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G. Falcicchio (a cura di), La pedagogia di Aldo Capitini tra profezia e liberazione , Kaiṛs, 2008.
di Emanuele Profumi

Chi si ricorda di Aldo Capitini? Tra i filosofi della religione più originali vissuti nel nostro paese durante il secolo scorso, accade solo di rado che qualche coraggiosa casa editrice ne pubblichi i lavori. Tuttavia la riflessione sul suo pensiero continua ad avanzare come una falda acquifera che, di tanto in tanto, emerge in superficie con un flutto improvviso quanto vitale. Ne è un'ulteriore conferma il volume “La pedagogia di Aldo Capitini tra profezia e liberazione”, curata da Gabriella Falcicchio per il gruppo “Kairòs”, che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Pienza poco più di un anno fa grazie al lavoro dell'Associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini e ad un triplice patrocinio istituzionale (Comune di Pienza, Provincia di Siena e Regione Toscana). Testo disponibile scrivendo a kairos.associazione@gmail.com.
L'insieme dei saggi è fortemente orientato alla diffusione e alla spiegazione dell'importanza e del senso dell'impegno pedagogico del pensatore umbro, a partire dall'analisi differenziata dei diversi ambiti in cui il suo paradigma educativo ebbe uno sviluppo significativo. In particolare viene posto l'accento sia sulla portata nonviolenta che lo caratterizza sia sull'attualità pedagogica del suo orizzonte.
Come sottolinea Massimo Pomi, Capitini è forse il più rimosso classico pedagogico del Novecento italiano (p. 41). Maestro di inquietudine e di ribellione contro l'ingiustizia, Capitini sviluppa una pedagogia della tramutazione in cui il metodo pedagogico è indistricabilmente legato ai motivi politici, etici e religiosi e al nucleo generatore de ”l'andare oltre”, vettore etico-ideale dell'agire e del pensare (…) a cui risponde una possibilità onto-antropologica, il potere essere altrimenti, che appare, alla fine, ma con un linguaggio altro da quello del nostro, la condizione trascendentale dell'eventualità stessa dell'essere in educazione (p. 48).In questo si racchiude il senso principale della proposta profetica del filosofo nonviolento: educazione permanente alla rottura con l'ordine costituito e alla prefigurazione dell'ulteriore e dell'alterità nell'annuncio della realtà liberata dai limiti della violenza nei suoi diversi aspetti (diretta come strutturale, implicita come esplicita, etc). Mentre Tiziana Pironi, chiarendo l'importanza del dialogo di Capitini con Kant da una parte e Don Milani e Danilo Dolci dall'altra, ricorda come l'educazione nonviolenta sia il portato di un'elaborazione esistenziale sul problema della finitudine, espressa nel dissenso esplicito all'idealismo gentiliano. La Pironi individua, giustamente, in Gandhi la stella polare della prima meditazione capitiniana sulla nonviolenza, direttiva costante della sua personalità e del suo lavoro. Nel suo saggio viene anche ricordato il dibattito che si svolse tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni sessanta sulla scuola italiana, in cui Capitini giocò un ruolo di primo piano proponendo una scuola aperta in cui i principi della nonviolenza prendono forma nell'autogoverno, nella democrazia consiliare e nella collaborazione tra la scuola e l'ambiente sociale in cui è inserita. In questa prospettiva Gabriella Falcicchio sostiene che anche nell'educazione, dunque, la voce di Capitini risuona vigorosa e chiama a ribaltare le logiche consuete, i modi di pensare sedimentati e insufficienti ad avviare la liberazione (p. 13). La Falcicchio, avvicina implicitamente Capitini a Maria Montessori, perché ritiene che nella sua pedagogia c'è bisogno che l'educatore compia il movimento contrario: portare il mondo all'altezza del fanciullo, cioè spendere la propria esistenza per renderlo degno di lui e della festa che solo lui potrà celebrare(p. 13); allontanandolo da quella mentalità educativa, oggi tanto diffusa, che orienta l'intero percorso formativo dell'individuo sulla base di logiche mercantili.
L'attualità pedagogica dell'educazione nonviolenta viene evidenziata anche da alcuni contributi che affrontano alcune questioni specifiche. Se Marco Catarci ci racconta l'impegno capitiniano per la diffusione del “Giornale Scuola” (strumento di educazione per gli adulti) e per la diffusione di una formazione del cittadino alla vita sociale, individuando nell'educazione alla pace la pratica principale per avanzare un'educazione alla cittadinanza (che risponde alle necessità di qualsiasi collettività democratica), è perché le esperienze educative capitiniane hanno una loro attualità: organizzazione dell'istituto scolastico come un collettivo, una comunità con elementi democratici; iniziative di intervento della comunità scolastica nella società circostante; visite degli allievi a enti, istituti, associazioni, assemblee per coglierne il valore e il funzionamento; lavoro cooperativo in gruppi; attività dialogiche, di discussione e di comunicazioni con gli altri; corrispondenza inter-scolastica, scambio di studenti e viaggi; revisione dei programmi, che contengono insufficienti nozioni sui metodi di lotta civile e sulle strategie di gestione dei conflitti (p. 122). La stessa attualità che emerge quando Adriana Croci porta la propria testimonianza dell'insegnamento ai diversamente abili sulla base dell'approccio capitiniano alla crescita umana (che distingue tra evento e persona) (pp. 89-94). Ma anche quando Andrea Tortoreto sostiene che questa si possa trovare in ambito estetico, sintetizzandone il portato in questo modo: l'arte si inserisce quale mezzo educativo in grado di mostrare l'ulteriorità valoriale, quell'aggiunta etico-religiosa che è il tramite per la realtà di tutti (p. 153).
Nonostante la ricchezza dei contributi, alcuni limiti vanno segnalati. In primo luogo, la centralità della nonoviolenza in Capitini non può essere compresa senza fare riferimento al contesto storico nella quale nacque e contro cui si sviluppò: il fascismo e la repubblica democratica nata dalle sue ceneri che, per il Nostro, rimaneva segnata in profondità da quell'esperienza. L'opposizione al fascismo è il contesto generativo del suo pensiero e della sua azione, ma, nonostante qualche riferimento rapido e sporadico (Tortoreto, Pironi, Pomi, Granese e Moscati), non gli viene dato il rilievo che merita. Inoltre i riferimenti espliciti (Cambi e Pomi) e impliciti (Luisa Santilli Beccegato) alla vicinanza tra il principio speranza di Ernest Bloch e l'approccio capitiniano alla tramutazione,  nascono da un'estensione del concetto di utopia che non sembra giustificato (Capitini stesso si considerò, a limite, un mistico pratico): l'azione nonviolenta non è semplicemente creazione di nuove possibilità oggettive insite nel reale a partire dall'inserimento dell'intenzione nell'accadere del mondo, come vuole Bloch, ma ribaltamento radicale e qualitativo della realtà per aprirvi le possibilità stesse dell'emancipazione a partire dal problema centrale della loro limitazione drammatica nel presente. Infine non è convincente la tesi di chi vuole fare della nonviolenza capitiniana uno strumento operativo di qualcosa di più profondo (i principi etici-antropologici-politici dell'esperienza dell'apertura in Cambi e l'apertura in Pomi), perché in questo modo non si  vede che le tecniche della nonviolenza per il nostro filosofo sono l'espressione stessa dell'emancipazione umana, contemporaneamente mezzo, motore e fine dell'esistenza liberata.
Due saggi hanno il merito di consegnarci un Capitini non semplicemente educatore ma rivoluzionario, legando, nella loro ricostruzione analitica, a doppio vincolo la sua proposta pedagogica con quella politica, sulla base della centralità dell'idea e della pratica di rinnovamento dell'emancipazione umana. Per Franco Cambi il filosofo umbro va inserito nel paradigma dell'emancipazione che ha dominato la pedagogia del novecento. Dewey, Gramsci, Maritain o la Montessori, così come Suchodolski, Freire, Illich o Morin, sono altri importanti esponenti di questa tendenza. La forza di tutta l'opera di Capitini (dagli Elementi alla Compresenza) è quella di interpretare questo paradigma portandolo al limite: la sua filosofia pratica si richiama ad uno sviluppo totale di umanità in tutti e in ciascuno; anzi, è a partire da questo sviluppo che si crea quella “nuova socialità” capace di produrre comunicazione tra io-tu-tutti e omnicrazia, da un lato, come pure apertura profetica verso forme di vita in cui siano i valori a fare da cemento e da regola, dall'altro. (…). L'educazione è dovunque e deve farsi carico di questa emancipazione universale: di tutti e di tutta la realtà connessa ai valori della non-violenza e della comunicazione (…) (p. 18). E' così che, per Cambi, i C.O.S., le tecniche della nonviolenza, così come le sue battaglie per il rinnovamento della scuola, appartengono ad una stessa prassi d'apertura che non permette d'isolare l'azione e il pensiero politico dall'attività pedagogica. Dello stesso avviso è Giuseppe Moscati che sostiene che riformare, riaprendole, la società e la politica e in generale la sfera dell'azione e del pensiero, equivale allora a operare educativamente; e qui educativo è ciò che in ultima analisi finisce per coincidere con la prassi collettiva, con la realtà di tutti, con la comunità da ripensare e creare ogni giorno. (…). In questa linea rientra anche tutto quell'insieme di studi capitiniani tesi a riformare la scuola come luogo di elezione del farsi cittadini, guardando a una scuola nuova per una nuova società. Che conclude ritenendo che la partecipazione -vera e propria educazione civica all'apertura, all'inclusione, alla piena condivisione di spazi comuni nonché alla formazione di una ragione kantianamente critica, frutto peraltro di un'autoeducazione -si fa quasi una sorta di compresenza politica in senso lato, diventando così prezioso antidoto alla cristallizzazione del potere. Per ogni singolo soggetto, proprio il potere viene anzi a costituire una sfida perché venga finalmente “liberato”: esso richiede infatti un incessante impegno di riapertura per non scadere a dominio e per essere trasformato in un autentico pensare e fare insieme (pp. 132/142).

Se il fertile contributo di Moscati ci permette di intravedere uno sviluppo in senso emancipativo della separazione foucaultiana tra potere e dominio, non affronta però il problema irrisolto che resta sullo sfondo di tutto il volume: qual'è il legame nonviolento tra politica ed educazione? In Capitini giocano uno stesso ruolo? Cosa condividono intimamente? Oltre il paradigma capitiniano, cosa le porta a confliggere e a distinguersi?
PUBBLICATO IL : 13-12-2009

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