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Elisabeth Roudinesco, Philosophes dans la tourmente , Fayard, 2005.
di Cristiana Fanelli

“Viviamo in un’epoca molto strana”: è con questa frase che Elisabeth Roudinesco apre il libro Philosophes dans la tourmente (Paris, Fayard, 2005). È un’epoca – dice - che non smette di commemorare i grandi eventi, i grandi uomini, i grandi pensieri, le grandi virtù, ma che, nello stesso tempo, ne propone un inventario generalizzato, quasi fossero da accantonare. Freud, Marx e Nietzsche sono dichiarati morti; femminismo, socialismo e psicanalisi violentemente ricusati. Si è imposta l’etica dei “piccoli revisionismi ordinari”.

Quanto alla filosofia: «più il suo insegnamento è minacciato, giudicato inutile, superato, troppo greco o troppo tedesco, impossibile da valutare o da racchiudere nelle categorie dello scientismo – in breve, troppo sovversivo -, tanto più si sviluppa la domanda di filosofare o d’imparare a pensare da sé [1] ». Nello stesso tempo si moltiplicano domande e risposte che sono, ovunque e in modo preoccupante, sempre le stesse: «Classificare, disporre, calcolare, misurare, valutare, normalizzare. È tale il grado zero degli interrogativi contemporanei, che non cessano d’imporsi in nome di una modernità da mascherata che rende sospetta ogni forma d’intelligenza critica fondata sull’analisi della complessità delle cose e degli uomini. Mai la sessualità è stata così libera e mai la scienza ha così progredito nell’esplorazione del corpo e del cervello. E tuttavia, mai la sofferenza psichica è stata così viva: solitudine, assunzione di psicotropi, noia, fatica, diete, obesità, medicalizzazione di ogni momento della vita [2] ».

Nasce da qui – nonché da una palpabile nostalgia verso “padri” e “amici” perduti – l’omaggio a quei filosofi francesi che si sono confrontati in modo critico con l’impegno politico e con la concezione freudiana dell’inconscio: l’auspicio della Roudinesco è che ogni filosofo ponga il luogo delle proprie parole al margine del senso e delle tendenze comuni perché soltanto da lì la parola può ritrovare incisività. Completa il quadro Jacques Lacan, lo psicanalista che Roudinesco fa dialogare con ciascuno dei suoi filosofi.

«Il tempo è venuto di dire addio ai morti, a quei filosofi della ribellione così differenti gli uni dagli altri che non hanno smesso di disputare o di amarsi, ma di cui – che lo vogliamo o no – siamo gli eredi [3] ». Sia in italiano sia in francese, il termine addio (fr. adieu) ha il merito di far risuonare l’invocazione A Dio (fr. à Dieu). Questa spia linguistica svela che il luogo dei congedi è lo stesso in cui si trasmette un’eredità. In questa strana epoca la novità sarebbe forse di riconoscere ed accogliere l’eredità intellettuale dei padri – facendo i conti anche con i più rinnegati? La strada più inusuale sarebbe forse quella di far tesoro delle loro parole anziché obliarle in archivi polverosi? Ripercorriamo allora l’affresco di un’epoca che fa di noi tutti, volenti o nolenti, degli eredi.

Sartre: la psicanalisi sulle rive ombrose del Danubio. Jean-Paul Sartre ha fotografato la vigilia della Seconda Guerra Mondiale con il termine nausea: la nausea, dirà, è un “disgusto” verso l’esistenza incapace di tradursi in azione. Come il protagonista del suo romanzo, anche Sartre è stato incapace di azioni reali. Ne diverrà capace soltanto dopo l’esperienza della prigionia quando, tornato a Parigi, sente che è impossibile restare neutrale. Fonda allora il gruppo Socialismo e libertà, attraverso cui comincia a riflettere sulla dialettica libertà-servitù: «Poiché il segreto di un uomo – dice in questi anni – non è il suo complesso di Edipo o il suo complesso d’inferiorità, ma è il limite stesso della sua libertà, è il suo potere di resistenza ai supplizi e alla morte [4] ». Mette così in relazione l’atto di resistenza con la messa a nudo radicale della condizione umana: «È a partire da essa – dopo l’esilio, la crudeltà, la tortura, l’insostenibile – che ogni soggetto può confrontarsi ad un universale della libertà che non richiede alcuna spiegazione psicologica [5] ». Questa riflessione sulla libertà porta Sartre verso una filosofia dell’engagement. Per aver trovato le parole (nausea e libertà) capaci di dire ciò di cui tutti facevano esperienza, proprio lui che era rimasto ai margini dell’azione sarà considerato un pioniere della Resistenza antinazista.

Nel 1943 appare L’Essere e il Nulla, l’opera in cui Sartre dimostra di conoscere a fondo la psicanalisi freudiana. Commentando la topica dell’inconscio, sostiene che “l’inconscio” è un concetto inutile per pensare l’intenzionalità segreta che regge ogni esperienza umana. Perciò opera una “torsione dottrinale” della nozione d’inconscio per dimostrare che tutti processi mentali (anche quelli che in apparenza sfuggono alla coscienza) fanno parte del dominio della coscienza: «Poiché Sartre faceva della coscienza un’intenzionalità e dell’uomo un progetto la cui esistenza precede l’essenza, gli era possibile sostituire al sistema topico, fondato sulla prevalenza dell’inconscio, un sistema trascendentale suscettibile di rinviare il fenomeno dell’inconscio a quello di una coscienza latente [6] ». In tal modo, egli ha di fatto introdotto una psicanalisi “esistenziale” ed è stato il primo teorico francese a proporre una lettura husserliana dell’inconscio freudiano. Secondo Michel Foucault in Francia si erano imposte due interpretazioni della fenomenologia husserliana: una che con Sartre e Merleau-Ponty puntava ad una filosofia del soggetto; l’altra che con Koyré, Canguilhem e Cavaillès optava per una filosofia del concetto e del sapere. Tra queste due correnti va situata la rilettura dell’inconscio proposta da Jacques Lacan.

Con la fine della Seconda guerra mondiale, Sartre matura una posizione frudiano-marxista: «Nel senso che tentava di collegare le due dottrine dell’emancipazione – cambiare il soggetto, cambiare la società – per interpretare la significazione storico-soggettiva dei destini umani [7] ». Combinando i due tipi di analisi egli dimostra che l’ambiente sociale e le esperienze infantili incidono sulla strutturazione della soggettività – compresi quanti un giorno andranno al potere.

Negli stessi anni cambia la cartografia del movimento psicanalitico internazionale. In virtù di una poderosa ondata di emigrazione, la psicanalisi freudiana si espande negli Stati Uniti dove promuove un ideale igienista estraneo all’impostazione freudiana. Al contrario, in Unione Sovietica la psicanalisi diviene oggetto di un violento attacco: l’anti-freudismo sovietico degli anni Cinquanta è sinonimo di anti-americanismo, la psicanalisi è giudicata “un’ideologia reazionaria al servizio dell’imperialismo americano”. L’anti-freudismo comunista viene inasprito dalla cattiva abitudine del movimento psichiatrico-psicanalitico internazionale a proporre continue letture psicologica dei fenomeni politici (l’isteria di Hitler, la paranoia di Stalin).

Sullo sfondo di questa contrapposizione, la posizione di Sartre introduce qualcosa di originale. Nel 1957, in Questions de méthode, legge per la seconda volta l’opera di Freud fondando una sorta di “psicanalisi esistenziale: «Questa psicanalisi esistenziale sarebbe allora centrata non sul lapsus, le nevrosi e i sogni, ma sugli atti riusciti, lo stile e il pensiero. In breve, Sartre ha immaginato una possibile psicanalisi della coscienza dell’io, di cui lui sarebbe il padre fondatore [8] ». L’ambizione sarebbe di fondare una psicanalisi senza inconscio capace di cogliere l’uomo nella totalità cosciente della sua storia. È il regista John Huston che, nel 1958, permette a Sartre di verificare la tenuta del suo sistema.

Con un ampio excursus, la Roudinesco rende omaggio a quel cinema hollywoodiano (Elia Kazan, Charlie Chaplin) che cerca di preservare lo spirito della scoperta freudiana che veniva invece tradito dalla comunità psicanalitica americana. Sia i membri dell’IPA sia i cineasti americani erano immigranti provenienti dalla vecchia Europa, ma l’esilio aveva prodotto effetti molto diversi: «Mentre i terapeuti avevano scelto di integrarsi con il sistema di salute degli Stati-Uniti (che gli obbligava a seguire una carriera medica e a divenire servitori di un ideale igienista), i cineasti si erano impossessati della dottrina freudiana per trasformarla in un potente strumento critico degli ideali dell’American Way of Live. Così il freudismo veniva strumentalizzato sia per servire gli interessi di un ideale di società, sia al contrario per criticarne le derive adattive o per riannodare i rapporti con l’ampio respiro di una psicanalisi europea [9] ». Fedele a questo ideale contestatario e nostalgico, John Huston decide di realizzare una biografia su Freud che facesse rivivere il momento originario, e più originale, della sua scoperta. Perciò si rivolse a Sartre. Entrambi volevano cogliere quel momento iniziale in cui Freud aveva creato una nuova scienza. Almeno due gli atti fondativi: innanzitutto quello di riconoscere l’eziologia sessuale dell’isteria facendone una nevrosi anziché una malattia funzionale; in secondo luogo, il passaggio dalla teoria del trauma sessuale al fantasma: «Ascoltando le isteriche, Freud urta un punto d’impossibile: non tutti i padri sono dei violenti e tuttavia le isteriche non mentono dicendo di essere vittime della loro seduzione sessuale [10] ». Le cause sessuali sono così rilette: «esse sono fantasmatiche, anche quando esiste un traumatismo materiale, poiché il reale del fantasma non è della stessa natura della realtà materiale [11] ». Sartre - che ha fatto di alcuni Café sulla Rive gauche di Parigi il luogo d’incontri e riflessioni - voleva ambientare tra un bordello e le rive del Danubio la scena in cui Freud passa dalla teoria della seduzione a quella del fantasma.

Ironia della sorte, proprio il filosofo che aveva cercato di negare l’esistenza dell’inconscio si trova confrontato all’inventore della psicanalisi scoprendo: «nell’altro, e contro l’altro, ciò che si è in se stessi [12] ». Sartre crea un Freud dai caratteri faustiani ed attribuisce a Fliess i tratti di un Mefistofele manniano. In questo poderoso affresco di fine Ottocento, il filosofo riserva un posto privilegiato alle donne: madri, spose, ma soprattutto le isteriche che per Sartre rappresentano il dolore, l’infelicità che affligge la condizione femminile di fine secolo: «Carne accerchiata di vergogna, parola fatta a brandelli dall’angoscia, viso ridotto all’enunciato di un urlo, movimenti incomprensibili, agitazioni frequenti, paralisi, sordità: sono queste le devastazioni iscritte sui corpi delle donne dall’interdetto del godimento. Ma l’isterica di Sartre diviene un soggetto libero, tanto la sua alienazione esibisce la follia del mondo raccolta nella solitudine di una follia singolare [13] ». Queste donne sono simboli di una rivolta che si manifesta altrove, su un’altra scena: sul corpo. Sartre avrebbe voluto che Marilyn Monroe interpretasse il ruolo di Anna O – con il nome di Cecily – e Montgomery Clift quello di Freud. Marilyn però rifiutò per volontà della sua psicanalista, Marianne Kris, a sua volta consigliata da Anna Freud. Proprio la vicenda biografica di Marilyn, suggerisce la Roudinesco, avrebbe dovuto ispirare un film sulla psicanalisi post-freudiana che, negli anni Cinquanta, era ormai asservita ad una psicologia della normalizzazione e che consumò sull’attrice uno dei suoi peggiori atti.

Se il progetto di filmare Scénario Freud naufragò anche a causa del disaccordo con Huston, Scénario ha comunque fatto da spartiacque: da un lato ha spinto Sartre a superare alcune posizioni enunciate nell’Essere e il Nulla; dall’altro, ha condotto Sartre verso un anti-freudismo ancor più radicale.

Nel 1963 Sartre afferma che solo un approccio esistenziale alle malattie mentali può umanizzare la psichiatria. Nel 1966 dapprima adotta la formula lacaniana secondo cui “l’inconscio è il discorso dell’Altro” (stravolgendone però il senso che le dava Lacan), poi accusa Foucault Althusser e lo stesso Lacan di aver rigettato la storia in nome della “struttura” e l’uomo in nome del “decentramento soggettivo”. Ma, suggerisce la Roudinesco, “non è certo che Sartre possa esistere senza Lacan” – benché non abbiano avuto in vita nulla da dirsi, né sull’inconscio né sulla rivoluzione. Dopo aver entrambi attraversato il tormento della guerra, sognando una libertà per la quale non avevano combattuto, questi due “maestri della libertà” mescolarono l’adesione ad una dottrina con uno spirito di dissidenza che ne fece dei punti di riferimento per le generazioni del 1968.

Michel Foucault: letture della Storia della follia. In La storia della follia Michel Foucault smascherava tutti gli ideali su cui poggiava il sapere psichiatrico, psicologico e quello degli storici della psicopatologia. Perciò alla pubblicazione dell’opera seguì un dibattito infuocato e a tratti diffamante. L’unica voce fuori dal coro fu quella di Jacques Lacan che, sin dai tempi della sua Tesi (Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità – 1932), proponeva di lavorare sulle parole del folle, non su un deficit organico, per risalire alla causa della follia. Anche per Foucault la follia non era un fatto di natura, ma di cultura. Per questo volle scrivere una storia delle culture e scoprire a cosa nei secoli si fosse dato nome follia. Foucault passò al vaglio i nomi sacri della psichiatria francese (come Philippe Pinel ed Étienne Esquirol) e sconvolse l’impostazione psichiatrica classica. Il suo approccio convergeva invece con i movimenti dell’anti-psichiatria che attecchivano soprattutto in Inghilterra, California e Italia. Ma se questi psichiatri parlavano sulla base della loro esperienza clinica, Foucault parlava da teorico: le sue fonti erano Bataille, Nietzsche e le parole di folli, criminali ed assassini. Nell’insieme, attingeva ad un archivio trasgressivo, infame, allucinato e che in molti avrebbero preferito dimenticare. Considerando la follia come un fenomeno di cultura i cui confini si modificano nel tempo, Foucault faceva dell’istituzione medico-psichiatrica niente più che una delle forme storiche assunte dal rapporto della follia con la ragione. In particolare, diceva che solo a partire dall’Ottocento i medici erano stati incaricati di distinguere follia e normalità, sorvegliandone la frontiera.

La Roudinesco ricostruisce il dibattito seguito alla pubblicazione del libro, un dibattito ricco di interpretazioni sulla follia, sul corpo, sul sesso, sul desiderio e sul potere. La Roudinesco ricostruisce con cura la posizione di Gladys Swain e la discussione che Derrida ingaggiò con Foucault.

“La storia della follia – scrisse Foucault - sarebbe la storia dell’Altro, di ciò che per una cultura è insieme interno ed esterno, dunque da escludere (per scongiurarne il pericolo interiore) ma rinchiudendolo (per ridurne l’alterità)”. In questa prospettiva, dice Roudinesco: «Foucault accordava uno statuto privilegiato alla psicanalisi, alla linguistica e all’etnologia: esse dissolvono – diceva – la nozione di uomo senza pretendere di ricostruire l’uomo come una positività osservabile [14] ». Georges Canguilhem comprese immediatamente che l’opera di Foucault aveva valore di radicale revisione della maniera psichiatrica di pensare la follia. Anche per questo volle prendere le difese di Foucault contro Sartre per esempio: «L’omaggio reso al filosofo dei sentieri della notte dall’anziano resistente divenuto il grande maestro francese della storia delle scienze significava che la passione per i concetti nella quale Foucault si era ingaggiato era una delle maniere più feconde di ridare alla generazione intellettuale degli anni Sessanta il gusto di un eroismo del pensiero [15] ».

Louis Althusser: la scena del crimine – intitola la Roudinesco. «Alfred Hitchcock girava le scene del crimine come fossero scene d’amore e le scene d’amore come fossero scene del crimine[16] ». I suoi eroi – indipendentemente dal ruolo - sono preda di una logica del passaggio all’atto che li rende estranei a se stessi e spogli di ogni consistenza psicologica. E proprio ad una narrazione hitchcockiana la Roudinesco paragona l’autobiografia di Althusser L’avenir dure longtemps (Paris, Stock/IMEC, 1992). Anche la vita di Althusser, infatti, è stata marcata da un atto unico e determinante: l’uccisione della sua donna. Una donna - dice chi l’ha conosciuta - a metà tra la madre del filosofo e Madre Teresa di Calcutta; una mistica del comunismo la cui infanzia era stata devastata da crimini e violenze sommarie. L’atto avvenne all’alba del 17 novembre 1980, negli appartamenti dell’ENS, in rue dell’Ulm. Esso seguì a giorni di forti disagi fisici legati ad un intervento chirurgico, sofferenze che avevano provocato in Althusser un delirio profondo. Dirà: «Condannato a morte e minacciato di esecuzione, non avevo che una risorsa: precedere la morte inflitta uccidendomi preventivamente. Volevo non solo distruggermi fisicamente, ma distruggere ogni traccia del mio passaggio sulla terra: distruggere sino all’ultimo dei miei libri e ogni mia nota e anche bruciare la Scuola e anche, se possibile, sopprimere, tanto che c’ero, la stessa Hélène [17] ». Ancora, dice di se stesso “Je masse en V.” e definisce “étranglée” il viso della donna che si è abbandonata volentieri alla morte, senza resistere. Althusser racconterà che la stessa Hélène gli aveva chiesto di ucciderla e che a lungo (longtemps) aveva fremuto con tutto il suo essere al pensiero di queste parole.

La legge francese ha applicato per lui l’articolo 64 che, riconoscendo la non-responsabilità di ogni indagato riconosciuto folle, lo ha privato del diritto di parola. L’equazione era la seguente: non-responsabilità di un atto; non-luogo a procedere, perché l’atto è considerato nullo da un punto di vista giuridico; non-soggetto di diritto, di parola ovvero – secondo le parole di Althusser – “scomparso”. Tanto più Althusser perdeva il diritto di dire, tanto più attorno a sé il diritto di dire qualsiasi cosa parve illimitato. La Roudinesco ricostruisce la carrellata delle cronache, delle interpretazioni, delle analisi e dei giudizi sommari che hanno animato giornalisti, storici, politici, moralisti, filosofi, scrittori, psichiatri e psicanalisti. Tra le ipotesi più fantasiose, quella che assimilava il crimine di Althusser a quello perpetrato dai comunisti in tutti i paesi del mondo. Come se di questo fosse l’emblema e l’anticipazione.

Ma Althusser volle riprendere la parola e raccontare la propria vita a partire da questo atto criminale. Nei dieci anni intercorsi tra il crimine e la scrittura dell’autobiografia, si è votato ad un esilio in terra che valse come ammissione di colpa, assunzione di responsabilità e pena. Un esilio che ne ha fatto un sepolto vivo. Finché fu in vita, non volle affidare il libro ad un editore: «preferiva soggiornare nel regno dei morti piuttosto che riapparire in quello dei vivi» (p. 205). Preferì che il libro “di una storia singolare votata al disastro” uscisse post-mortem: in tal modo, egli ha voluto far strazio anche della sua memoria, offrendola in pasto a qualsiasi giudizio e soprattutto rischiando di cancellare la memoria dell’Althusser filosofo del marxismo e del comunismo in Francia. Ponendosi nella posizione che ha sempre voluto occupare – nota Roudinesco – quella di “padre del padre” (p. 230), egli ha pronunziato quella condanna per omicidio a cui la legge lo aveva sottratto ed ha così – secondo le parole di Derrida - realizzato l’omicidio di se stesso. Essere “padre del padre” è stato, secondo le stesse parole di Althusser, il suo modo d’instaurare il padre che gli è sempre mancato.

La Roudinesco avanza l’ipotesi che il titolo scelto per l’autobiografia ponesse l’opera sotto il segno del “tempo eterno” o “della lunga durata della morte”: il tempo di un lutto mai compiuto, il tempo della malinconia.

Gilles Deleuze: variazioni anti-edipiche. Nel 1969 Michel Foucault ha detto che forse, un giorno, il secolo sarebbe stato deleuziano. Che un giorno: «Gilles Deleuze avrebbe avuto il privilegio non di entrare nel Panthéon o di avere una posterità, ma di essere portatore di un rinnovamento della filosofia che farà di lui il più grande dei moderni [18] ». Jacques Derrida ha dichiarato che, malgrado le differenze, era Deleuze il filosofo a lui più prossimo in quella generazione [19]. E come Derrida e Foucault, Gilles Deleuze è stato tra i filosofi più detestati dalla sua epoca, accusato di corrompere le coscienze giovanili e persino di essere antisemita. La Roudinesco ne ricorda il severo piglio critico, la carica corrosiva, anticonformista: «Disturbava i suoi interlocutori e i suoi lettori con un’attitudine paradossale che sembrava sempre andare contro corrente al discorso razionale. Deleuze era il filosofo degli estremi e del ridere, del grottesco e del sublime, del sogno e del desiderio. Era animato da una sorta di passione incandescente per il genio creatore che lo rendeva sensibile alle manifestazioni più utopiche ma anche più sottili dell’arte, della poesia, della letteratura [20] ».

Netta la posizione di Deleuze contro il potere medico istituzionale e contro la sua invadenza nella sfera soggettiva. Ha accusato il potere psichiatrico di fabbricare in ospedale “malati di mente”, spossessandoli attraverso prescrizioni farmacologiche insensate ed eccessive della loro più autentica follia. Soprattutto si è opposto ad ogni forma di medicalizzazione dell’esistenza fino al punto di non condannare l’assunzione di droghe (esortava però a riconoscerne il limite: bisognava interromperne l’uso quando il soggetto si trasformava in un “imbecille incapace di lavorare”). Queste posizioni radicali hanno fatto passare Deleuze per un cultore di godimenti illimitati e devastatori. Al contrario lui sosteneva la necessità del conflitto e della ricerca di quanto è più conflittuale in sé e negli altri: «Egli non giudicava, non normalizzava. Ciò che gli interessava nell’amore, nell’amicizia e nell’insegnamento era di cogliere la parte d’ombra e di eterogeneità propria ad ogni individualità, la sua parte di hubris. Deleuze pensava che solo l’esercizio della spersonalizzazione, detto altrimenti l’apertura alla molteplicità, permette a ciascuno di parlare a suo nome. A questo titolo, egli s’iscriveva in una tradizione insieme spinoziana e perfettamente etica, rispettando al più alto grado la sofferenza di tutte le minoranze: folli, clochards, emarginati, omosessuali [21] ». Ogni uomo – sosteneva – ha diritto di scegliere il proprio destino, anche a costo di rischiare la vita.

Questo grande filosofo dell’intempestivo e del decentramento di ogni ordine simbolico fu anti-psicanalitico, ma soprattutto critico verso cognitivismo e psicologia cerebrale da lui considerate “discipline barbare”. Sosteneva ad esempio che il desiderio è un lavoro dell’inconscio solo che non concepiva l’inconscio come un teatro o un’Altra scena, ma come la combinazione di territori animalisti e musicali. Deleuze ha ripensato la storia delle società umane a partire dal principio secondo cui il capitalismo, la tirannia e il dispotismo troverebbero i loro limiti nelle “macchine desideranti” di una schizofrenia riuscita, vale a dire sbarazzata di ogni ascendente del discorso psichiatrico: una follia disalienata, allo stato libero. Qui si è incuneata la critica alla psicanalisi e ad ogni psicologizzazione dell’esistenza: «All’imperialismo del significante unico, come all’Edipo totalizzante, Deleuze opponeva una schizo-analisi fondata su una psichiatria detta materialista e d’ispirazione marxista [22] ».

Tra il 1969 e il 1972 a Vincennes, la Roudinesco è stata tra gli allievi sbalorditi di un filosofo che, giorno dopo giorno, ha “inventato” con Félix Guattari la sua opera più iconoclasta: L’Anti-Edipo. Opera che ha scosso il conformismo psicanalitico con una ventata di piacere, di rivolta e libertà. “Siate la pantera rosa – dicevano i due autori – e che i vostri amori siano ancora come la vespa e l’orchidea, il gatto e il babbuino”.

Guattari era mosso dal desiderio di risolvere il problema della natura della follia: era una malattia mentale o una rivolta singolare che mira a capovolgere l’ordine stabilito? A differenza di Deleuze, Guattari era vicino tanto ai movimenti anti-psichiatrici italiani ed inglesi, quanto al movimento lacaniano. Ad ogni modo, il “matrimonio” tra il nuovo Socrate sedentario e nietzschiano che possedeva un’ammirabile padronanza della lingua e del pensiero e colui che abitava simultaneamente più luoghi, essi stessi multipli, si rivelò ricco di conseguenze. Ne nacque un’opera: «che opponeva all’imperialismo dell’Uno – vale a dire della struttura o dell’ordine simbolico – un’essenza meccanica e plurale del desiderio, una “fabbrica a pulsioni e a fantasmi”, la sola capace di sovvertire gli ideali di una sovranità edipica e patriarcale [23] ».

Ogni animale umano – diceva Deleuze – deve confrontarsi con ciò che lo eccede, con i suoi desideri più estremi, vale a dire con il Molteplice e con il clamore dell’essere, pena di sprofondare in una nuova forma di servitù: il neo-fascismo invisibile dell’Uno, sempre all’opera nelle società apparentemente più democratiche. In tal senso la Roudinesco invita a rileggere la frase di Foucault. Dire che il secolo sarebbe stato un giorno deleuziano significa dire che forse un giorno il mondo avrebbe preso la forma dell’incubo immaginato da Deleuze: «l’attuazione di un fascismo ordinario, non il fascismo storico di Mussolini o Hitler, ma il fascismo che è in noi tutti, il fascismo che ci fa amare il potere, desiderare questa stessa cosa che ci domina e ci gestisce [24] ».

Jacques Derrida: l’istante della morte. Roudinesco chiude con un omaggio all’amico di oltre vent’anni, il filosofo della decostruzione che è stato l’ultimo a morire di questa generazione. Ironia della sorte, è stato proprio Jacques Derrida che ha dovuto dire addio a tutti e, così, raccogliere e trasmettere un’eredità. Nel libro Chaque fois unique, la fin du monde (Paris, Galilée, 2003), egli ha detto addio tra gli altri a Roland Barthes, Michel Foucault, Louis Althusser, Edmond Jabès, Gilles Deleuze, Emmanuel Lévinas, Jean-François Lyotard, Maurice Blanchot. Completano il mosaico, altri due addii: quello al filosofo dell’ermeneutica Hans-Georg Gadamer in Béliers. Le dialogue ininterrompu entre deux infinis, le poème (Paris, Galilée, 2003) e quello allo psicanalista Jacques Lacan in Pour l’amour de Lacan (in Résistances de la psychanalyse, Paris, Galilée, 1996). Quest’ultimo addio ci sorprende perché, nota Roudinesco, Derrida non era stato amico di Lacan. Eppure: «Derrida aveva integrato Lacan alla lista dei suoi morti, alla lista di coloro di cui aveva voluto celebrare la morte: “C’era la morte tra noi, fu soprattutto questione di morte – scrive Derrida nel 1990 – direi persino solamente della morte di uno di noi, come con e in tutti coloro che si amano. Anzi ne parlava lui solo, poiché io non ho mai proferito parola. Lui parlava, solo lui, della sua morte - che non avrebbe mancato di arrivare - e della morte, o piuttosto del morto di cui, secondo lui, io godevo” [25] ». Derrida ha voluto trasmetterci la scena fondamentale della sua relazione privata con Lacan. È una scena in cui Lacan “trasmette” a Derrida qualcosa di essenziale, vale a dire che ogni rapporto di filiazione simbolica (un altro nome per “eredità” e “trasmissione”) si sostiene su un padre morto – una funzione che introduce al desiderio e dà accesso ad un godimento non incestuoso.

Su questa scia, Roudinesco dedica a Derrida la trilogia in cui Alexandre Dumas racconta dell’amicizia tra Athos, Portos, Aramis e d’Artagnan: «I moschettieri sono uniti dai legami esclusivi di un’amicizia che interdice a ciascuno di loro di essere marito, amante, padre [26] ». Anche tra loro era questione di morte: chi avrebbe assistito alla morte degli altri? D’Artagnan, che morirà per terzo, al momento di morire pronuncia parole ermetiche: “Athos, Porthos arrivederci – Aramis, a mai più, addio”. Stupefacente inversione della logica degli addii, nota Roudinesco. Dice arrivederci agli amici morti, mentre dice addio all’amico che non muore, all’amico che è condannato a vivere sapendo che tutti i suoi amici sono già morti e che, perciò, nessuno gli dirà addio: che nessun amico raccoglierà la sua eredità.

1 E. ROUDINESCO, Philosophes dans la tourmente. Paris, Fayard, 2005, p. 10.

2 Ibid., p. 12.

3 Ibid., p. 253.

4 J.-P. SARTRE, “La République du silence”, Situations III, Paris, Gallimard, 1949, p. 11.

5 E. ROUDINESCO, Philosophes dans la tourmente. Paris, Fayard, 2005, p. 75.

6 Ibid., p. 80.

7 Ibid., p. 82.

8 Ibid., pp. 85-86.

9 Ibid., p. 89.

10 Ibid., p. 97.

11 Ibid., p. 98.

12 Ibid., p. 99.

13 Ibid., p. 103.

14 Ibid., p. 176.

15 Ibid., p. 177.

16 Ibid., p. 179.

17 Ibid., p. 208.

18 Ibid., p. 237.

19 Cfr. J. DERRIDA Chaque fois unique, la fin du monde. Paris, Galilée, 2003.

20 E. ROUDINESCO, Philosophes dans la tourmente. Paris, Fayard, 2005, pp. 239-240.

21 Ibid., p. 243.

22 Ibid., p. 250.

23 Ibid., p. 248.

24 Ibid., p. 252.

25 Ibid., pp. 264-265.

26 Ibid., p. 270.

PUBBLICATO IL : 18-02-2008

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