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Georges Didi-Huberman, Quand les images prennent position. L'Oeil de l'histoire. 1 , Les Éditions de Minuit, 2009.
di Marie Rebecchi

Quand les images prennent position è il penultimo lavoro dello storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman uscito presso Les Éditions de Minuit nella collana "Paradoxe" – il suo ultimo libro, Survivance des lucioles, uscirà il prossimo 8 ottobre nella stessa collana – ed è il primo di una promettente serie intitolata "L’Oeil de l’histoire". Il saggio in questione – pubblicato nel 2008 in spagnolo con il titolo Cuando les imàgenes toman posición e, in seguito, in francese–tenta di ricostruire il metodo di lavoro e la riflessione teorica condotta da Bertolt Brecht dal 1933 al 1955, durante il suo lungo ed errabondo esilio iniziato il 28 febbraio del ’33 all’indomani dell’incendio del Reichstag. L’interesse principale di Didi-Huberman è quello di provare a ricostruire il processo concreto di realizzazione di due opere che esulano dal resto della produzione poetica e teatrale del drammaturgo tedesco: l’Arbeitsjournal (Diario di lavoro [1938-55], trad.it.Einaudi, Torino 1976) e la Kriegsfibel (L’Abicì della guerra [1955], trad.it. Einaudi, Torino 2002). Secondo l’autore, infatti, entrambi questi progetti condividono lo stesso metodo di rappresentazione e di esposizione della guerra: il montaggio di testi e immagini.
Nell’Arbeitsjournal Brecht ritaglia e ricompone ogni giorno, sulle pagine del suo diario di lavoro, fotografie e articoli tratti dai giornali dell’epoca, confrontando la Storia attuale con la storia singolare della propria vita personale e intellettuale.
Negli stessi anni, Brecht porta a compimento anche il progetto pedagogico d’illustrare la guerra ai bambini. A questo scopo ritaglia, archivia, dispone e monta in una sorta di abbecedario di guerra (Kriegsfibel) le immagini ritenute drammaticamente più efficaci a rappresentare e testimoniare l’orrore della guerra. Ponendo in calce a ciascuna fotografia una quartina, Brecht realizza dei veri e propri «epigrammi fotografici» (p. 46) che, lungi dallo svolgere una funzione didascalica di enfatizzazione dell’immagine, si rivelano piuttosto un’affilata arma poetica  « contre toute politique des armes » (p.45).
Il saggio di Didi-Huberman si sviluppa seguendo un andamento dialettico – che sembra rimandare al movimento stesso della dialettica brechtiana caratterizzata, secondo l’autore, da « l’infernale relance des contradictions et, donc, la fatalité d’une non-synthèse » (p. 94) – in cui ciascun momento è a sua volta articolato in una complessa catena di mots clés. La tesi del primo capitolo è: «La position de l’exile: Exposer la guerre». La prima questione posta da Didi-Huberman nell’affrontare l’Arbeitsjournal e la Kriegsfibel è, pertanto, di ordine topologico: dove si posiziona Brecht quando osserva e descrive la guerra? Per rispondere a questo interrogativo, l’autore si serve della prima mot clé: esilio. Per saper osservare la guerra bisogna, innanzitutto, prendere posizione. «Pour savoir il faut prendre position. Rien de simple dans un tel geste» (p. 11). Per sapere occorre conoscere il significato della parola resistenza, ovvero la volontà filosofica e politica di rompere le barriere dell’opinione e  d’implicarsi (s’impliquer), andando al cuore delle cose. Ma, bisogna anche riuscire a prendere le distanze (s’écarter), come un pittore quando si distanzia dalla propria tela per sapere a che punto è il suo lavoro (p. 12). Per prendere posizione è, dunque, necessario avvicinarsi e distanziarsi al contempo, in una sorta di contatto interrotto. Secondo Didi-Huberman la posizione dell’esilio, consente a Brecht di esporsi alla guerra dalla giusta distanza; da questa  prospettiva infatti, senza mai essere mobilitato in prima persona sul campo di battaglia, Brecht ha potuto osservare la guerra, trasformando la sua situazione di «vita mutilata»in una posizione di sapere dalla quale poter pensare e scrivere malgré tout.
Dopo aver affermato l’importanza della posizione dell’esilio per poter osservare  perspicuamente e descrivere sapientemente la guerra, nel secondo capitolo Didi-Huberman affronta il tema, apparentemente contradditorio, della dis-posizioneverso le cose (la disposition aux choses) come forma di conoscenza attraverso l’effetto di distanziamento o, nel linguaggio brechtiano, di straneamento (effetto Verfremdung). Distanziarsi dall’oggetto d’indagine non corrisponde ad un banale allontanamento da questo, ma comporta necessariamente di aguzzare lo sguardo per meglio osservare le differenze: la ‘giusta distanza’ è la presa di posizione per eccellenza. In questo senso distanziare vuol dire mostrare ciò che si mostra, smontando e rimontando il corso degli eventi: «En ce sens, donc, distancier, c’est monter, c’est-à-dire disjoindre les évidence pour mieux ajointer, visuellement et temporellement, les différeneces» (p. 68). Dunque, il montaggio è un metodo di conoscenza e un procedimento formale in grado di dislocare, ricomporre e disporre le differenze.
 Brecht, secondo Didi-Huberman, rinuncia ad un’idea di montaggio ricostruttivo e dimostrativo, privilegiando la tecnica del fotomontaggio di immagini eterogenee connesse dialetticamente tra loro – «un art qui rompt la continuité des narrations, en extrait des différences et, composant ces différences entre elles, restitue la valeur essentialment ‘critique’ de toute historicité » (p. 68) –. Il montaggio, secondo Brecht, è un’operazione che prevede innanzitutto uno smontaggio, un ritaglio – di giornale, nel caso specifico del Kriegsfibel – e una disposizione orientata nella direzione in cui il montatore prende posizione.
Nel terzo capitolo, come a ritardare il momento della sintesi, Didi-Huberman introduce il termine dysposition per mettere in luce, attraverso il prefisso ‘dys’, l’idea di dislocazione e di disorganizzazione presente nella poetica brechtiana. Con il concetto di dysposition l’autore indica una forma di montaggio condivisa non solo da Brecht, ma anche da altri scrittori, pensatori e artisti – Simmel, Freud, Warburg, Bloch – che presero posizione nel dibattito estetico-politico tra le due guerre mondiali, e presero atto del disordine di un mondo ‘fatto a pezzi’. Brecht è riuscito a «organizzare il pessimismo», mostrando lo spazio vuoto tra le singole immagini, disorganizzandone l’ordine di apparizione, dys-ponendo gli oggetti e modificandone la cronologia e la logica di composizione per creare un nuovo dis-ordine. Il fotomontaggio a cui dà vita l’abbecedario di guerra non è altro che un metodo di ricomposizione della storia attraverso le immagini, si può pertanto affermare che Didi-Huberman – come aveva già dimostrato nella sua biografia intellettuale dedicata a Warburg (L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006) – individui nel Diario di lavoro e nell’Abicì della guerra altri due validi esempi di Atlanti di immagini dialettiche.
Nei capitoli successivi il termine posizione subisce ulteriori metamorfosi, introducendo nuove contraddizioni e diversi interrogativi: com-porre le forze per rimontare la politica e inter-porre i campi d’indagine per rimontare la storia. Didi-Huberman, a questo punto, presenta e chiarisce la differenza tra prendere posizione e prendere partito; in questa distinzione emergono le ambiguità e le ambivalenze del pensiero politico e del lavoro intellettuale brechtiano, in costante tensione tra un’«estetica del realismo» e un’ «estetica del montaggio» (p.109). Brecht afferma nei suoi Scritti sulla letteratura e l’arte che il realismo deve essere pensato come uno strumento di lotta politica e che la dialettica deve rappresentare il suo fondamento strategico: per essere coerenti con questo schema ritiene necessario l’ingresso nel Partito (comunista). In questo modo Brecht, prendendo partito e accettando nel 1954 il riconoscimento ufficiale del Premio Stalin, sembra contraddire il valore alternativo del prendere posizione, riscontrabile nel metodo di realizzazione dell’Arbeitsjournal e della Kriegsfibel. Le due opere realizzate durante l’esilio non prendono mai partito, non si piegano ad alcuna forma di estetizzazione dell’arte ma, al contrario, mettono in atto un lavoro inedito d’ «immaginazione politica» e, dunque, di politicizzazione dell’arte (119). Per questo motivo Didi-Huberman sostiene che la Kriegsfibel sia «le livre le plus benjaminien de Bertold Brecht» (119).
Nell’ultimo capitolo, la posizione che l’autore elogia ed elegge a rappresentare l’irresponsabilità e l’impertinenza del ‘montatore’ di fronte alle immagini è la posizione infantile (position enfantine), ludica, inquieta e non dottrinale.
La dialettica del bambino, così come quella del montatore, disorganizzando radicalmente il tenore di prevedibilità che bisogna attendersi dalla «dialettica filosofica», corrisponde all’operazione epistemologica di colui che dyspone gli oggetti in modo imprevedibile, mostrando la loro intrinseca vocazione al disordine. Nella Kriegsfibel non è la verità ad essere ricomposta davanti agli occhi dell’osservatore, ma è lo spettatore stesso che, volgendo lo sguardo verso questo disordine organizzato, porta a leggibilità le immagini connettendole dialetticamente l’una con l’altra: ciascun osservatore è, pertanto, un potenziale montatore. Ma, come recita l’esergo di Ruth Berlau alla Kriegsfibel, leggere le immagini non è affatto cosa semplice:  « Questo libro vuole insegnare l’arte di leggere le immagini. Poiché, per chi non vi è abituato, leggere un’immagine è difficile quanto leggere dei geroglifici. La grande ignoranza sui nessi sociali, che il capitalismo accuratamente e brutalmente conserva, trasforma migliaia di fotografie dei giornali illustrati in vere e proprie iscrizioni geroglifiche, indecifrabili per il lettore sprovveduto » (Berlau, L’Abicì della guerra).

PUBBLICATO IL : 23-01-2010

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