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Girolamo De Michele, Felicità e storia , Quodlibet, 2001.
di Dario Gentili

Girolamo De Michele è noto agli studiosi dell’opera di Walter Benjamin soprattutto per il prezioso libro Tiri mancini. Walter Benjamin e la critica italiana (Mimesis, 2000), dove analizza la storia della ricezione italiana degli scritti del filosofo e critico letterario berlinese, che proprio in Italia, più che nella stessa Germania, hanno trovato una importante accoglienza e hanno caratterizzato la riflessione di più di una generazione di filosofi italiani a tal punto che, anche di recente, il pensiero benjaminiano sta riscontrando un rinnovato e originale interesse. Gli studiosi di Benjamin hanno avuto poi l’occasione di seguire, in articoli e saggi apparsi su riviste specializzate, lo sviluppo e l’approfondimento della riflessione di De Michele sulle tematiche benjaminiane: quest’ultimo libro, Felicità e storia, li raccoglie tutti, evidenziando il progetto unitario che a essi soggiaceva. Eppure, Felicità e storia non è semplicemente un libro su Benjamin: si potrebbe dire piuttosto che le categorie di pensiero di Benjamin rappresentano il luogo teoretico dove si incontrano e si confrontano autori delle più diverse estrazioni filosofiche, quali Deleuze, Blumenberg, Leopardi, Kafka, Arendt, Hjemslev, Bruno e Spinoza. Infatti, il primo aspetto che colpisce del libro di De Michele è la grande varietà di riferimenti, che s’incrociano con estrema libertà a dialogare sul tema centrale della felicità; non soltanto filosofi e affini, ma anche Eduardo De Filippo, Stanley Kubrick, Sofocle ed Emir Kusturica e altri che quasi certamente stiamo dimenticando. Forse consapevole che una così diversa varietà di interlocutori potrebbe distrarre dal nucleo tematico del libro, nella Presentazione del testo, De Michele tiene a puntualizzare che «tutti i pensatori che movimento nel mio libro (eccezion fatta per Benjamin, forse) sono trattati solo in funzione del taglio tematico, che è mio, e di cui rispondo» [p. 9].

Effettivamente non soltanto il gran numero di riferimenti, ma anche la diversità degli ambiti filosofici su cui De Michele esercita la sua riflessione potrebbe indurre a porre in secondo piano l’unico tema che lega importanti questioni di filosofia politica, filosofia del linguaggio, estetica, filosofia della storia; nonostante ciò, la traccia da non perdere di vista è espressa in modo chiaro e semplice fin da subito: «affermare il diritto alla felicità dei nuovi e vecchi miserabili significa porsi il problema della possibilità di una felicità fuori e contro il corso della storia, fuori e contro la sua giustificazione come corso univoco e ineluttabile» [p. 20]. Per chi non è completamente digiuno di filosofia benjaminiana, non è difficile riconoscere una forte familiarità con le questioni delle Tesi sul concetto di storia di Benjamin. Eppure, De Michele affronta la complessa ed essenziale idea benjaminiana di felicità già con un deciso taglio interpretativo: la felicità di cui tratta Benjamin è immediatamente caratterizzata con l’attributo di possibile, una felicità possibile “fuori e contro” l’infelicità della storia reale ed effettiva. Dunque, quella “e” che nel titolo del libro lega felicità e storia andrebbe interpretata come una disgiunzione dei due termini: felicità contro storia, perché De Michele intende la storia nel senso del “mattatoio” hegeliano, dove la felicità dei popoli e degli individui deve sottostare e soccombere alla razionalità di un fine ultimo del corso storico, che corrisponde sempre al senso della storia dei vincitori, che procede inesorabilmente e ineluttabilmente attraverso l’infelicità delle benjaminiane “generazioni senza nome di sconfitti”; oppure la storia acquisisce il carattere della natura matrigna di Leopardi, generosa dispensatrice di umana infelicità.

Se non nella storia, orizzonte nel quale l’uomo è costretto ad abbandonare ogni pretesa di felicità, De Michele prova a cercare nella politica il luogo proprio della ricerca di una felicità possibile. In questo tentativo, De Michele tematizza la concezione arendtiana di felicità pubblica: il singolo individuo è incapace di realizzare in una vita contemplativa e isolata tutte quelle potenzialità della sua spinoziana potentia essendi; quindi, è nella vita activa alla quale la comunità politica lo chiama, che l’individuo può trovare la felicità. Tuttavia, secondo la Arendt, a differenza della civiltà greca, la modernità ha negato ogni possibile rapporto tra felicità privata e felicità pubblica e ogni possibilità di realizzare nella vita politica la felicità possibile; De Michele denuncia chiaramente tale scacco come paradosso della felicità: «solo la dimensione pubblica sembra consentire la realizzazione della felicità degli individui; ma le forme politiche in cui potrebbe attuarsi questa felicità pubblica sono, per l’appunto, la negazione pratica di questa possibilità teorica. Dunque la possibilità teorica della felicità comporta l’impossibilità pratica della sua attuazione» [pp. 59-60]. Se al di fuori di sé l’uomo non trova, se non in via teorica, un orizzonte in cui realizzare il proprio essere in potenza, con dichiarato riferimento a Spinoza, De Michele ricorre al piano ontologico di una soggettività potenziale, dove essere e potenza coincidono: la potentia essendi è essentia actuosa.

La concezione di un soggetto potenziale è declinata nel capitolo a nostro parere più interessante del libro, Creature incompiute e mondi complementari, dove questa idea trova la sua espressione migliore in una certa tipologia di personaggi dell’universo letterario di Kafka. Si tratta, appunto, di quei personaggi kafkiani assolutamente ribelli a ogni riduzione della soggettività a funzione che, in conseguenza della mercificazione dell’uomo a vuoto valore di scambio, si realizza totalmente nell’attività che il sistema sociale prevede per essi: “sono addetto alle bastonate, dunque bastono” dicono i bastonatori a Josef K. che chiede loro le ragioni del loro comportamento. Invece, esempi di soggettività potenziale sono, corroborando la tesi del saggio di Benjamin su Kafka del 1934, i messaggeri che non possono realizzare la propria funzione in quanto non portano a destinazione il messaggio oppure questo perde completamente di contenuto e scopo: essi sono pura relazione e, dunque, pura possibilità; non necessitano di portare a compimento il proprio compito per essere. Tuttavia, il più radicale prototipo del soggetto potenziale è il protagonista del racconto kafkiano Gli affanni del padre di famiglia, Odradek; scrive De Michele: «Odradek esiste, ma non ha alcuna funzione; ha una forma, ma è informe; è sospeso in una dimensione intermedia tra una possibile defunzionalizzazione trascorsa e l’impossibilità di una rifunzionalizzazione attuale» [p. 141]. Il soggetto potenziale si nega a ogni possibile sistema di riferimento per la sua realizzazione: la realtà rappresenta per il suo essere-possibilità un limite insuperabile, oltre il quale deve abbandonare ogni speranza di felicità. Il soggetto potenziale, che risulta dal percorso filosofico di Felicità e storia, rappresenta la teorizzazione della resistenza alla violenza di ogni forma di stato di fatto, sua unica attività possibile è la sottrazione e il rifiuto: per De Michele, figure paradigmatiche in questo senso sono lo Zi’ Nicola di Le voci di dentro di De Filippo, il Nero di Underground di Kusturica e, soprattutto, Edipo dell’Edipo a Colono di Sofocle, che, di fronte a una realtà storica e politica in cui non si riconoscono, decidono di scomparire, di rendersi impercettibili.

Per concludere, Felicità e storia è un libro ricchissimo di spunti ed estremamente stimolante, anche perché riesce a tematizzare, in particolare per quanto riguarda il pensiero di Benjamin, quelle questioni che più di altre rispondono a quei richiami alla militanza (De Michele stesso definisce il suo libro come un’opera di “filosofia militante”), che l’attualità rivolge alla filosofia. Comunque, vogliamo evidenziare una problematica che, secondo noi, emerge dal taglio della nostra lettura di Felicità e storia: la felicità come possibilità assoluta, sciolta dalla rischiosa esigenza di provare se stessa nell’effettiva realtà storica e politica, dal punto di vista della sua reale praticabilità si marchia dell’impossibilità di ogni felicità. Che disertando la realtà e negando la propria partecipazione al “mattatoio” della storia si denunci che la possibilità della felicità è pur sempre altrove e che il rifiuto è pur sempre un gesto di sovrana autodeterminazione individuale, rappresenta certamente un segno di speranza; ma affermare, con De Michele che cita Blumenberg, che l’idea di felicità deve assolutamente evitare ogni pretesa di una sua definitiva realizzazione non significa affatto sottrarre la felicità alla storia, anzi. Non è forse proprio Benjamin a concepire il tempo della storia come segnato dall’esigenza messianica di giustizia che viene dal passato e che si presenta come una possibilità reale, in quanto storica, per coloro che sapranno farsene carico? Non è ancora Benjamin che individua proprio nell’idea di felicità quel ritmo intermittente della natura messianica, che impone la caducità a ogni pretesa di irrigidire nel dominio e nel compimento il tempo della storia? Pur criticando severamente una concezione della storia di matrice positivistica, che De Michele prende a paradigma della storia da disertare, Benjamin propone un concetto di storia alternativo a questa in quanto, a suo avviso, effettivamente e radicalmente storico; nella II delle Tesi sul concetto di storia, Benjamin scrive: «nell’idea di felicità risuona ineliminabile l’idea di redenzione. Ed è lo stesso per l’idea che la storia ha del passato. Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione».

PUBBLICATO IL : 01-01-2005

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