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Giuseppe Giordano, Da Einstein a Morin. Filosofia e scienza tra due paradigmi , Rubbettino, 2005.
di Fausto Fraisopi

Una delle sfide della filosofia contemporanea è la teoria della complessità, o, più generalmente, la complessità nelle sue manifestazioni epistemologiche più disparate, dalle geometrie frattali alle scienze del vivente, dalla teoria dei sistemi in economia alla teoria del caos, dai sistemi computazionali complessi alla meta-ontologia. In un panorama, come quello italiano, che sconta − come spesso accade − un notevole ritardo teorico in rapporto al panorama internazionale, il libro di Giuseppe Giordano (Da Einstein a Morin. Filosofia e scienza tra due paradigmi) rappresenta una felice eccezione, nello stesso modo in cui si dimostra “eccezionale” il lavoro del “Centro Studi di Filosofia della Complessità E. Morin” dell’Università di Messina, di cui Giordano fa parte integrante.
Con notevole competenza storica e con un interesse teorico che fa da sfondo, il libro di Giordano ripercorre la fase di emergenza del pensiero della complessità che, a partire dall’ultimo dei grandi sistemi classici in fisica (quello di Einstein), arriva fino all’esperienza filosofica e pedagogica di Edgar Morin. L’emergenza del problema della complessità è da cercarsi, come mostra l’indagine di Giordano, in esperienze teoriche e speculative come quelle di Niels Bohr, Werner Heisenberg e Ilya Progogine, figure di primo piano della scienza che hanno affrontato, allo stesso tempo, questioni filosofiche di prim’ordine. Partendo dal presupposto crociano secondo cui “la filosofia non si trova solo nei libri dei filosofi”, Giordano ripercorre le questioni inerenti a quattro concetti fondamentali: il principio di complementarità (formulato da Niels Bohr), l’indeterminazione della realtà quantistica (formulata da Heisenberg), la struttura dissipativa (nucleo delle scoperte di Prigogine nella fisica termodinamica), l’interazione fra scienza e storia (caratterizzante il modello storiografico allargato di Thomas Kuhn).
Quello che emerge a partire da questi quattro “punti cardinali” è l’orizzonte teorico in cui tramonta il paradigma galileiano-cartesiano dell’ “objectum purum et simplex” e s’impone il nuovo paradigma della complessità:

“Dal punto di vista teorico, quello che si snoda fra Einstein e Morin è una fase del cammino della ragione occidentale in uno dei suoi percorsi più interessanti degli ultimi cento anni, quello che dal razionalismo astratto di matrice galileiano-cartesiana sta conducendo a un razionalismo storicista, non più (dalla prospettiva scientifica) relegato soltanto a un campo filosofico “deteriore”, ma condiviso con la scienza, almeno certa scienza in movimento dal riduzionismo verso la complessità”

Se di oggetti “complessi” si può e si deve parlare, l’eccedenza del pensiero della complessità − in tutta la sua ricchezza − si caratterizza innanzitutto in virtù di un’opposizione radicale a quello che è stato definito il “riduzionismo” cartesiano, fondato su quello che E. Schrödinger (Premio Nobel per la fisica nel 1933) ha definito in modo assai pertinente il “postulato di oggettivazione”.
Un’indagine storico-speculativa del “paradigma cartesiano-galileiano” si dimostra tanto più interessante in quanto è il concetto stesso di “ontologia” a nascere nell’ambito del cartesianesimo. L’ontologia (declinata poi metafisicamente in onto-teo-logia) nasce con Descartes e si pone alla base del progetto epistemologico-metafisico che inaugura l’età moderna. Le Regulae ad directionem ingenii, opera in cui Descartes definisce positivamente il distacco dall’ontologica scolastica, sono il luogo in cui il pensiero attinge ad una forma di accesso all’oggetto del tutto particolare e caratterizzante: l’objectum purum et simplex, categorizzabile secondo puri rapporti matematico-quantitativi, un oggetto “diafano” che caratterizza l’ontologia che lo tematizza come un’“ontologie grise” (Cfr J.-L. Marion, Sur l’ontologie grise de Descartes : science cartésienne et savoir aristotélicien dans le Regulae, Paris, Vrin, 1987, p. 186). Solo in virtù di questa caratterizzazione dell’oggetto, tutt’altro che marginale, Descartes può fissare un paradigma che caratterizzerà la scienza ed il pensiero moderno fino alla scoperta del Principio di Indeterminazione di Heisenberg. Il “postulato di oggettivazione” potrebbe definirsi allo stesso modo “postulato di soggettivazione” in virtù del suo assunto portante: l’ego cogito.
Scrive Schrödinger: “Lo scienziato, nel suo subconscio, quasi inavvertitamente, semplifica il suo problema di comprendere la natura, non prendendo in considerazione o tagliando fuori dal quadro sé stesso, la sua personalità, il soggetto della conoscenza. Senza rendersene conto il pensatore si limita a rappresentare la parte d’un osservatore esterno. Con ciò il suo compito è straordinariamente facilitato” (E. Schrödinger, La natura e i Greci, in Id., L’immagine del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 237). Questo ruolo dell’osservatore, definito da Descartes nel Discours de la methode e negli Essais che lo accompagnano, viene metafisicamente esplicitato nelle Meditationes de prima philosophia come incontrovertibilità della cogitatio in opposizione alla res extensa come correlato oggettuale del pensiero.
Per comprendere come il paradigma cartesiano, fondato su una relazione di neutralità tra soggetto ed oggetto, possa occultare la complessità, bisogna approfondire il concetto stesso di paradigma per poi declinarlo nella comprensione delle dinamiche del paradigma “cartesiano-galileiano”. Afferma Kuhn, nel suo saggio fondamentale “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”:

“I paradigmi raggiungono la loro posizione perchè riescono meglio dei loro competitori a risolvere alcuni problemi che il gruppo degli specialisti ha riconosciuto come urgenti. Riuscire meglio, però, non significa riuscire completamente per quanto riguarda un unico problema o riuscire abbastanza bene per moltissimi problemi. Il successo di un paradigma [...] è all’inizio, in gran parte, una promessa di successo che si può intravedere in alcuni esempi scelti ed ancora incompleti. La scienza normale consiste nella realizzazione di quella promessa, una realizzazione otttenuta estendendo la conoscenza di quei fatti che il paradigma indica come particolarmente rivelatori, accrescendo la misura in cui questi fatti si accordano con le previsioni del paradigma, e articolando ulteriormente il paradigma stesso” (T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, pp. 43-44).

Una prospettiva storica allargata à la Kuhn mette in evidenza come il modello epistemologico fondato sull’objectum purum et simplex, sulla riduzione dell’oggetto epistemico al solo aspetto quantitativo, occulta la complessità nella stessa misura in cui propone un’ontologia unica come modello epistemologico fondante: la res extensa. Lo sguardo ancipite alla teoria della complessità ed alla storia della scienza consente di affermare − senza nulla togliere alla grandezza di Galilei, Descartes e Newton − che quel paradigma è il frutto di una concrezione storica e che, si parva licet, ha fatto il suo tempo. Galilei e Descartes inaugurano la grande fase speculativa dell’epoca moderna delineando una teoria dell’oggetto fondata sulla riduzione integrale della fenomenicità prima alla geometria e poi all’algebra e al calcolo integrale. E’ questo stesso paradigma riduzionista che caratterizzerà, alla fine del diciannovesivo e all’inizio del ventesimo secolo, il logicismo di Frege e il progetto formalista di Hilbert. Come dobbiamo intendere il riduzionismo? Giordano risponde in modo chiaro delineando tre aspetti fondamentali che stanno alla base del paradigma epistemico dell’objectum purum et simplex:

“L’operazione avviata da Galilei si può riassumere − alla luce di un vero e proprio mutamento di metafisica di riferimento (da Aristotele a Platone) che va affiancato all’aggettivo “sperimentale” che di solito connota e definisce l’impresa scientifica della modernità − sotto l’etichetta generale di riduzionismo

  1. Riduzione della complessità degli oggetti e dei fenomeni che incontriamo nella realtà a pure forme geometriche e poi, addirittura, a numeri, con un evidente platonismo: l’ordo rerum deve corrispondere all’ordo idearum
  2. Riduzione del campo di indagine dei fenomeni naturali dal mutamento al movimento: da cui il meccanicismo
  3. Riduzione consequenziale delle cause dalle quattro della tradizione aristotelica (materiale, formale, finale ed efficiente) a una soltanto, quella efficiente: l’unica esterna e meccanica
  4. Riduzione dell’interesse scientifico alla sola quantità: la scienza deve solo misurare” (p. 82).

La scoperta dell’ego, e quindi della soggettività moderna, implica che quest’ego tragga la sua certezza, l’evidenza del suo giudizio sulla natura, da un’ontologia che è riconducibile alla struttura algebrico-matematica del reale, e, quindi, alla sua “quantificabilità”. A questo punto entra in gioco l’importanza del principio di complementarità di Bohr, secondo il quale non c’è un modello unico di interpretazione del reale nè, quindi, un’ontologia unica ben definita:  “l’unicità della spiegazione entra in crisi con l’individualità che presentano i fenomeni quantistici a causa della loro propria essenza discontinua”. La realtà fisica viene interpretata a partire da molteplici modelli (anche matematici e, potremmo dire, anche e soprattutto ontologici) che interagiscono, modelli complementari e dunque, di per sè, tutt’altro che esaustivi. La sapiente operazione concettuale di Bohr è quella di estendere il principio di complementarità dall’ambito ristretto della teoria quantistica (in cui la teoria corpuscolare e la teoria ondulatoria della luce non possono che essere complementari) a tutti gli ambiti del sapere. “In questa estensione − afferma Giordano − dobbiamo riconoscere la svolta filosofica prodotta dallo scienziato danese, il quale è riuscito a individuare nel suo campo un principio guida applicabile a ogni forma di sapere” [p. 21]: “la natura stessa della teoria quantistica ci costringe così a considerare la coordinazione spazio-temporale e l’esigenza della connessione causale, la cui unione caratterizza le teorie classiche, come aspetti complementari ma reciprocamente escludentisi della descrizione, i quali simbolizzano l’idealizzazione dei concetti di osservazione e di definizione rispettivamente” [Niels Bohr, Teoria dell’atomo e della conoscenza umana, p. 325].
Se si dà un postulato di oggettivazione solo in quanto si dà, in senso storico-generico, quel “postulato di soggettivazione” che è l’apoditticità dell’ego cogito, il postulato di oggettivazione cade nel momento stesso in cui l’ego non padroneggia più, per così dire, la sua “visione” dell’ens. Là dove l’ego si trovi posto di fronte alla crisi della sua visione trasparente, diottrica, là dove la visione si veda negata, come nel principio di indeterminazione, quella trasparenza e quella piena oggettività che gli venivano garantite dal paradigma della scienza classica, il postulato di oggettivazione deve essere abbandonato. Il passaggio teorico obbligato, a questo punto, non può che essere quello di  “sviluppare una teoria della complementarità, la cui coerenza può venire giudicata solo valutando le possibilità da essa offerte di definizione e di osservazione” [Giordano, p. 22]. Là dove l’esperienza fisica della realtà fenomenica non disponga più di quel carattere di “trasparenza diottrica”, nel momento in cui l’ente, il fenomeno, non sia più iscritto in un orizzonte di “visibilità assoluta”, “noi dobbiamo essere preparati ad accettare il fatto che una spiegazione completa di una stessa questione possa richiedere diversi punti di vista che non ammettono una descrizione unitaria”. Come afferma Bohr, “la spiegazione unica non ha più fondamento e quindi ragione d’essere”.
Lungi dal rappresentare un atteggiamento rinunciatario di fronte alla disarmante complessità del reale, di fronte all’eccedenza della fenomenicità da un modello unico, il principio di complementarità compie un decisivo passo in avanti. Esso rappresenta “l’espressione di una sintesi razionale del complesso di esperienze in questo dominio, che si estende oltre i limiti entro cui l’applicazione del concetto di causalità è naturalmente confinata” [p. 25]. Niels Bohr, come afferma giustamente Giordano, “è il primo a cogliere ed accettare se non immediatamente la complessità del reale, la complessità della spiegazione del reale” [p. 28]. Tuttavia, sempre più chiaramente ed in modo sempre più imponente, i due sintagmi “complessità del reale” e “complessità della spiegazione del reale” si dimostrano sinonimi. Là dove infatti cade il postulato di oggettivazione, là dove non si ammetta più una sola ontologia del mondo naturale, la spiegazione, il modello, si dimostra essere l’unica via di accesso al reale in quanto tale.
Il “bando della cosa in sé” viene interpretato ora non più in chiave egologica, come in Reinhold e Fichte, ma nella prospettiva di modelli ontologici interagenti. Questa è la grande lezione del testo filosofico fondamentale di Werner Heisenberg, Indeterminazione e realtà in cui il fisico tedesco si confronta con le conseguenze ontologiche del principio di indeterminazione. Nella prospettiva della meccanica quantistica e del principio di indeterminazione “con il cambiamento e l’allargamento del senso del concetto di natura, muta anche il compito della scienza, che non ci dà più un’immagine della natura in sé, ma piuttosto un’immagine del nostro rapporto con la natura” [p. 31]. Il soggetto ha un ruolo attivo nell’esperienza scientifica, non è più lo spectator mundi (Cfr Descartes, Discours de la méthode, AT VI, 42, 13 [AT= Œuvres de Descartes, publiées par Ch. Adam et P. Tannery, Paris, Vrin, 1996 (rist.)])ma un elemento costitutivo della propria esperienza, un ego costituente nel senso fenomenologico del termine. Con Heisenberg e Husserl si fa largo un concetto fondamentale dell’epistemologia contemporanea, quello di “carico di teoria” (theory ladeness) (Cfr N.R. Hanson, Patterns of Discovery. An Inquiry into the conceptual Foundations of Science, Cambridge, Cambridge University Press, 1958). Il soggetto proietta sulla fenomenicità delle strutture che danno forma [formgebend] al dato impressionale, delle strutture che portano con sè un’ontologia (una teoria dell’ente, una teoria dell’oggetto) ben determinata. Ciò che è più interessante è che queste strutture, queste ontologie regionali o materiali, sono una concrezione di idealità, hanno una storia, trovano la loro genesi a partire da quel “mondo della vita” [Lebenswelt] che rappresenta in modo costante il terminus a quo dell’elaborazione teorico-scientifica. E proprio il fatto di misconoscere questa Lebenswelt come termine costante di riferimento, come termine in qualche modo in-categorizzabile da un’ontologia regionale, rappresenta quella crisi delle scienze europee. Questo è il merito delle tarde analisi husserliane di Idee III, di Logica formale e trascendentale e della Krisis, opere coeve allo scritto fondamentale, troppo spesso sottovalutato dai “filosofi di professione”, di  Heisenberg.
Il fatto che l’esperienza sia sempre “esperienza in un contesto”, che l’oggetto epistemico sia sempre definibile in relazione ad un’ontologia di riferimento, sancisce allo stesso tempo la necessità di un approccio alla realtà secondo il quale la descrizione dell’oggetto sia implementata alle condizioni contestuali dell’esperimento fisico. L’astrazione analitica dell’oggetto dal contesto di riferimento equivale alla riduzione della complessità di alcuni fenomeni fisici fondamentali e, dunque, allo smarrimento di questi fenomeni fisici in quanto, appunto, fenomeni complessi.
L’elaborazione del concetto di “struttura dissipativa” di Prigogine, esteso − come il principio di complementarità di Bohr − al di là del campo della termodinamica, spinge ad un ripensamento generale della scienza e, soprattutto, all’elaborazione del concetto di “complessità del vivente”. Con Prigogine, afferma Giordano, “la visione della natura è stata sottoposta a un cambiamento radicale nei confronti del molteplice, del temporale, del complesso” [p. 40]. Quel Weltbild che si impone col cartesianesimo viene prima messo in discussione [Cfr. a riguardo anche M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo e Scienza e Meditazione] e poi relativizzato [Cfr. Quine, Relatività ontologica]. Ma ciò che contraddistingue l’operazione filosofica di Prigogine è l’esplicita messa in relazione di questa relativizzazione con il problema della complessità: “la nuova visione della natura di cui parla Prigogine è quella che, trovando, come vedremo, uno sfondo comune al conoscere, fa tesoro della lezione del principio di complementarità di Bohr, lezione che, come osserva egli stesso, “consiste nel sottolineare la ricchezza della realtà, che straripa da ogni possibile linguaggio, da ogni possibile struttura logica” e dunque da ogni ontologia. “Ogni linguaggio può esprimere solo una parte” [p. 41].
Nella relativizzazione dell’ontologia da parte della complessità, anche il tempo assume una relativizzazione, viene cioè pensato secondo molteplici sensi: l’essere complesso come la cellula, come l’ecosistema “è costituito da una pluralità di tempi, ognuno dei quali è legato ad altri con articolazioni sottili e multiple”.
L’omogeneità del reale, l’omogeneità dell’ente come ens qua ens, viene negata, e viene negata precisamente come una visione riduttiva, riduzionista, della realtà complessa e delle sue dinamiche. Nella dinamica complessa delle strutture dissipative, dei processi metabolici, nei processi eco-sistemici, le differenze più impercettibili sono decisive, fondamentali, non più ridotte a semplici imprecisioni di calcolo. La natura non è univoca e unidirezionale ma ciclica, strutturata da processi di feed-back. La natura si sviluppa secondo “scelte irreversibili” ed “irripetibili”, sfuggendo al paradigma della riproducibilità dell’esperimento: “la natura pensata nello schema delle strutture dissipative è quella natura che si biforca, è quella in cui differenze piccole, fluttuazioni insignificanti, possono, se si danno circostanze opportune, espandersi in tutto il sistema e produrre nuove funzioni, un nuovo comportamento globale” [p. 45]. Se la scienza classica è astrazione e manipolazione della realtà complessa, una sorta di riduzione forzata della complessità in una sola struttura di sintassi formale, la scoperta delle strutture dissipative svela qualcosa di radicalmente nuovo. Essa svela, e teorizza, come e quanto gli oggetti della fenomenicità eccedano in numero e complessità da quella classe di oggetti che appaiono, come elementi semantici, all’interno di quella sintassi formale (ed all’interno di ogni struttura logico-sintattica). Gli elementi semantici della complessità richiedono l’ammissione e l’interazione di diverse sintassi formali, richiedono l’intervento di una visione “sistemica”: “dalla nuova scienza della termodinamica dei sistemi lontani dall’equilibrio è sorta una filosofia che supera le angustie e gli steccati del paradigma della scienza classica con le sue gerarchie di sudditanze tra i saperi. E’ sorta cioè una filosofia della complessità, che accetta la poliedriticità storicamente mutevole della realtà e ne fa anzi la sua chiave interpretativa” [p. 51].
Il nuovo approccio alla complessità è il pensiero sistemico, un pensiero quasi interamente ignorato dai “filosofi di professione” a cui sfugge, spesso, la ricchezza e la complessità dei processi epocali, dei cambiamenti paradigmatici del pensiero e della razionalità. Il pensiero sistemico [Systemics] si basa sul presupposto fondamentale secondo cui “le proprietà essenziali di un organismo, o sistema vivente, sono proprietà del tutto, che nessuna delle parti possiede [...]. La grande sorpresa del Ventesimo secolo consiste nel fatto che non è possibile comprendere i sistemi per mezzo dell’analisi. Le proprietà delle parti non sono proprietà intrinseche, ma possono essere comprese solo nel contesto dell’insieme più ampio”. “La teoria dei sistemi − continua Giordano − assume i connotati di una vera e propria nuova base epistemologica, guida per nuove discipline come la teoria dell’informazione, la cibernetica, la neurofisiologia dell’autopoieticità del vivente: tutte discipline che non accettano più il dogma classico della negazione della complessità del reale [...] ma  che, invece, proprio nella complessità, sull’approccio olistico, sulla funzionalità delle parti per un tutto, fondano la loro visione del reale” [p. 111].
Che la complessità necessiti sempre di più di una tematizzazione esplicita nel panorama filosofico, molto spesso ricurvo su sè stesso, che essa apra nuovi spunti di riflessione sull’ontologia, sui processi di framing, sull’interazione di molteplici sistemi di informazione e di elaborazione dell’informazione, non è cosa nuova. Viene tuttavia da chiedersi che cosa sarebbe la teoria della complessità senza un’opera d’interpretazione storica − ad essa necessariamente “complementare” − come quella che viene intrapresa in questo testo. Sebbene, a nostro avviso, l’Autore tralasci nel suo saggio, delle figure di primo piano della logica e del pensiero matematico, come anche tutta la vicenda della “crisi dei fondamenti” che si consuma con Gödel (eredità crociana?), il libro di Giuseppe Giordano rappresenta, come tutti i buoni libri, un occasione di riflessione assai importante. Esso segue l’insegnamento filosofico e pedagogico di Morin che vede nell’educazione alla complessità un ruolo scientifico ma anche sociale e storico. Il pensiero della complessità dev’essere animato “da una tensione permanente tra l’aspirazione a un sapere non parcellizzato, non settoriale, non riduttivo e il riconoscimento dell’incompiutezza e dell’incompletezza di ogni conoscenza”. Allo stesso tempo, tuttavia, il pensiero della complessità prende coscienza del fatto che il sapere entra nella natura e nella storia, le orienta e, talvolta, le disorienta. Il pensiero eco-etico che l’Autore descrive e definisce nel Capitolo IV, rappresenta una presa di coscienza di quell’interazione inscindibile che l’uomo intrattiene col suo orizzonte

 

PUBBLICATO IL : 11-11-2008

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