La riflessione di Massimiliano Biscuso sulla “e” di filosofia “e” medicina prende le mosse da una consapevole modestia del lavoro filosofico: non si tratta di fare una filosofia “della” medicina, cioè di assegnare una legittimità epistemologica, in un qualche quadro enciclopedico, a una disciplina altrimenti incapace di fondarsi nei suoi rapporti con le altre. Si tratta piuttosto di constatare la pertinenza tanto dell'una quanto dell'altra a un campo determinato, che è quello di una comune vocazione terapeutica.
La ricerca di Biscuso ci induce a toccare due aspetti di questa problematica. Per un verso la vocazione terapeutica si esercita nella riparazione di quanto si è guastato, nella scoperta dell'interruzione di funzionalità dell'esperienza umana e nella sua cura. L'altro aspetto è quello dietetico (nel senso dell'esercizio permanente di un regime), cioè quello preventivo di un equilibrio nell'uso di sé che permette di evitare per la maggior parte quelle disfunzionalità.
Biscuso non a caso radica la parentela tra filosofia e medicina nello spazio comune aperto dalla sensibilità per l'angoscia e per la sua cura, insomma per la viva percezione del dolore e per l'operosa attività dell'uomo per limitarne quanto più possibile l'incidenza.
I problemi intorno a cui ruota il libro non sono dunque quelli, peraltro urgenti e legittimi, dei modelli di razionalità esplicativa della scientificità medica, o quelli della moralità delle scelte di politica sanitaria pubblica e di strategia terapeutica nei singoli casi di rilevanza bioetica: questo lato del rapporto tra filosofia e medicina (quello, per capirci, che è articolato anche mediante l'apporto dell'ethician o dello specialista di bioetica) viene sottaciuto in questo testo, non tanto perché tematicamente estraneo, ma per una precisa opzione a monte: nel momento, ci pare, in cui si rivendica per entrambe le discipline (filosofia e medicina) un approccio olistico e in un certo senso concorrente (e in parte anche di fatto concorrenziale) all'analisi del problema “uomo”, piuttosto che una mera funzionalità operativa dell'una rispetto all'altra nel sistema della divisione capitalistica del lavoro.
Se Biscuso si muove in questa direzione, è chiaro che la questione centrale diventa quella della rivendicazione di un rapporto della filosofia con la vita che non sia quello di una labile relazione tra la cultura personale, articolata nella filosofia, e l'indole, bensì quello dell'incardinarsi organico della filosofia in una storia personale, come criteriologia di scelta se non anche vero e proprio bíos, stile esistenziale.
Rivendicazione problematica, se è vero che a sua volta la filosofia si divide in numerosi dialetti accademici tra di loro faticosamente traducibili, se non persino in specialismi mimetici della peggiore specializzazione operativa tayloristica; rivendicazione a dir poco idealistica se si pensa che il mondo della ricerca filosofica non è sicuramente alieno dalle logiche poco trasparenti (per esprimerci eufisticamente) di gran parte del sistema accademico; rivendicazione infine di ardua comprovabilità, se si pone mente alla facilità con cui molti professionisti della filosofia sono stati attratti acriticamente nei quadri della comunicazione di massa alla quale danno contributi che nella loro genericità poco si distinguono da quelli di altri e più generici, ma per questo aspetto meno pretenziosi, intellettuali.
In realtà Biscuso ha perfettamente ragione nell'osare questo passo, partendo dalla constatazione che, al di là della più o meno inevitabile interazione della filosofia come segmento della produzione culturale con il modello economico-mediatico della produzione culturale nel suo insieme, esiste comunque, oltre e spesso a latere rispetto al mondo accademico, una sempre più vivace autoproclamata professionalità filosofica che si esprime nel variegato mondo delle pratiche filosofiche e che in esse gioca una sua indipendenza, autosufficienza e funzionalità.
Il mondo della pratica della filosofia sembra dunque oscillare oggi tra
- una posizione di accompagnamento e subalternità rispetto al mondo della medicina, come parte del sistema complessivo dei vari supporti tecnologici e culturali che determinano via via le effettive direzioni di applicazione della terapia tecnico-scientifica, la cui istanza ultima è comunque politica; e
- una scelta di competizione nei confronti della medicina stessa, che viene percepita come forma obiettivizzante di un disagio trattabile a monte (ma talvolta anche a valle) anche mediante le armi potenti del discorso.
Qui la filosofia incontra inevitabilmente la concorrenza assai competitiva delle psicoterapie, in particolare quelle a orientamento psicoanalitico, rispetto alle quali può trovare un proprio spazio non solo perché la critica epistemologica dei loro fondamenti è esercizio sostanzialmente non proibitivo, ma anche per la più precisa delimitabilità e sicurezza del proprio contributo rispetto all'orientamento verso il profondo e alla pressoché costitutiva incertezza sulla compiutezza della sua analisi.
D'altronde slogan come Platone è meglio del Prozac! (L. Marinoff) pongono di fatto la filosofia, come disciplina e specializzazione, su un piano di diretta competizione commerciale con le discipline della terapia più tradizionali e ne misurano fin dall'inizio l'efficacia in relazione a un generico star bene con se stessi che, a quanto pare, è uno stadio soggetto soltanto alla valutazione privatistica del singolo. Come se in realtà la condizione di equilibrio psicologico, personale e biofisico non sia essenzialmente diversa, quanto a disponibilità per il soggetto e a costi sociali, a seconda della modalità con la quale viene raggiunta e puntellata (un poco come il capitalismo il cui mantenimento ha costi apparentemente incalcolabili, molto probabilmente insostenibili, pur non potendosene negare taluni effetti in ordine all'acculturazione, al benessere e alla salute di numerosi esseri umani).
Biscuso quindi riconduce giustamente alla necessità di un'antropologia filosofica, cioè di una chiarificazione ultima sulla condizione dell'esistenza umana e sulla sua dinamica di creazione valoriale. Questa è appunto una domanda fondamentale anche in relazione a una risposta meditata alle problematiche dell'allocazione delle risorse e delle scelte bioetiche: a quale contesto dinamico-esistenziale fa riferimento quell'arte della vita che tanto la medicina quanto la filosofia vogliono essere? L'obiezione del Metafisico al Fisico nell'impareggiabile Operetta di Leopardi si incentra appunto sulla superfluuità di un vivere di più (in termini temporali) che non sia anche un più-vivere (per parafrasare Simmel), che non sia anche capacità di stimolare la propensione dell'uomo a sentire, conoscere, gioire e godere.
Ogni posizione riduzionistica della medicina come della filosofia va quindi rigettata. Rigettato appunto un approccio segmentato al processo clinico-terapeutico che non si chieda come, da un punto di vista olistico, il paziente sia restituibile alla padronanza di sé maggiore possibile; rigettato, altrettanto, un approccio alla vita filosofica che sia mero esercizio spirituale (vuoi autonomo vuoi eterodiretto) e che non tenga conto del rischio adattativo in cui la strategia filosofica tenderebbe così a incorrere. Ho stimato altrove che tra i rischi estremi della postmodernità vi sia la tendenza, ormai plausibile e praticabile a molti e diversi livelli di inculturazione e di dottrina, all'incorporazione contemporanea di tutte le tendenze offerte come sistemi di segni dal sistema postmoderno della comunicazione e alla loro gestione in termini estetici, nella costruzione di cifre espressive e stili personali e comunitari che ne producono una composizione a spese di un'alienazione reale. Le pratiche filosofiche, come le psicoterapie, soffrono dello stesso rischio se diventano stratagemmi e risorse operative per tamponare progetti esistenziali ed esperienze intrinsecamente e strutturalmente fallimentari, se diventano cioè tattiche con cui nella postmodernità si produce nei soggetti la percezione ideologica della sostenibilità dei loro ruoli in un processo economico-politico reale che è in se stesso insostenibile.
Ovviamente siamo consapevoli che la possibilità di invertire questo processo passa comunque e necessariamente proprio per le arti della vita di cui Biscuso parla, purché non diventino competenze esclusive di specialisti sul mercato. Al proposito Biscuso sviluppa con chiarezza le ragioni della critica nei confronti della consulenza filosofica. Più importante di questa comunque puntuale denuncia, è la problematizzazione complessiva del rapporto tra filosofia e vita che viene vista, con notevole originalità, più che nella capacità del filosofo di testimoniare a sé nella propria adeguatezza esistenziale un'interiorizzazione della disciplina, nella sua parallela e più determinante capacità di riprendere uno spazio nel discorso pubblico che non sia soltanto quello dell'intellettuale, ma quello “da definire”, come dice Biscuso stesso, che aiuti gli altri a diventare responsabili del proprio equilibrio psicofisico.
Si segnalano qui almeno due tangenzialità del libro di Biscuso: una con la riflessione morale del medico I. Heath (Modi di morire, tr. it. Torino, Bollati Borighieri, 2007), laddove questi pone l'accento sul disorientamento del morente che, essendo stato vittima della “liquidazione sbrigativa” del senso del tempo e dell'esperienza, giunga di fronte all'imminenza del proprio decesso incapace di totalizzare il fatto rispetto a tutto il decorso della vita e quindi di dargli senso; l'altra con le pagine più antiche, ma di recente traduzione, di G. Canguilhem (Sulla medicina, Scritti 1955-1989, tr. it. Torino, Einaudi, 2007), che evidenziano la necessità di completare il discorso del medico con una “istruzione” del malato, sottoposto alla sua direttiva terapeutica, sulle nuove forme di equilibrio che egli deve conquistare rispetto all'ambiente e alle sue sollecitazioni in questo nuovo stato della propria esperienza vitale. Significativamente da medici aperti professionalmente alla valorizzazione epistemologica e dialogica della filosofia viene pertanto la richiesta di una identificazione positiva della malattia, vuoi nel decorso verso la guarigione vuoi nella stessa irreversibile piega verso la morte, come momento di conoscenza di sé, di riscatto positivo del dolore a senso compiuto all'interno della vita e fonte di un nuovo quadro cognitivo. A fronte di tanta facile riduzione della sofferenza a sintomo indesiderabile, queste sollecitazioni, senza negare la disumanità del soffrire e la necessità di limitarne le manifestazioni, non negano però che si tratta pur sempre di episodi della vita umana che va compresa e vissuta come organicità in evoluzione e vicenda tale da dover potere essere compresa come un tutto (tema heideggeriano che non è alieno agli interessi di Biscuso).
È chiaro come la proposta di Biscuso per il recupero di uno spazio d'intervento della filosofia vada proprio nella direzione delle problematiche suscitate da Heath e da Canguilhem. A che potrebbe infatti servire di più la filosofia se non alla costruzione permanente del senso del proprio percorso esistenziale, e proprio se deve sfuggire, come Biscuso stesso sottolinea, alla logfica della ragione strumentale nella quale rischia di essere ingabbiata anche e soprattutto come pratica terapeutica o regime di problem-solving a buon mercato?
Tralascio, in questa presentazione, la circostanza per cui nell'analisi di queste tematiche Biscuso sviluppa fini letture di classici della filosofia da Socrate a Platone e da Hegel a Kant, interpretazioni attente di Ippocrate e Freud, letture penetranti di classici moderni come Achenbach, Nussbaum, Foucault e soprattutto Pierre Hadot. Tralascio insomma le nuances e le finezze professionali, che sono veramente notevoli. Il centro di questo libro è un altro, cioè il messaggio del bisogno della filosofia di essere vita e supporto ad altro, senza essere merce; e se deve essere merce, perché non si è in grado di inventare un'altra forma della sua circolazione ubiquitaria, allora deve essere in grado di difendersi dalla captazione completa nei quadri del feticismo rimanendo sempre ispiratrice di un altro tipo di rapporto con l'uomo, quello dell'amicizia che anche Platone raccomandava ai medici in un passo delle Leggi che ragionevolmente chiude come cifra la meditazione di Biscuso. |