Svolgerò in quel che segue qualche osservazione critica suggeritami dalla lettura di un libro che, come emerge dalla prima di tali osservazioni, meriterebbe un’attenzione volta a volta specifica, rivolta ai diversi saggi che lo compongono. Un’attenzione interpretativa che non può essere identica, in quanto riferentesi ai contenuti dei vari saggi, ma dovrebbe articolarsi per mostrarsi realmente efficace. La prima domanda che legittimamente ci si deve porre di fronte a questo libro è se esso, dominato dall’immagine di una “disseminazione” creativa, procedente da un centro concepibile come fonte zampillante di una produzione teoretica, nuova seppur unitaria proprio grazie al riferimento costante alla sua viva origine, sia sufficientemente compatto. Se cioè, quelli che palesemente vorrebbero essere gli oggetti diversamente declinati di una creazione disseminativa guidata dall’intenzione di una interpretazione unitaria (la dialettica hegeliana, la pedagogia, l’estetica, l’economia, la politica, la stessa fenomenologia husserliana), si raccordino e si unifichino in una forma che sia più che soltanto allusiva, più che soltanto letteraria, o immaginativa, o evocativa. Ci si chiede cioè se la disseminazione che viene presa a modello di una fenomenologia che va oltre (nel senso che disloca) e in certa misura stravolge il pensiero del suo fondatore, e che si basa sulla speculazione difficilmente definibile altrimenti che “metafisica” di Anna-Teresa Tymieniecka, sia condizione di unità della ricerca che alla creatività di tale metodo viene attribuita, o se invece, essa sia condizione di una dispersione, valida ed interessante caso per caso, ma letteralmente frantumata, non riconducibile ad unità. E dunque tale da frantumare insieme all’orizzonte unitario che si presume le colleghi, anche la forza produttrice che altresì si vuole sia unitaria e che rappresenta il fondamento trascendentale.
Si comprende bene che, se la risposta alla domanda che poniamo fosse, come ritengo che debba essere, negativa, se cioè si dovesse registrare una grave difficoltà nel tentativo che l’interprete benevolo e interessato compie di comprendere il Leitfaden fenomenologico unitario e unificante che dai “semi” si vuole conduca alla “disseminazione”, risulterebbe messa in discussione la struttura teoretica che esplicitamente e reiteratamente, con molta enfasi, viene presentata quale la vera posta in gioco di un esercizio teoretico radicalmente innovativo. Un contributo serio all’analisi di questo libro dovrebbe dunque svolgersi nel senso della ricerca della possibilità di fornire una prova che l’ispirazione al tempo stesso unitaria (nel metodo) della fenomenologia husserliana, e interminabile ed infinita (nello svolgimento della ricerca), venga tenuta ferma. Ogni sbandamento o oscillazione in una direzione o nell’altra di questo vera e propria struttura formale del pensiero husserliano rischia infatti di fargli correre il doppio rischio di una (probabilmente non voluta) deriva ‘metafisica descrittiva’, da un lato, o di una autopoieticità noetico-noematica (chiamata “ontopoieticità”) sostitutiva dell’autentica nozione di intenzionalità, dall’altro. Le osservazioni di Angela Ales Bello, interessanti ai miei occhi perché sottilmente e silenziosamente espressive di una seria perplessità circa la effettiva sovrapponibilità della due nozioni, vanno in questa direzione. Esse mettono in rilievo uno dei punti interessanti del volume, anche perché vi si avverte (penso soprattutto alle pegine dedicate alle analisi husserliane sulla “sintesi passiva”) la competenza della studiosa che padroneggia i testi husserliani e non accoglie tranquillamente l’ipotesi di una lettura in chiave vagamente romantica (la creatività attribuita alla stessa natura, si direbbe al di qua della riduzione, e la stessa nozione di una imaginatio creatrix) o paragentiliana (atto in atto quale fonte vitale zampillante, spirito, sono categorie che affiorano alla mente del lettore) del pensiero del fondatore.
Non segnala quindi affatto un limite dell’analisi specifica, il rilievo che un legame troppo esile lega il pensiero di Husserl, o anche solo quello che si può definire ‘l’atteggiamento’ fenomenologico, alla riflessioni di Silvia Feretti sulla stessa nozione di “empatia”, che pure è di fonte husserliana, ma che nello Husserl delle Meditazioni cartesiane svolge un ruolo puntuale nella costituzione dell’”alter ego”. Nessun legame viene esibito (certamente non viene esplicitato, se pure in qualche modo è presente) tra l’analisi del tema del “cominciamento” nella logica hegeliana, e del suo svolgimento fenomenologico, e la fenomenologia husserliana, ove pure, come è noto, il tema dell’“inizialità” di ogni autentico filosofare è centrale. Lo stesso sembra doversi dire della riflessione di fonte husserliano-adorniana sugli eccessi del pensiero strumentale nella modernità. Ciò accade, mi pare, perché quel che si intende superare dell’impostazione husserliana (in sostanza il predominio della dimensione teoretica, dell’ego conoscente, uno degli obiettivi ricorrenti di una componente almeno della riflessione critica sulla fenomenologia del fondatore) non viene, o non viene ancora, sostituito da una struttura di pensiero di sufficiente rigorosità, capace, come si è detto, di mantenere saldamente ancorata l’apertura infinita della ricerca a quel principio della soggettività trascendentale, che non sopporta agevolmente di essere trasceso o integrato nella direzione di uno ‘slargamento’ teleologico o teologico, nonostante gli accenni presenti nell’ultimo Husserl. Esso è infatti un principio e i principi non sopportano di essere completati con altro, come se essi fossero comunque carenti. Come se, si vuol dire, si possa procedere nei confronti di un principio (nel caso della fenomenologia husserliana, il principio della soggettività trascendentale costituente) in modo da cercare ciò che in qualche modo lo oltrepassa, lo trascende, lo spinge oltre. L’”oltre”, in Husserl e nella fenomenologia, ospita sempre e comunque l’origine trascendentale, secondo lo schema della riattivazione costante dell’evidenza prima teorizzata nelle pagine dell’Origine della geometria. L’”oltre” è comunque un “presente vivente”.
Per tale ragione, il tema teoretico che suscita interesse nel saggio La fenomenologia come forza ispiratrice dei nostri tempi appare in un certo senso condizionato da uno stile ‘aggiuntivo’, di ampliamento per raddoppiamento, del procedimento fenomenologico, visto come una potenza di pensiero destina alla conquista di sempre ulteriori spazi vitali. Si tratta di un punto interessante, proprio perchè attrae l’attenzione critica di chi, meno attratto dalla nozione di “vita”, abbia invece di mira la riconduzione dell’impresa fenomenologia verso il ribadimento della nozione trascendentale di “condizioni di possibilità” dei fenomeni, ed entro tale quadro miri al mantenimento del rapporto con la tradizione kantiana e alla determinazione rigorosamente non empirica, e non metafisica, della descrittività fenomenologica. Una traccia a parere di chi scrive evidente di uno stile fenomenologico ‘aggiuntivo’ è visibile nell’insistenza di Anna-Teresa Tymieniecka sul procedimento per “concatenazione di momenti costitutivi”, considerato necessario alla scoperta di una realtà gerarchicamente stratificata, che induce al passaggio da un frammento di investigazione intenzionale al suo “frammento adiacente” (p. 38). All’immagine, preferita da chi scrive, di un procedimento fenomenologico di tipo intensivo, si sostituisce l’immagine di un procedimento estensivo dalla caratteristica implicitamente spaziale. In base a quest’ultimo, la tesi più volte ribadita che “l’interrogazione intenzionale, o interrogazione sulle leggi intenzionali di costituzione, è un fenomeno duale ‘oggettivo/soggettivo (noematico-noetico), una corrente dinamica duale” (ibidem), segnala una tendenza all’interpretazione dell’apriori universale della “correlazione” che rischia di infrangerne il legame intenzionale nel parallelismo di una “linea oggettivante” e di una seconda “linea oggettivante”, che si affiancano l’una all’altra, si aggiungono, s’intrecciano, si completano fino a ‘coprire’ la totalità del reale.
Il procedimento fenomenologico si presenta dunque come “una coppia di macchine sincronizzate”, della quale con qualche difficoltà si tenta di ribadire l’appartenenza ad un “sistema costruttivo intenzionale unificato dal logos della manifestazione dell’oggettività”. Si è appena detto, infatti, che l’oggettività è una delle due linee intenzionali. Non le si può dunque attribuire al tempo stesso il ruolo di polo di una dualità e di unificazione di quest’ultima. E’ forse superfluo sottolineare che la questione che viene sollevata è di importanza cruciale e che discuterne in base alle tesi sostenute nel saggio ‘fondativo’ del libro rappresenta un’occasione positiva di approfondimento. Tale questione, che chi scrive considera meritevole di essere interminabilmente ripresa, e che rinvia alla fisionomia trascendentale della fenomenologia husserliana, capace in quanto tale di risolvere l’“enigma della conoscenza”, ruota intorno alla difficoltà di rendere coerente una teoria fenomenologica dell’oggetto e dell’oggettività, sul fondamento dell’universale apriorico e soggettivo della correlazione.
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