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Joachim Fischer, Philosophische Anthropologie. Eine Denkrichtung des 20.Jahrhunderts , Alber, 2008.
di Marco Russo

Gli anniversari conservano qualcosa dei riti arcaici di conferma, propiziazione e rinascita. A ottanta anni dalla pubblicazione delle due opere che inaugurano ufficialmente la nascita dell’antropologia filosofica − Die Stellung des Menschen im Kosmos di Max Scheler e Die Stufen des Organischen und der Mensch di Helmuth Plessner− esce l’ampio affresco di Joachim Fischer.  Studi, anche notevoli, d’inquadramento e approfondimento ce ne sono ormai diversi; ma mancava un “manifesto”di esplicita riaffermazione  dell’identità e del potenziale dell’antropologia filosofica. Tale cioè che nessuno che s’interessi dell’argomento possa ignorarlo e che chiunque l’abbia ignorato possa continuare a farlo. Un’opera ricca d’informazioni e di spunti di riflessione.
Il carattere di manifesto del libro di Fischer risulta subito evidente dall’intento di dimostrare che esiste un preciso e autonomo orientamento filosofico novecentesco che si chiama Antropologia Filosofica (scritto in maiuscolo). Esso va distinto in primo luogo dalle concezioni di uomo che ogni teoria filosofica più o meno espressamente contiene. In secondo luogo, va identificato tramite la sua differenza specifica da tutte le principali correnti di pensiero contemporanee, considerate nei loro assunti fondamentali. Sono due passaggi di una medesima operazione, perché intanto l’AF non coincide con una qualunque concezione dell’uomo  in quanto il suo impianto teorico è tale da affrontare in modo autonomo le principali questioni filosofiche, partendo da una originale esplorazione della dimensione umana. Da ramo o sottodisciplina, l’AF diventa un tronco con nuove radici che dà vita a un nuova albero della filosofia.
Questa tesi  riprende il modo in cui i suoi principali esponenti hanno proposto e hanno rappresentato l’AF. Mentre però tali esponenti hanno rivendicato ciascuno per sé il “copyright” del progetto filosofico, rendendo difficile un riconoscimento unitario e impedendo la formazione di una scuola, Fischer mostra che vi è un’unità di fondo. Proprio la lotta per l’esclusiva dimostrerebbe la forte comunanza del progetto. La prima e più estesa parte del volume mette allora a frutto una meticolosa ricerca decennale sulle fonti, spesso inedite o di difficile reperimento, per ricostruire le alterne vicende dell’AF. Ne risulta un ricco affresco storia della filosofia tedesca, che documenta come, tra lotte accademiche e destini individuali, l’AF si sia affermata e sia diventata una corrente filosofica molto più influente di quanto potrebbe sembrare. La fase aurorale va dagli anni Venti agli anni Quaranta, con i lavori paralleli di Scheler e Plessner e poi con il grande impatto di Der Mensch di Gehlen (1940); peraltro, sulla base di legami documentabili, Fischer afferma che di questa fase fondatrice fanno parte il filosofo della cultura Erich Rothacker e i biologi Friedrich Buytendijk e Adolf Portmann. Loro e non per esempio Ernst Cassirer, Karl Löwith o  Günther Anders.  Nel dopoguerra segue una fase di consolidamento e successivamente, negli anni Sessanta, una fase di intermittenza densa di collegamenti e diramazioni nel mondo intellettuale tedesco. Dal punto di vista storiografico, questo secondo ventennio è assai interessante. Seguendo in dettaglio lo sviluppo e la ricezione dell’AF, si constata infatti che quasi tutti i principali autori tedeschi si sono misurati con i suoi temi, per portarli avanti (Blumenberg, Anders, Löwith, Marquard, Straus, Binswanger),  rielaborarli (Apel, Schmitz, Jonas) o per criticarli, ma in prossimità d’intenti (Habermas, Scuola di Francoforte; vanno anche ricordati due notevoli dibattiti: quello, innescato da Dahrendorf, sul concetto di “ruolo” e quello, innescato da Lorenz, sul concetto di “istinto”). Ciò corregge la percezione media che si ha soprattutto all’estero, per cui i paradigmi filosofici dominanti nella Germania post-bellica sarebbero stati quello ermeneutico-fenomenologico legato ad Heidegger e il linguistic turn legato a Wittgenstein
L’altra importante chiarificazione viene dalla seconda parte del volume, che mette a fuoco la struttura teorica dell’AF intesa come autonomo indirizzo filosofico. Operazione impervia, giacché per un verso, sull’onda di Kant, l’antropologia si è profilata come branca della filosofia (accanto all’etica, l’estetica, la politica ecc.); per l’altro, sull’onda del pensiero post-metafisico e la sua tendenziale “riduzione antropologica”  − o di radicale immanenza e storicizzazione − tutto e tutti paiono potersi assegnare all’antropologia. A questo si aggiunge la menzionata rivalità tra i principali autori novecenteschi, tra i cui effetti c’è stato il confluire accademicamente nella sociologia, con ulteriore diluizione dell’identità teorica.
Cosa caratterizza dunque l’AF? In termini generali, il non sentirsi legati a nessuna tradizione di pensiero, la rinuncia ai grandi récits filosofici, e l’esigenza di confornto con i saperi scientifici. In termini più specifici, il tentativo di ripensare il concetto di Geist, sottraendolo all’alternativa tra dualismo e monismo (o anche riduzionismo positivistico). Di qui la centralità della biologia, di una indagine capace di comprendere i “monopoli” umani − ragione, parola, cultura − a partire dalla nostra natura di organismi viventi. Se il principio di comprensione è unitario, la grammatica della vita, non per questo è monistico o riduzionistico, perché la sua articolazione, la sintassi della vita, è dualistica, si realizza e scandisce per opposizione e sdoppiamento. Un corpo vivente, il circolo delle funzioni vitali,  sono impensabili senza la correlazione ad un ambiente;  ma la correlazione avviene grazie a un distacco, una distanza di contrasto con l’esterno, anzi viventi sono esattamente quei corpi che “possiedono” e affermano una linea di confine tra interno ed esterno. Quando non si coincide più con il proprio corpo, il confine diventa potenziale, ognora da ridefinire: si è aperto quello spazio virtuale, quel vuoto, quello sguardo da nessun luogo che chiamiamo autocoscienza, riflessività, libertà. Che non cessano, tuttavia, di essere coscienza di qualcosa che ci affetta; riflessione su un dato, libertà rispetto un altro che non dipende da noi. C’è pertanto un primato metodico dell’oggetto sul soggetto, della physis sulla noesis; un primato che riflette la nostra coazione a oggettivare, dare un senso, una stabilizzazione che compensi la “crisi” della naturalezza prodotta dall’imperfezione istintuale, che saturi il vuoto squilibrante dell’autocoscienza. Con una felice espressione, Fischer parla di «sguardo laterale» dell’AF (p. 522), uno sguardo indiretto, decentrato, «dalla posizione di un terzo» immaginario che segue la nostra maniera di fare esperienza sempre precariamente posta sul confine, nella zona d’inversione tra mente e corpo, sensi e senso, chiusura ambientale e apertura cosmica. I cinque padri fondatori dell’AF hanno declinato ciascuno a suo modo questa posizione di confine, mettendo volta a volta in risalto alcuni aspetti fondamentali della condizione umana (il linguaggio, l’espressività, le istituzioni, la costruzione di micromondi, la trascendenza…). Ma uguali sono il nucleo concettuale, insediare il mondo spirituale dentro la grammatica della vita, e il metodo, lo sguardo laterale che riflette gli sdoppiamenti, la coazione all’oggettivazione, alla distanza, necessari per vivere − e invero si dice che non semplicemente viviamo, ma “conduciamo” una vita, a guisa di un compito da realizzare.
A conferma della sua tesi, il volume di Fischer si chiude passando in rassegna le principali correnti di pensiero novecentesche onde marcarne i punti di contatto ma soprattutto di distinzione con l’AF.
Benché assai utile, una tale acribia induce qualche perplessità. Il “manifesto” di Fischer rischia di isolare, restringere eccessivamente l’AF. Per ottenere una perfetta riconoscibilità e autonomia, si finisce con il delimitare troppo e, così, con lo smorzare l’efficacia di un pensiero, a maggior ragione se esso ha tra le sue caratteristiche l’apertura metodologica e interdisciplinare. Nell’indefinitezza e varietà Fischer vede un rischio, mentre potrebbe invece vedervi un vantaggio, una potenzialità tutta da giocare.  La selezione dei rappresentati “ufficiali” dell’AF ne è un esempio: si lasciano fuori nomi del calibro di Cassirer, Löwith, Blumenberg. Certo la tesi di Fischer ha una sua intima coerenza, anche filologica. Ma si potrebbe allora far valer una tesi altrettanto forte, quella di Odo Marquard, secondo cui l’AF sorge nella prima modernità come analisi su basi naturalistiche del “mondo della vita” umano, un mondo inafferrabile con i mezzi della nascente scienza positiva o con quelli della tradizione metafisica. Personalmente continuo a preferire questa versione allargata, perché dà più profondità storica e maggiori sfumature concettuali al moderno tema filosofico dell’umano. Un simile contesto non fa perdere in originalità l’AF novecentesca; al contrario, evidenzia tutta la novità del suo impianto proprio in quanto finalmente capace di riformulare e dare risposte efficaci ad una annosa questione, di cui la stessa parola “antropologia”, coniata agli albori della modernità, è un preciso indicatore. In fondo, l’originalità e l’autonomia di una teoria non si perdono se restano senza fissa dimora. Anzi…

PUBBLICATO IL : 26-01-2009

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