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Vincenzo Costa, Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose , Rubbettino, 2007.
di Roberto Terzi

Nata all’insegna del motto «alle cose stesse!», la fenomenologia husserliana è tuttavia andata incontro molto presto all’accusa di essere essa stessa condizionata da presupposti storici non chiariti e ingombranti, che ne condizionerebbero l’analisi e che sancirebbero la sua appartenenza a una ben determinata tradizione. L’accusa, come è noto, viene formulata nel modo più impegnativo da Heidegger, la cui autorità ha contribuito alla fortuna di una certa immagine del pensiero husserliano. Secondo Heidegger, infatti, il primato conferito alla coscienza come luogo della fenomenalità, il ruolo centrale che viene così attribuito a nozioni come quelle di evidenza e immanenza, l’aspirazione scientifica che guida le analisi fenomenologiche testimonierebbero il tributo che Husserl paga alla tradizione cartesiana e più in generale moderna; tributo che a sua volta sarebbe il segno di una più profonda appartenenza alla storia della metafisica, dal momento che la soggettività non è altro che l’ultima e più potente versione di un pensiero fondazionale, che aspira a comprendere l’essere di ogni ente come presenza piena e stabile. È contro una simile linea interpretativa che si volge con forza il testo di Vincenzo Costa, Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose (Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pubblicato nella collana Fenomenologia e filosofia dell’esperienza, diretta da C. Di Martino), che mostra come le nozioni di evidenza e soggettività nel padre della fenomenologia debbano essere intese in modo profondamente differente da quello cartesiano e a partire da qui tenta un’interpretazione complessiva dei principali nodi del pensiero husserliano.
La «riduzione» di Cartesio si caratterizza, infatti, per due punti fondamentali, strettamente correlati tra loro: una fondamentale sfiducia nella sensibilità come ambito di ciò che può ingannare e che è fondamentalmente subordinato all’attività giudicativa del soggetto; una riduzione ai soli atti interni del soggetto con l’esclusione dei loro correlati oggettivi, dal momento che solo agli atti interni possono essere attribuite quella certezza ed evidenza, quella chiarezza e distinzione che sono invece negate al mondo esterno. Secondo la formula usata da Costa, quella cartesiana si configura così come una riduzione della manifestatività, mentre quella husserliana è una riduzione alla manifestatività, che implica una contestazione fondamentale di quei due assunti.
In primo luogo, la sensibilità non è l’ambito di ciò che può ingannare e che deve dunque essere escluso perché non evidente, ma ciò attraverso cui le cose stesse giungono ad apparire: le diverse datità percettive di una cosa non sono il segno dell’incertezza sensibile, né immagini interiori di cose esterne, ma modi di darsi della cosa stessa, che giunge così ad apparire e a costituirsi per un soggetto (secondo l’esempio che dà il titolo al libro, che un oggetto di forma circolare mi appaia da una certa angolazione come ellittico non è il segno del carattere ingannevole dei sensi, ma un modo di darsi proprio degli oggetti percettivi, regolato dalle strutture interne al campo della manifestatività e nella relazione prospettica al corpo). Ciò che Descartes non poteva ammettere è che la sensazione sia la cosa stessa vista da un certo punto di vista, idea che costituisce invece un caposaldo dell’analisi fenomenologica, la quale supera così ogni teoria rappresentazionalistica della percezione e fa di quest’ultima il luogo originario della manifestatività. Questa tematica trova poi il suo compimento nel concetto di sintesi passiva: il campo sensibile dell’esperienza, per lo Husserl più maturo, non è messo in forma da un’attività del soggetto, ma si struttura in virtù di proprie sintesi passive ed è dotato quindi di una legalità autonoma.
In secondo luogo e di conseguenza, per Husserl la riduzione non conduce a una soggettività chiusa in sé, ma alla correlazione intenzionale tra gli atti dell’io e le cose nel loro apparire, tra i molteplici modi di datità di una cosa e la cosa identica che in questi modi si manifesta. I correlati oggettuali dell’io non devono dunque essere sacrificati sull’altare di una concezione mitica dell’evidenza, né sono qualcosa che verrebbe trascurato a favore della sola immanenza della coscienza, ma rientrano a pieno titolo nel campo trascendentale della manifestatività dischiuso dalla riduzione fenomenologica e anche ad essi spetta dunque il titolo dell’evidenza. A questo proposito Costa ricostruisce efficacemente la formazione progressiva nel pensiero di Husserl della posizione trascendentale. È con l’introduzione della tematica della temporalità (in particolare, del concetto di ritenzione), con l’estensione dell’analisi fenomenologica al campo oggettuale (quindi con l’idea dell’inclusione non reale ma intenzionale del noema) e, in seguito, con la tematica dell’orizzonte che Husserl approda progressivamente a un piano trascendentale, che sia in grado di rendere conto veramente del costituirsi della trascendenza del mondo e degli oggetti nel loro apparire a un io.
È a partire da queste basi che Costa cerca di delineare un’immagine innovativa e non-soggettivistica della fenomenologia, facendo leva sulle acquisizioni più radicali dell’ultima riflessione husserliana (e al tempo stesso, ci sembra, riecheggiando liberamente alcuni motivi derridiani, seppur rigorosamente re-inseriti nel quadro husserliano). Questa interpretazione si riflette, per così dire, su entrambi i lati della correlazione fenomenologica. Il tema della soggettività in Husserl non deve essere interpretato in un senso idealistico tradizionale: la soggettività non crea, non plasma né mette in forma il mondo, dal momento che ogni presa di coscienza soggettiva è preceduta dalle sintesi passive che si attuano nell’esperienza in modo pre-egologico; la soggettività non è altro che il luogo di manifestatività del mondo stesso, così come gli atti soggettivi non sono un conferimento di senso, ma la risposta all’affezione e alla donazione provenienti dal mondo. L’assolutezza della coscienza trascendentale non rinvia dunque a un motivo idealistico, ma al movimento stesso dell’apparire.
Dall’altro lato, ciò che la riduzione mira ad aprire non è un’evidenza soggettiva immediata, ma quel campo di manifestatività rappresentato dal mondo come sintesi universale di orizzonti. L’orizzonte rappresenta un concetto cardine della fenomenologia trascendentale, dal momento che tutto ciò che appare può farlo solo all’interno del mondo come intreccio di implicazioni intenzionali. Il campo a cui mira la fenomenologia è dunque proprio il mondo come intreccio di orizzonti, di presenza e assenza, ed è per questo che in realtà l’evidenza di un fenomeno non è né immediata né distinta. L’evidenza è una traccia, è il tracciarsi in ogni fenomeno della rete di rimandi associativi e temporali che lo accompagnano e che lo costituiscono come tale; l’evidenza «piena» è dunque impossibile, ma questa impossibilità non impedisce il riferimento alla nozione di verità come polo teleologico. Questo riferimento si radica in particolare nella struttura intenzionale della percezione e nel ruolo svolto dal concetto di noema: il noema, ossia il modo in cui la cosa appare ed è appresa di volta in volta, è una via verso il reale, è un’aspettativa temporale – che si conferma e corregge nel decorso dell’esperienza – nei confronti del suo riferimento, ossia l’oggetto reale nella totalità delle sue possibili apparizioni, posto come polo teleologico della nostra esperienza. Si mostra così la solidarietà reciproca tra la struttura intenzionale della percezione, la nozione di teleologia e l’idea di verità come adeguazione.
Queste tematiche vengono approfondite nell’ultimo capitolo in riferimento alla questione della storicità. La sola percezione non basta infatti a determinare il concreto mondo circostante in cui viviamo, che è costituito da significati concreti e storicamente determinati. Il significato primario con cui incontriamo qualcosa è costituito dalle possibilità d’azione offerte da questa stessa cosa all’interno di un mondo come totalità storica di rimandi. Il mondo è dunque un apriori trascendentale e fenomenologico, dal momento che esso, come totalità ed orizzonte, è la condizione di possibilità dell’apparire dei vari significati storici al suo interno. Se  queste analisi ci sembrano far leva anche sui risultati raggiunti in precedenti studi dedicati dallo stesso Costa a Heidegger (La verità del mondo e Esperire e parlare), esse vengono tuttavia sviluppate qui proprio attraverso una serrata polemica nei confronti di quest’ultimo. In Heidegger, secondo Costa, la verità è sempre e solo relativa ad aperture storiche incomunicabili tra loro e si risolve integralmente in queste, il che condurrebbe in ultima analisi a rinunciare alla nozione stessa di verità e a sostenere un relativismo storicistico. Da questo punto di vista Costa difende, invece, attraverso la distinzione tra significato e riferimento, l’idea husserliana di un identico mondo percettivo invariante al fondo dei diversi mondi storici: come nelle diverse prospettive della percezione attraverso il noema ci riferiamo all’oggetto reale in quanto polo teleologico, così i diversi mondi storici di significati hanno un identico riferimento, il mondo percettivo uguale per tutti. È questo riferimento che mantiene i diversi mondi storici aperti alla correzione e alla verità come adeguazione teleologica. La distinzione tra rappresentazione del mondo e mondo in sé è del resto l’atto stesso di nascita della filosofia, che scaturisce dallo stupore come sua tonalità emotiva originaria: all’alba della filosofia greca, nello stupore ha luogo l’apertura al mondo nella sua distinzione dalle singole cose, al mondo in sé distinto dalle sue diverse rappresentazioni, dunque quell’apertura al vero essere e alla differenza infinita tra sapere e realtà che determina la verità come teleologia e che costituisce la coscienza stessa dell’Occidente.
Il cerchio e l’ellisse si segnala, oltre che per la padronanza storica e testuale dell’opera husserliana, per la grande chiarezza e incisività con cui sono esposti sia il pensiero di Husserl sia le tesi interpretative e le opzioni teoriche dell’autore, così come per la capacità di legare costantemente i problemi e gli esempi apparentemente più minuti con le questioni filosofiche che stanno al loro fondo. Se è ancora oggi aperto il dibattito sulla fenomenologia e nella fenomenologia, è forse utile segnalare alcune importanti scelte teoriche e interpretative di carattere generale sul senso stesso della fenomenologia, che ci sembrano all’opera nel testo di Costa: 1) come avevamo anticipato, Costa mostra la possibilità di un’interpretazione radicalmente non-soggettivistica  e anti-cartesiana di Husserl, basata sulla correlazione tra una coscienza che non sarebbe altro che il luogo di accoglienza della manifestatività e il mondo come orizzonte universale; la valorizzazione di quest’ultimo tema, come si è visto, fa cadere anche l’accusa per cui Husserl mirerebbe a una presenza piena. Dal che consegue anche un sostanziale privilegio della fase più matura dell’opera husserliana, caratterizzata dai temi della genesi e della passività; 2) se questa interpretazione permette di respingere l’accusa di cartesianesimo, essa implica però anche il rigetto di quelle posizioni che identifichino positivamente l’impresa della fenomenologia con la ricerca un’impossibile presenza piena, di un’evidenza immediata e accecante, di un’assoluta immanenza: il campo della fenomenologia è invece rappresentato dall’intenzionalità (come ciò che esteriorizza dall’origine il soggetto) e dal mondo (come intreccio di orizzonti segnato da una contaminazione essenziale della presenza e dell’assenza). Significativi, in questo senso, i diversi riferimenti polemici alle posizioni di M. Henry; 3) che la fenomenologia stessa porti a mettere in luce l’impossibilità di un’evidenza piena e definitiva non deve però condurre a un elogio dell’ambiguità, dello slittamento di senso o della relatività di ogni significato: la fenomenologia deve garantire comunque un esame rigoroso e razionale del campo dell’esperienza e mantenere un riferimento essenziale alla nozione di verità; 4) l’interpretazione in chiave non-soggettivistica di Husserl non avviene piegandone il pensiero in una direzione realistica o descrittivo-mondana, ma proprio rivendicando nel suo senso autentico e nella sua versione più matura l’impostazione trascendentale, che ha nella temporalità, nell’orizzonte e nella passività i suoi cardini. Significativa è in questo senso l’interpretazione fornita delle Ricerche logiche (nella loro prima edizione), che, secondo Costa, sono il testo in cui è maggiormente presente una concezione «cartesiana» dell’evidenza: con una formula apparentemente paradossale, che ci sembra però rispecchiare l’interpretazione dell’autore, si potrebbe dire che le Ricerche logiche (generalmente richiamate come una versione «realistica» o comunque pre-idealistica della fenomenologia) sono in realtà l’opera più «cartesiana» proprio perché non ancora pienamente trascendentale; 5) in un periodo in cui fiorisce il dibattito sulle neuroscienze, sulle loro scoperte e i loro riflessi, così come su una possibile «neurofenomenologia», Costa richiama a questo proposito in modo chiaro quella che non può che essere la posizione di una fenomenologia trascendentale: ogni riduzionismo naturalistico è un fraintendimento della problematica fenomenologica, perché indicare quali neuroni o quali parti del cervello entrino in azione quando faccio una determinata esperienza non mi insegna nulla su questa esperienza stessa; e questo per la semplice ma decisiva ragione che nel cervello non accadono esperienze, ma eventi fisici, mentre che cosa sia una percezione lo posso apprendere solo dall’esperienza, ossia mettendo in luce le caratteristiche descrittive ed essenziali che distinguono la percezione da altre esperienze in relazione all’intenzionalità e alla manifestatività. La problematica trascendentale mantiene dunque la propria distinzione, così come la filosofia più in generale dovrebbe mantenere la sua autonomia e il suo ruolo non semplicemente ancillare nei confronti di altri campi del sapere.
È su alcune delle tesi dell’ultimo capitolo che ci sentiremmo di esprimere dei dubbi, pur nell’interesse delle analisi presentate. L’idea di un mondo percettivo identico e invariante in tutti i mondi storici, difesa da Husserl e da Costa, rischia infatti di essere una nuova forma di idealizzazione proiettata sul concreto mondo della vita, una costruzione astratta e teoreticistica, imposta (più che dimostrata) dall’impostazione epistemologico-fondativa di Husserl e dalla sua polemica anti-relativistica; si tratta, non a caso, di un’idea messa in discussione sia da altri fenomenologi, sia da diversi commentatori. Non potendo affrontare qui la questione con l’ampiezza che essa richiederebbe, ci limitiamo ad attirare l’attenzione su due punti di possibile discussione: 1) come abbiamo visto, questa impostazione è proposta sostanzialmente attraverso un’analogia tra l’esperienza percettiva (noemi/oggetto reale) e l’esperienza del mondo (diversi mondi storici/mondo percettivo invariante); si tratta di un’analogia che compare nello stesso Husserl, il quale nella Crisi parla a più riprese del mondo come Idea teleologica, rispetto al quale i singoli mondi della vita storici sono delle apparizioni finite. Ma, se ogni fenomenologia del mondo deve innanzitutto garantire la differenza essenziale tra il modo di essere del mondo stesso e il modo di essere delle cose, ci si deve interrogare ogni volta in linea di principio sulla legittimità della trasposizione di certi concetti, schemi di esperienza o strumenti metodologici (ad esempio, la variazione eidetica) dalle singole cose al mondo: l’analogia qui operata tra i poli dell’esperienza percettiva e quelli dell’esperienza del mondo dovrebbe quantomeno essere problematizzata e giustificata proprio alla luce di quel principio, perché il mondo non è una grande «cosa» che si «adombri» nelle sue apparizioni. Inoltre, si tratterebbe di chiedersi se si tratti qui di una interpretazione fedele dell’esperienza, cioè se il senso di esperienza di un mondo storico consista proprio nell’essere riferito a un mondo percettivo invariante come nella percezione si è riferiti all’oggetto; e questo anche perché l’analogia tra i due piani incontra inevitabilmente un limite: mentre l’oggetto reale funziona da polo teleologico delle diverse apparizioni e percezioni (come idea della loro totalità), non avrebbe evidentemente senso attribuire un’analoga funzione al mondo percettivo rispetto ai diversi mondi storici; 2) è inoltre la questione del confronto tra Husserl e Heidegger sul tema della storicità che andrebbe sviluppata al di là di un mero appiattimento del secondo su una posizione storicistico-relativistica. Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se in Heidegger i differenti mondi storici siano veramente incomunicabili perché interamente chiusi al proprio interno o se, invece, l’apertura storica non sia per Heidegger costitutivamente «differenziale», abitata al suo interno da una differenza che le impedisce di coincidere semplicemente con sé: essa è infatti pensata a partire dall’idea «conflittuale» della verità come aletheia (rapporto di manifestazione e nascondimento) e dal movimento del destinarsi storico (anch’esso rapporto di donazione e sottrazione). Inoltre, se si pensa alla distinzione tra Mondo e Terra che Heidegger descrive nell’Origine dell’opera d’arte, la Terra indica ciò che sta al fondo di ogni mondo senza potersi risolvere mai integralmente nella rete di significati che costituisce un singolo mondo storico (tanto che Heidegger pone tra i due un rapporto di «lotta», per il quale ciascuno dei poli tenta di assorbire e dominare l’altro). Si tratterebbe, quindi, di chiedersi se non sia possibile riproporre l’importante questione del rapporto tra un mondo storico e gli altri, tra ogni singolo mondo e l’idea di verità, o in altri termini la questione di una «tensione» o di una «tendenza» (non necessariamente teleologica) che abita ogni mondo, al di là dell’alternativa tra un mero relativismo storicistico e l’idea astratta di uno strato percettivo invariante.

PUBBLICATO IL : 28-01-2009

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