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Post filosofie, Riconoscimento, dialettica e fenomenologia. A duecent’anni dalla Fenomenologia dello spirito di Hegel , Cacucci editore, 2008.
di Lucia Ziglioli

Il quarto numero della rivista Post filosofie, qui presentato, è dedicato, in occasione del duecentesimo anniversario della pubblicazione della Fenomenologia dello spirito di Hegel, a questa grande opera filosofica. La scelta della prospettiva dalla quale guardare, ad oltre due secoli, al complesso scritto hegeliano è caduta, in continuità con la tradizione della rivista, sul tema del “riconoscimento”. L’obiettivo dichiarato è, una volta definita la concezione hegeliana di riconoscimento, quello di sollecitare il testo hegeliano a rispondere alle difficoltà che il tema del riconoscimento inevitabilmente pone. I primi cinque saggi sono volti così a ricostruire la natura del “riconoscimento” all’interno del percorso fenomenologico. I quattro saggi successivi sono invece investigazioni che prendono spunto dalla questione del riconoscimento, o in generale dalla Fenomenologia dello spirito hegeliana, per muoversi in diverse direzioni della storia (dal passato ai giorni nostri), e anche dello spazio geografico (dal dibattito americano a quello mondiale), della pratica filosofica.

Il primo contributo è di Christian Iber, Autocoscienza e riconoscimento nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. In questo saggio Iber cerca di ricostruire attraverso il percorso fenomenologico i concetti di “autocoscienza” e di “riconoscimento”. È importante il primo rilievo di Iber: l’autocoscienza, per quanto apparentemente derivata dalla coscienza, è in realtà presupposta da essa, «non vi è coscienza senza autocoscienza» (p. 11). Ciò che avviene nel passaggio da coscienza ad autocoscienza è la presa di consapevolezza di quell’autoreferenzialità dell’Io da sempre presente, ma non saputa, nella coscienza. Con la relazione intersoggettiva propria del rapporto tra autocoscienze si ristabilisce quella relazione di soggetto-oggetto propria della coscienza, solo che ora non è una relazione di contrapposizione, ma di reciproco riconoscimento. Nel concetto di riconoscimento Hegel riunisce l’autoreferenzialità e la presa di distanza da un’alterità: «per Hegel, il riconoscimento è una sintesi di attrazione e di distanziamento. Esso non è possibile né come ritrovamento-di-sé, privo di sé, nell’altro attraverso l’incorporazione, né come delimitazione, irrigidentesi su se stessi, contro l’altro, ma solo per mezzo dell’attraversamento di entrambe le fasi» (p. 16). La concezione hegeliana di riconoscimento si distingue da quella di Fichte per il fatto che  il riconoscimento non è solamente reciproco, ma anche riflessivo: ossia ogni autocoscienza, nel riconoscere l’altra, diviene consapevole di sé come universale. Ovviamente questa è la meta del percorso fenomenologico che si sviluppa attraverso forme deficitarie del rapporto di riconoscimento: come, fra le più rilevanti, il rapporto tra signoria e servitù, lo stoicismo, lo scetticismo, la coscienza infelice, e ancora i rapporti intersoggettivi all’interno dello Stato. È solo nell’ambito della moralità che le autocoscienze realizzeranno il loro reciproco riconoscimento; la tesi di Iber è quindi che il concetto del pieno e perfetto riconoscimento che si ha al termine del cammino dello spirito, sia «solo la forma che compensa quel resto deficitario della struttura del riconoscimento dello Spirito oggettivo che astrae dalla concreta singolarità dei soggetti» (p. 28).

Nel secondo saggio, Riconoscimento, lotta, dominio: il modello hegeliano, Emmanuel Renault indaga l’applicazione sociale e politica del concetto di riconoscimento. La tesi di Renault è che tramite il rapporto di riconoscimento l’autocoscienza innalza la certezza della sua libertà a verità. Il riconoscimento è quindi un obiettivo che deve essere raggiunto attraverso un processo di sviluppo epistemico (il ri-conoscere l’altro) e pratico (il valutare l’altro) allo stesso tempo. Rispetto al momento epistemico Renault segnala una questione che ha diviso gli interpreti: qual è il fondamento delle aspettative verso il riconoscimento? La proposta di Honneth, di fondare le aspettative di riconoscimento sulla struttura intersoggettiva dell’identità, sembra a Renault in grado di prendere sul serio l’elemento conflittuale del processo riconoscitivo: senza l’esperienza negativa della lotta, l’autocoscienza non metterebbe in discussione il valore assoluto della propria libertà. Rilevante è poi la costatazione che Hegel preferisca l’uso dell’espressione di «lotte di riconoscimento» (Kämpfe des Anerkennens, letteralmente «lotte del riconoscere») rispetto a quella di «lotte per il riconoscimento» (Kampf um  Anerkennung); ad indicare, secondo Renault, il prevalere dell’aspetto agonistico su quello conciliativo. Accanto a questo forte elemento distruttivo del diniego del riconoscimento che guida l’autocoscienza ad «una presa di coscienza dell’assoluta negatività della libertà» (p. 44), deve esserci però anche un momento positivo che, attraverso il lavoro, le relazioni di dominio e le istituzioni, renda effettiva la libertà delle autocoscienze. La conclusione di Renault è che a partire da questi fondamenti epistemologici del concetto di riconoscimento, ne derivino importanti conseguenze normative, quale la «produzione delle condizioni materiali e istituzionali che rendono possibile una libertà collettiva dove il mutuo riconoscimento può accedere a un contenuto autentico» (p. 45).  

Il concetto di riconoscimento è indagato da Roberto Finelli a partire dal debito hegeliano verso Hölderlin e la sua filosofia dell’unificazione (Vereinigungsphilosophie), senza con ciò mancare di segnalare le differenze fra i due pensatori: mentre «in Hölderlin l’orizzonte è quello di una drammatizzazione dell’alternanza e del passaggio dall’Uno al Due e poi di nuovo all’Uno», in Hegel invece l’attenzione è rivolta al movimento che dall’opposizione porta all’unità (p. 50). Proprio per sottolineare il carattere di prodotto degli opposti, Finelli parla dell’assoluto hegeliano come di un protocollo di vita pratica di un finito. Giustamente, a nostro parere, Finelli mostra come la struttura della dialettica hegeliana sia quaternaria, anziché ternaria come la si intende comunemente: ciascun polo dell’opposizione deve riconoscere che l’altro da sé è in unità con se stesso e farsi così intero. Il riconoscimento dell’altro necessita ossia anche della riflessione di ciascun polo all’interno di sé; questo consente di pensare alla struttura del riconoscimento come formata da due assi relazionali, l’uno orizzontale (di incontro con l’altro) e l’altro verticale (di riflessione del sé). Finelli ritiene che le letture della filosofia pratica hegeliana a partire dagli anni sessanta ad oggi, abbiano per lo più sottovalutato il momento riflessivo, verticale, finendo col ridurre la sfera intersoggettiva alla sola dimensione linguistica (Habermas ne è probabilmente l’esempio più significativo). Ma questo esito essenzialmente linguistico dell’interpretazione della filosofia pratica hegeliana non è sufficiente a spiegare la complessità della struttura del riconoscimento: la tesi di Finelli è che si debba pensare, secondo le parole di Ludwig Siep, ad un «allargamento antropologico dell’etica», ossia all’inclusione della dimensione emozionale e corporea dell’identità del singolo individuo nella costituzione dell’intersoggettività.

Il quarto contributo della raccolta, di Caterina De Bortoli, è dedicato all’indagine del ruolo del linguaggio all’interno del capitolo dello Spirito (cap. VI). Il linguaggio costituisce un momento essenziale all’interno del processo del riconoscimento; giustamente quindi De Bortoli vi richiama l’attenzione: il linguaggio difatti è il «medio esistente» tra soggetto e oggetto nell’ambito del rapporto conoscitivo, e tra soggetto e soggetto in un rapporto intersoggettivo. L’analisi compie un passo indietro rispetto alla Fenomenologia e si volge alle lezioni jenesi di filosofia dello spirito, dove Hegel tratta la formazione della coscienza teoretica attraverso l’apprendimento linguistico. Attraverso il linguaggio lo spirito diviene coscienza, poiché è nella mediazione linguistica che il soggetto e l’oggetto per la prima volta si pongono in relazione. Nel segno linguistico viene superata la scissione di soggetto e oggetto e la coscienza, appropriandosi del mondo esterno, se ne fa padrona. Quello che la filosofia dello spirito jenese mostra, secondo De Bortoli, è che la coscienza in quanto tale è sempre già coscienza linguistica: il linguaggio è il presupposto della struttura coscienziale. Questo significa che anche la prima forma del rapporto soggetto-oggetto propria della certezza sensibile è già una forma mediata linguisticamente, una tesi, questa, non condivisa da altri gli interpreti. Il percorso fenomenologico è il processo che porta la coscienza alla progressiva presa di consapevolezza della propria natura spirituale e, quindi, linguistica. Non solo la mediazione linguistica è presupposta a qualsiasi rapporto del soggetto con l’oggetto, ma è anche «la prima forma di esistenza dell’intersoggettività»: non esiste un soggetto astratto di contro ad un oggetto, ma vi è sempre e solo «un mondo intersoggettivamente condiviso» (p. 83). L’ultima parte del saggio è volta ad analizzare la più alta forma di linguaggio descritta da Hegel: il linguaggio della disgregatezza. Prendendo le distanze dall’ipotesi interpretativa di Antimo Negri, che vedeva nel linguaggio della disgregatezza il linguaggio della ragione, De Bortoli, secondo noi a ragione, ritiene che il linguaggio della disgregatezza sia il migliore tentativo da parte dell’intelletto di esprimere il concetto, senza però ancora essere il linguaggio speculativo della ragione: se il primo riesce ad enunciare la contraddizione, solo il secondo è tuttavia in grado di esprimere, nell’opposizione delle determinazioni, anche la loro unità.

Il sapere assoluto, di Walter Jaeschke, conclude l’analisi delle principali figure fenomenologiche. Con questo studio Jaeschke si propone di prendere sul serio il «non-concetto» (Unbegriff) di “sapere assoluto” sul quale Hegel fonda il suo intero sistema filosofico. Il sapere, per sua natura, è determinato e quindi finito; sembra impossibile, pertanto, che esso diventi assoluto. Eppure Hegel ci pone di fronte all’esigenza di comprendere in che modo un sapere possa dirsi assoluto. Anzitutto, spiega Jaeschke, il sapere assoluto è caratterizzato da quattro specificità: la riflessività, il sapere assoluto è sapere di sé, è riferito a se stesso; la spiritualità, il sapere assoluto è il sapere che lo spirito ha di se stesso; la storicità, dal momento che lo spirito è sempre storico, anche il sapere assoluto è storico; e la fatticità, lo spirito è sempre un qualcosa di reale, di effettuale. Ulteriore peculiarità del sapere assoluto è che esso include in sé i momenti del sapere teorico, del sapere pratico e del sapere religioso, ad indicare che esso è il risultato di tutta la vita spirituale della coscienza nel suo complesso. Tutti e tre questi momenti del sapere assoluto sono forme di liberazione dello spirito: in generale potremmo quindi dire che «il “sapere assoluto” è la figura filosofica della libertà che lo spirito raggiunge nel suo percorso storico» (p. 125). Il concetto hegeliano di “sapere assoluto”, conclude Jaeschke, è quindi «una formula provocatoria, anche se non del tutto esplicitata, per una teoria integrale della vita spirituale, il cui risultato deve essere proprio la realizzazione del “sapere assoluto”» (p. 125).

Il saggio di Francesco Toto, Passione, riconoscimento, diritto nel “Discorso sull’origine della disuguaglianza” di J.-J. Rousseau, offre la possibilità di confrontare la riflessione hegeliana sul riconoscimento con quella di uno dei filosofi precedenti ben presenti a Hegel: J.-J. Rousseau. Toto mostra come, a differenza di quanto una lettura superficiale del Discorso possa suggerire, non siamo in presenza, in Rousseau, di un dualismo cartesiano tra natura e libertà dell’uomo. Al contrario la libertà è essa stessa naturale: è la capacità «di partecipare con la propria natura alla determinazione della propria stessa natura» (p. 133). Fondamentale, nel processo di determinazione da parte dell’uomo della propria natura attraverso la libertà, è il ruolo svolto dall’amore: l’amore è desiderio di essere riconosciuti dall’altro e proprio nell’essere riconosciuti dalla persona amata l’individuo diviene consapevole di se stesso e si riconosce. L’amore è quindi il processo di costituzione dell’individualità stessa, prima di essere costituzione dell’intersoggettività. Riconoscere la libertà delle azioni umane come essa stessa naturale comporta però la difficoltà di salvare la responsabilità morale delle azioni: laddove, difatti, tutto è determinato dalla legge naturale, non vigono più diritti o doveri. È sempre all’interno del concetto di riconoscimento che si trova il superamento di questa impasse: nella lotta del singolo per il proprio riconoscimento è racchiusa la volontà di essere riconosciuti in quanto “persona”, ossia in quanto soggetto morale. Il singolo si fa in tal modo portatore di un’istanza universale: il riconoscimento di un’uguaglianza giuridico-morale. La morale in Rousseau, «piuttosto che al volontarismo di un astratto dover-essere, è legata alla cogente concretezza di un sentimento, quello dell’amor-proprio, che è a sua volta inseparabile da un terreno comune, di reciprocità» (p. 149). Il terreno comune, sul quale avviene la mediazione tra la singolarità e la comunità, è costituito dai costumi (moeurs): è attraverso la partecipazione conflittuale alla produzione che gli individui determinano le strutture condivise del riconoscimento, le pratiche comuni ad esse connesse, e l’obbligo sociale di conformarvisi. Il modello di socializzazione così presentato è lontano dal presupporre qualsiasi frattura netta tra la naturalità dell’uomo e il suo orizzonte pratico: l’amore e i costumi sono i motori naturali che portano l’individuo ad inserirsi, senza costrizioni, in un orizzonte giuridico-morale nel quale volontà particolare e volontà universale tendono ad un rapporto di perfetta armonia.

I due saggi che seguono sono volti ad indagare il dibattito attuale su Hegel: il primo, di Antonio Carnevale, Una ricostruzione «fenomenologica» del dibattito americano su Hegel, opera una ricostruzione della recezione americana della Fenomenologia. Carnevale rintraccia gli interrogativi teorici che hanno reso Hegel nuovamente attuale in un dibattito filosofico che per quasi due secoli aveva totalmente ignorato l’idealismo hegeliano. Anzitutto, spiega Carnevale, l’esigenza di ripensare il rapporto tra sapere e natura ha determinato un primo ritorno ad Hegel; Wilfrid Sellars, Richard Rorty e, sulla loro scia, Robert B. Brandom e John McDowell hanno recuperato l’idealismo hegeliano all’interno di una svolta pragmatista che risponda alle difficoltà poste dalle filosofie analitiche del linguaggio. Un altro aspetto del pensiero hegeliano che ha assunto una nuova e decisiva importanza nel dibattito americano è stato il rapporto tra libertà della singola coscienza e costituzione di una normatività sociale, o, più genericamente, il problema di definire il concetto di razionalità sociale. Allen Wood, Robert Pippin e Robert Williams sono solo fra i principali protagonisti della discussione. Infine, le questioni di genere hanno richiamato attenzione degli interpreti sul modello hegeliano di libertà basato sul processo di riconoscimento. Il che escluderebbe, secondo Iris Marion Young, altri modelli comunicativi. Questo ha dato il via a tutta una serie di interpretazioni femministe del pensiero hegeliano.

L’altro saggio volto a ricostruire il dibattito attuale su Hegel è di Paola Di Cori, Slittamenti di Hegel oltre la filosofia. Brevi considerazioni su antidiscipline in lingua inglese. Di Cori cerca di collocare il sorprendente proliferare di studi hegeliani negli ultimi decenni all’interno di una più ampia ridefinizione dell’orizzonte culturale globale. A partire dagli anni settanta la struttura disciplinare del sapere ha subito un profondo rinnovamento: sono nate nuove discipline, si sono istituiti nessi o forme di comparazione tra ambiti di sapere prima ritenuti totalmente eterogenei, anche la geografia del sapere ha mutato i confini e accorciato distanze tra luoghi prima privi di qualsiasi comunicazione. Sorprendente è stato il ruolo giocato in tutto questo da Hegel: pensatore conservatore, a tratti quasi razzista, ha offerto strumenti concettuali in grado ancora oggi di affrontare questioni attuali. L’esigenza di riflettere sul potere, sulla schiavitù e sul riconoscimento dell’altro, ha reso Hegel un pensatore indispensabile a diversi settori del dibattito contemporaneo. Particolarmente ricco è stato il proliferare di studi non strettamente filosofici su Hegel, quali gli studi di genere, di critica femminista, di critica letteraria; tutti hanno contribuito a dare a Hegel un aspetto nuovo. Di Cori utilizza in tal modo la vicenda degli studi hegeliani come «sintomo di un inarrestabile processo di erosione degli antichi confini disciplinari» (p. 192). Anche i confini geografici sono mutati: l’Africa, spiega Di Cori, è diventato un centro di discussione delle tesi hegeliane in un tentativo di individuare una possibile terza via tra la semplice riappropriazione e l’opposizione al pensiero occidentale. In questo senso è possibile oggi parlare di sapere antidisciplinare: si tratta «della necessità di decentrare la discussione storica, evitando di privilegiare gli stati-nazioni e i movimenti di liberazione nazionale allo scopo di elaborare una vera e propria nuova archeologia della conoscenza» (p. 206).

L’ultimo contributo è di Rossella Bonito Oliva, Capacità e possibilità. Una riflessione sulle implicazioni della libertà individuale tra diritti e norme. L’interrogazione è volta ad indagare la possibilità di una riflessione sulla libertà che superi l’alternativa tra i paradigmi di libertà positiva e libertà negativa, al fine di rendere giustizia alla complicazione sempre crescente del mondo moderno e globalizzato. Bonito Oliva parla di una forma di complessità nell’uomo che resiste a qualsiasi tentativo di semplificazione in uno schema interpretativo: «nella dimensione storica della natura umana è possibile rintracciare il filo di strutture che non risolvono una volta per tutte l’instabilità e l’inquietudine dell’enigma dell’uomo, rendendo crisi e tramonto passaggi fisiologici di una natura intrinsecamente eccedente, perciò insieme e ambiguamente bisognosa di limiti e allergica a ogni limite assoluto» (p. 212). È il cristallizzarsi delle forme dei rapporti tra singolo e comunità, ossia delle gerarchie normative della vita umana che priva questa di senso e rischia di far perdere all’uomo la consapevolezza del suo poter essere altrimenti. Proprio il poter essere altrimenti, quale prima forma di essere dell’uomo, consente di pensare la libertà come prassi di continua attualizzazione dell’umano. La riflessione hegeliana sulla libertà sembrerebbe iscriversi in questo orizzonte: l’equilibrio tra diritti e doveri e il riconoscimento da parte degli individui delle istituzioni che li governano consente la realizzazione dell’essenza dell’uomo come poter essere altrimenti. Certamente Hegel è consapevole anche della difficoltà di un simile equilibrio tra l’uomo e lo Stato: il venir meno del senso di appartenenza  o della fiducia del cittadino può rompere il rapporto di riconoscimento e creare quello sfondo scuro di insicurezza, dal quale tuttavia soltanto «può germogliare la trasformazione» (p. 219).

PUBBLICATO IL : 01-08-2008

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