.  La quale si dipana lungo quattro Capitoli (1. “L’intelligenza linguistica del mondo”; 2. “L’origine della parola”; 3. “Modelli di categorizzazione”; 4. “Comunicare e comprendere”), ciascuno dei quali consegnati a uno specifico esergo: i primi due a due loquenti citazionivichiane, il terzo a una non meno istruttiva citazione di P.Valéry, e il quarto a una di G.de Cordemoy. E poi che quanto si affida a siffatte campionature non è, solitamente, un esercizio vano (e qui lo è forse ancor meno), proveremo a reperire anche in esse qualche indizio utile a quella ‘discoverta’.
Le due citazioni vichiane dicono rispettivamente:

[…] non essendo altro l’uomo, propriamente, che mente, corpo e favella, e la favella essendo come posta in mezzo alla mente e al corpo […]; Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che son tali, indi tali e non altre nascon le cose;

quella di Valéry dice:

I più ignorano quello che non ha nome, i più credono all’esistenza di tutto ciò che ha un nome;

e quella di Cordemoy dice:

[…] le parole che sento proferire da corpi fatti come il mio […] son le stesse di cui mi servirei per spiegare i miei pensieri […]. Più guardo all’effetto prodotto dalle mie parole […], più mi sembra che le si intenda; e quelle che gli altri proferiscono rispondono così perfettamente al senso delle mie, che non mi pare più possibile dubitare che una mente operi in loro quel che la mia opera in me.

Leggendole, uno potrebbe dire: esse parlano di qualcosa (qualunque sia essa) solo all’interno del discorso che ciascuna di loro contribuisce a produrre, laddove, così decontestualizzate, sarebbero poco meno che fuorvianti. Il fatto è, però, che tali ‘voci’ (voci che appartengono tutte, giova ricordarlo, a una tradizione socio-storica non effimera né ininfluente) interagiscono bene con la trama dei quattro capitoli che qui, nel loro insieme, proveremo a esporre.
Essi pongono, dunque, e sin dall’inizio (Cap.1.), un oggetto coeso e indissolubile che è quello della ‘parola’ (unità minima - a parte le scomposizioni monematiche o morfematiche di ‘prima articolazione’ di Martinet - da cui tutto il resto prende forma), ‘parola’ dunque, e non ‘frase’ né ‘discorso’ (cui si tratterà di pervenire in appresso e con opportune approssimazioni), e pure però, e sarà forse il caso di richiamarlo, parole e non langue (in senso saussuriano), senza per questo contrapporre e spezzare l’unità di una endiadi tanto ricca peraltro di ricerche successive. La parola è già essa, e sin dall’inizio, intenzionata o intenzionale, e cioè provvista di un contenuto semantico che solo nella frase e più ancora nel discorso, certo, assume rilevanza e prestigio. Di questa unità minima e indissolubile che solo la parola è, viene poi proposta una storia (Cap.2.), che è a un tempo onto - e  filogenetica – ed è nel corso di questa storia, una storia avvincente poi che non prevedibile (e dunque non unidirezionale ovvero finalisticamente orientata), che vengono a disporsi e a dire la loro le variegate ‘scuole di pensiero’ - continuiste e discontinuiste, gradualiste ed emergentiste - che compongono il puzzle di molti dei dibattiti ancora in corso in ambito filosofico-linguistico, come pure, et pour cause, in quello delle Scienze Cognitive e delle Filosofie della Mente. La parola (sempre lei !) orienta inoltre, e persino dispone (Cap.3.) le pratiche di Nominazione, pratiche a cui ascrivere nientemeno che i processi di identità, tanto personale (come nel caso del Nome proprio) quanto di identificazione di oggetti, stati, azioni o eventi del mondo (come nel caso del Nome non-proprio – con esso intendendo non soltanto i sostantivi ma pure, ad es., quei descrittori di azioni che sono i verbi). E infine, la parola si trova finalmente restituita (Cap.4.) al suo ‘potere’ più proprio, quello di ‘insegnare’ (comunicare) e ‘distinguere’ (comprendere), due pratiche, entrambe, pragmaticamente orientate, dove soltanto, e finalmente, le unità frasali e discorsive incarnano appieno la loro vocazione enunciazionale.
Come si sarà forse inteso sinora da questa sommaria presentazione, leit-motiv e posta in gioco di questa narrazione appaiono dunque coincidere e convergere verso un solo e identico focus discorsivo, quello di una parola già da sempre ‘incarnata’, direzionata cioè (ovvero intenzionale o intenzionata) verso degli scopi, dei fini, insomma una costruzione di senso (fosse pure questo ‘insensato’ o affatto ‘privo di senso’) da essa indissolubili, una parola dunque originariamente provvista di un contenuto semantico che solo nella frase e più ancora nel discorso, come si diceva, assume rilevanza e prestigio.
E si sarà così forse anche inteso che il filo del discorso di questa narrazione resta ben saldo nelle mani scriventi dell’A. la quale, pur senza darlo troppo a vedere, non lo perde mai di vista: dopo aver posto (e motivato), come si diceva, l’oggetto d’indagine (le lingue più che il linguaggio) e avere di queste reperito l’elemento costitutivo più semplice (la parola più che la frase e il discorso), perviene progressivamente a una costruzione più complessa e articolata laddove si tratti di mettere sott’osservazione le pratiche effettive di quella costruzione di senso di cui si diceva. Una narrazione, dunque, che procede, quasi parafrasando l’andamento iniziale del terzo Libro del Saggio sull’intelletto umano di J. Locke (un autore molto noto e apprezzato dalla Formigari),  dal semplice al complesso, secondo stratificazioni e approssimazioni successive. 
Da questo impianto storico-critico esso stesso complesso e articolato (dov’è da segnalare un’assenza loquente, quella di G.W. Leibniz – un autore forse ascritto a una tradizione da sempre connotata di ‘razionalismo’), e di là dalle pur scottanti questioni poste dalla Modernità più prossima (quali quelle di una ‘facoltà di linguaggio’ di stretto e geloso appannaggio della specie umana ovvero ricondotta a semplice epifenomeno della evoluzione della specie), vorremmo qui isolare il tema ampiamente discusso nel Cap. 3., quello della Nominazione, in quanto sembra a noi prestarsi a una discussione che, senza chiamare in causa i ‘massimi sistemi’ (quelle trovate o scoperte che siano, di cui si diceva più sopra), assume quale punto di partenza un evento in sé inequivoco, il processo grazie a cui il nostro stare al mondo prende nome, ovvero, e se questo singolare suona equivoco, attribuisce, vichianamente, ‘alle cose insensate senso e passione’. Un processo grazie a cui la Parola si metafamorfosizza in Nome - una metamorfosi nient’affatto pacifica e scontata, ma che verrà, a partire da Locke, additata come la ‘svolta’ forse più feconda della Modernità grazie a cui ci si avvede che le idee dei nostri ragionamenti, se trovano un accesso alla loro comunicazione e pure però conoscibilità, lo fanno sol perché vengono al medesimo tempo da qualcuno (a ciò interessato) nominate (dato che prive di nomi esse si ritroverebbero o ineffabili o pure semplicemente incomunicabili).  
Come ci fa subito presente l’A., in tale processo è in questione l’aggiramento di una raccomandazione di F. de Saussure: la lingua degli umani non è una ‘nomenclatura’, non è un dispositivo che si produca prima, in un primo momento e in un luogo separato da quello dov’essa avrà a misurare la sua portata poi, in un secondo momento e in un luogo altro dal primo; la lingua degli umani, invece, è ‘forma’ (come L. Hjelmslev avrà in seguito a chiarire, con più avvedutezza forse di Saussure stesso), e cioè, e al medesimo tempo, forma di conoscenza (di sé medesima e di ciò di cui parla), forma di comunicazione (ancora, di sé medesima e di ciò di cui parla), e infine formazione di senso (quale che esso sia). Ora, se dai nomi di cui una lingua è fatta facciamo (o facessimo) discendere davvero la pretesa di far loro dire (e far conoscere) quel che le cose sono (e cioè la loro ‘essenza’), lo spettro del Gran Nomenclatore non potrebbe che aggirarsi sulla scena - e sappiamo bene che per talune culture dov’è particolarmente riconoscibile l’ascendenza di un orizzonte sacrale del senso, questa cerimonia del ‘battesimo’ non smette di emettere i suoi bagliori, e sappiamo pure, o dovremmo sapere, altrettanto bene che anche talaltre culture, ‘laiche’ e ‘secolarizzate’ per definizione, quali quelle scientiste, coltivano, magari a loro stessa insaputa, la medesima propensione ‘metafisica’ (una propensione che, detto di passaggio, è di casa pure in tante ricerche su le lingue e il linguaggio ogni volta che ci si volga verso l’oggetto in questione sottoponendolo a siffatta griglia interpretativa).
Una icastica citazione, intanto, che giova alla chiarezza di questo discorso, può forse venirci incontro:

Tenere presente tutto questo [il fatto cioè che le Lingue umane non prescrivano una nomenclatura] non toglie il fatto che l’uso dei nomi è una forma primaria di appropriazione e controllo dell’esperienza. Questo vale per la pratica scientifica, con il suo corredo ineludibile di definizioni e tassonomie. Vale per i comportamenti quotidiani, durante i quali elaboriamo continuamente e automaticamente, con l’uso di denominazioni, miriadi di dati altrimenti non gestibili, e dove il fatto di avere [ovvero dare] un nome, una qualifica, un titolo dà alle nostre persone stessa identità, collocazione, ruolo sociale e di genere. Vale persino per le creature della fantasia, che non vivono finché non hanno nome, e mutano natura mutando nome, come ben sapeva don Chisciotte, cui Cervantes, all’inizio della sua trasfigurazione eroica, fa prima di tutto inventare un nome per la sua dama, per il suo cavallo e per se stesso (p.68).

Di là da questo potere di ‘inventare’ mondi’ (un potere affatto contagioso cui a fatica ci sottrarremo qui !), la Nominazione, in quanto pratica còlta nella sua processualità di ‘evento’ più che di uno ‘stato di cose’ già pronto all’uso, si presta bene a esemplare un’attitudine, questa sì spiccatamente umana, di categorizzare la esperienza che facciamo del mondo. Se però non sapessimo dar nome, appunto, a quanto ci accade di vivere (il che non è peraltro infrequente !), il nostro vissuto sarebbe un pullulare di creature fantasmatiche. E se non sapessimo condividere questi nomi coi nostri simili (il che non accade meno infrequentemente !), egualmente saremmo come condannati a un inenarrabilesolipsismo. E se infine, e per raccogliere la ‘provocazione’ cervantiana, non sapessimo rendere credibili i nostri fantasmi (là dove si mette a prova la ‘grazia’ di una scrittura, che dal punto di vista della sua concreta esperienza del mondo non è, come si sa, un esercizio come tale comunicabile !), le nostre umbratili esplorazioni resterebbero  nel novero di uno indicibile strazio.
I nomi dunque non detengono inscritto nella loro ‘essenza’ il potere di metterci al riparo da questi ‘colpi a vuoto’, di prescriverci (o proscriverci) un itinerario immune da rischi e fallimenti e neppure, infine, di confermarci l’aspettativa tutta umana di una loro presunta sacralità. E però resta non meno vero, come ci ricorda Lia Formigari, che è solo grazie a essi che (e quando ciò accade) condividiamo porzioni di una esperienza, ancorché talvolta effimera e volatile, del mondo. I nomi, questa esperienza del mondo, giungono sinanco (ma non sempre, come s’è detto) a categorizzarla. Un’altra citazione ci aiuta a dipanare i rovelli circa questa indecidibilità della Nominazione:

Poiché la categorizzazione è condizione della nominabilià del reale, non sorprende che attorno ad essa siano ruotati dibattiti secolari nelle filosofia del conoscere. Il problema degli Universali logico-semantici, che sotto varie formulazioni percorre l’intera storia della filosofia, riguarda proprio la natura di quella identità. Un nome è il semplice prodotto di una convenzione linguistica, il solo fattore di unificazione del molteplice dell’esperienza (nominalismo) ? Oppure i nomi, per quanto convenzionali, designano categorie effettivamente preesistenti (realismo) ? Oppure, ancora, tra la sfera dei nomi e quella degli oggetti sussiste una sfera mentale, di concetti, ed è grazie alla mediazione d’un concetto che noi riconosciamo come appartenenti alla stessa categoria due o più oggetti e li designiamo con un nome (concettualismo) ? (pp.70-71).

Domande importanti, che grondano, come ci ricorda l’A., di una tradizione pressoché millenaria (orbitando tutte intorno alla disputa sugli Universali logico-semantici del XII-XIII sec.), e che con ciò, e nel fuoco di una Modernità troppo spesso di ciò dimentica, vengono qui restituite a una attualità sinanco a volte ingombrante. Domande, inoltre, a cui il testo non predispone risposte di maniera in quanto le domande stesse sembrano qui mettere in questione noi stessi che le poniamo e con ciò, dunque, interrogarci. E dunque non proveremo noi neppure, qui e ora, ad apparecchiare risposte di maniera. Proveremo sicché a interrogare, a nostra volta, il testo in questione. In particolare, quand’esso afferma :

Dire che la lingua non è una nomenclatura non toglie dunque che all’uso delle parole vadano connessi inestricabilmente processi di categorizzazione, cioè di identificazione e reidentificazione di oggetti ed eventi in classi consapute dai parlanti d’una stessa lingua (questo è … un albero … un cespuglio). Le classi, e dunque i nomi o le espressioni nominali, hanno spesso (perlopiù) contorni incerti (non è né un albero né un cespuglio), sfumano l’una nell’altra (tra il verde e l’azzurro), passibili di ridefinizione, anzi continuamente ridefinite nella pratica della comunicazione e anche della riflessione silenziosa. Categorizzando, diamo confini alle cose, anche a quelle che non hanno per natura confine  (pp.68-69).

Un passaggio, questo, che pare implicare delle ‘ricadute’ dal piglio eminentemente teorico, tanto più che quelle questioni vengono a introdurre a un tema, esso pure eminentemente teorico, che è quello della portata (estensioni e limiti) di una ‘teoria dei prototipi’, che ha goduto (e forse tuttora gode) di un credito ragguardevole in ambito della linguistica (e psicologia) cognitiva. Senza addentrarci in questo tema, ma limitandoci alla ‘introduzione’ che il testo propone con la citazione ora riportata, proveremo a sollevare alcune questioni che a loro volta, e come già detto, interrogano noi nel mentre stesso che le poniamo. Del Nome, dunque, di quello proprio (nomi di persona o di luogo), ma pure di quello non-proprio (nomi di oggetti, di stati, di azioni o di eventi). Non è intanto affatto scontato che il loro comportamento linguistico sia affatto interscambiabile o equivalente. Se quello del primo si arresta alla funzione ‘denotativa’ (per riprendere la ben nota distinzione di J.S. Mill), quella cioè di fissare un riferimento (essendo con ciò provvisto di una Bedeutung, ovvero di un ‘significato’ - secondo la ben nota nomenclatura della filosofia analitica freghiana e post-freghiana), senza per ciò stesso essere caratterizzato da un Sinn o ‘senso’ quale che sia (ancora secondo quella medesima nomenclatura), e cioè da una ulteriore funzione, quella ‘connotativa’ (‘Lia’o ‘Arturo’, ad es., essendo i nomi di quei portatori con cui i parlanti sono soliti identificarli e cioè fissare un certo riferimento), quello del secondo (il Nome non-proprio) sembra non potersi sottrarre, oltre che alla funzione denotativa, neppure a quella connotativa (l’‘acqua’ in quanto Nome con cui identifico qualcosa con cui mi sono lavato quest’oggi, pare possedere pure delle ‘proprietà’ più o meno ‘proprie’, appunto, più o meno intrinseche, di cui i nomi ‘Lia’ e ‘Arturo’ non sembrano, almeno prima facie, godere).
Ma le cose stanno proprio (e solo) così ? Se con i nomi ‘Lia’ e ‘Arturo’ i parlanti identificano i portatori di quei nomi fissando un certo riferimento, non è men vero, intanto, che ‘Lia’ e ‘Arturo’ descrivono certe funzioni discorsive secondo cui tali nomi ‘funzionano’ appunto come i nomi di chi, nella fattispecie, è nel primo caso l’Autore di un libro così e così e nel secondo il suo Recensore. Così come non è forse men vero che nel caso del Nome non-proprio, oltre che a descrivere certe funzioni discorsive, esso fissa un certo riferimento secondo cui il Nome ‘acqua’ (con cui con cui identifico qualcosa con cui mi sono appunto lavato quest’oggi) verrà, ad es., distinto da quello di ‘acquolina’ o di ‘acquitrino’ (nomi a cui non chiederei mai di fissare lo stesso riferimento).
Le cose dunque non sembrano stare proprio (e solo) così. Non sembra insomma del tutto peregrino o fuorviante attribuire, al Nome proprio, una sua ‘connotazione’ (o ‘senso’) né a quello non-proprio una sua ‘denotazione’ (o ‘significato’).
Orbene, questa duplice funzionalità di un Nome (di quello proprio come di quello non-proprio) ad altro non risponde che a una duplice (e altrettanto immancabile) attitudine cognitiva: se infatti la funzione connotativa risponde alla domanda circa il ‘che cosa’ del Nome (il quid sit ens), una domanda circa dunque la sua presunta essenza reale, ovvero, e più modestamente, circa il suo ‘come’ e dunque le sue proprietà accidentali (infatti, sarebbe oggi davvero impervio o improprio attribuirsi l’onere, dopo Locke, dopo Hume e dopo Kant, di rispondere a questa domanda con la pretesa di conoscerne, ovvero fissarne, l’essenza reale), la funzione denotativa risponde invece alla domanda circa il ‘chi’ del Nome (il quis sit ens), una domanda circa dunque la sua semplice o singolare esistenza. La prima domanda è di ordine ‘epistemico’ nella misura in cui ci fornisce una o più conoscenze circa le proprietà del referente nominato, ed è rivolta al suo poter-essere così e così, e la seconda è invece di ordine ‘metafisico’ (di quello stesso ordine attribuito, ad es. da Leibniz, al principio della ‘identità degli indiscernibili’), e che concerne il suo non-poter-non-essere altro da quel che è (il che vuol dire qui: non-poter-non-essere altro da quel che è stato nominato). E dunque, se la prima domanda dischiude mondi, per così dire ‘necessariamente contingenti’ (relativi cioè sia alla così detta ‘essenza reale’ ma pure, e soprattutto, alle ‘proprietà accidentali’ di questo o di quel Nome), la seconda va incontro allo statuto per così dire ‘necessariamente necessario’ dell’identificazione di un referente, materiale o immateriale che sia, della sua semplice o singolare esistenza, nella misura in cui, una volta attribuitogli questo o quel Nome, e fintanto che questa attribuzione avrà corso, tale Nome resterà quello e non un altro.
Ora, la ‘creatività’, la ‘onniformatività’, la ‘metaforicità’ (ovvero «astrazione, tipizzazione, tropizzazione» in quanto «dispositivi di categorizzazione non incompatibili, anzi fra loro interconnessi», p.83), di cui i lessici delle lingue storico-naturali appaiono tutti ben provvisti, sono sempre stati chiamati in causa quali attestazioni inequivoche della ‘vaghezza’ e/o ‘indeterminatezza’ semantiche, con ciò chiedendo loro di mostrare la linea di demarcazione rispetto invece al formalismo di quei lessici ‘chiusi’, né storici né naturali, e insomma non parlati, in quanto caratterizzati da una rigidità denotativa, per definizione inequivoca e non-creativa – e vale qui la pena richiamare la istruttiva e ben nota tipologia proposta in Minisemantica di T. De Mauro, dove, dopo la presentazione delle quattro famiglie di codici caratterizzati da una ‘mancanza di creatività’ (1. linguaggi a sensi globali, non articolati: spie, cifre, alfabeti; 2. linguaggi a sensi articolati e significati finiti: cataloghi, carte da gioco, simbologie; 3. linguaggi a significati articolati e infiniti: cifrazioni e scritture alfabetiche; 4. linguaggi a infiniti segni sinonimi calcolabili: calcoli e linguaggi formali), viene in scena la ‘quinta famiglia’ di codici, quelli per intenderci delle lingue storico-naturali umane, regolati invece da una mancanza di non-creatività, a sua volta intesa come «disponibilità permanente alla innovazione, manipolazione e deformazione delle forme codificate», non senza qui aggiungere, come ricorda De Mauro, che la ‘vaghezza’ che contraddistingue questa quinta famiglia non pertiene soltanto al processo di costruzione dei significato ma alla stessa natura semiotica di questi codici.
Siamo qui, forse, ben oltre la disputa sugli Universali di qualche secolo fa, che ancora scommetteva sulla possibilità che il Nome cogliesse appunto qualcosa di ‘universale’, prima, dopo o dentro il concetto/la cosa di esso – siamo qui, invece, dentro forse a un solo universale, quella ‘rete del Linguaggio’ (o meglio delle lingue) che, sola, sembra qui dettar legge e istituire (creare) mondi possibili.
Da sempre distinguiamo il Nome ‘rosso’ dal Nome ‘verde’, o quello di ‘coraggio’ da quello di ‘paura’ (detto altrimenti, da sempre siamo certi della differenza fra di loro, come pure, ad es., di quella fra ‘verde’ e ‘verdognolo’, ovvero ‘rosso’ e ‘rossastro’) – nel nome di un nome, oggi ad es. quello di ‘relativismo’, c’è ancora chi pare disposto a inscenare condanne morali e chissà se non pure scomuniche. E chi si sente additato con il Nome di ‘diverso’ non vedrà al suo intorno arieggiare la stessa forma vita di chi si sente protetto sotto l’ombrello di quello di ‘normale’ (di qualunque specie sarà la vita del primo e/o del secondo – anche la ‘normalità’ non consentendo spesso arieggiature troppo generose).
Tutto ciò pare confermare, appunto, l’importanza del (di un) Nome, che io posso tanto dare e trasmettere quanto prendere e ricevere – del Nome che a volte viene dato e imposto (senza il tempo di accoglierlo o rifiutarlo) e a volte viene invece offerto a scambio di una intesa, di una tacita condivisione (e dunque ricevuto e preso con l’agio di una dimora). Per non dire di quei nomi che tanto lavoro richiedono prima di essere trovati o accolti (e che talvolta neppure hanno né il modo né il tempo di venire a farsi vedere), come quando, ad es., devo ricredermi su questo o quel comportamento mio o altrui e dargli un Nome diverso da quello con cui l’avevo sinallora denominato (scoprire ad es. una ‘miseria’ al posto di una ‘virtù’, o magari, e anche se più di rado, il contrario).
All’intero nostro universo, di umani in cerca di stabilità come di instabilità, il Nome (proprio o non-proprio che sia) offre, nel primo caso, la possibilità di un riparo, erigendosi a simbolo di una identificazione più o meno certa di sé (‘normalità’ vs ‘diversità’, ad es.), ma anche predisponendo, nel secondo caso, la scena di una deriva di fatto interminabile - come accade in tanta letteratura a noi più prossima, in cui al Nome di questo o quello non viene chiesto di ‘definire’ alcunché ma semmai di prestarsi a mettere in scena l’indefinibile come tale (si pensi ad es. a Lo straniero di Camus, dove già questo solo Nome farà sentire per intero, nel corso della narrazione, l’onere della sua incerta e inquietante attribuzione, del suo ‘battesimo’).
Bene. Se a tanto occorre e soccorre il potere del Nome, ovvero la pratica della Nominazione, quanto resta da chiedersi, con risposte che resteranno di certo ben al di là dai limiti di questa Recensione, è se un tale ‘potere’ derivi al Nome da ciò che esso, ‘designa’, ‘significa’, ‘riferisce’, ‘esprime’ (tutti nomi questi, a loro volta, che hanno sensi ben diversi fra loro) ma che nome non è (una sorta di miracolo della transustanziazione, quale incorporamento in un corpo, quello del linguaggio, dell’anima di un altro corpo, quello del referente di esso), ovvero se ciò non derivi esclusivamente dall’autonoma potenza del linguaggio (come ha spesso ritenuto ad es. L. Wittgenstein) di costruire significati, e con ciò di dare senso (un senso possibile) al nostro stare al mondo – un ‘nominalismo’, questo, sia pure rivisitato e corretto, che nella messa al mondo di nomi (propri o non-propri che siano) conoscerebbe una sua versione in aggirabile; di nomi che, allora, deciderebbero da soli su e di quanto ha da essere ritenuto significativo, e dunque sensato.
Poichè, come ci ricorda Montaigne, se pure non sembra essere in nostro potere produrre pidocchi continuiamo imperterriti a fabbricare dèi a dozzine.

PUBBLICATO IL : 27-12-2007

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