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Luce Irigaray, Condividere il mondo , Bollati Boringhieri, 2009.
di Samantha Maruzzella

     Con un andamento molto hegeliano e una scrittura piena di interrogazioni che intrecciano la teoresi alla biografia personale, con questo nuovo libro Luce Irigaray ci accompagna in quello che potremmo definire un percorso alla scoperta di una filosofia della carnalità, per ricordarci che non soltanto di pensiero è fatto l’uomo – e men che mai la donna – ma di un corpo, che è corpo fisico e presente, carne desiderante. Corpo che, nella fattispecie della scrittrice, è un corpo di moglie, di amante, di madre, ma essenzialmente un corpo di donna. Incessanti interrogativi ci portano a condividere con la Irigaray la prossimità di un incontro che non potrà avvenire se non a condizione di lasciar essere l’altro nella sua alterità assoluta, con la necessaria volontà di volervisi avvicinare, senza volerlo introiettare. Soltanto quando ci si è liberati della manìa (ma anche della smania) di voler fare dell’altro una copia di se stesso, come una di quelle orrende riproduzioni sbiadite di capolavori che si vogliono spacciare per vere, ecco, soltanto a queste condizioni si apre la possibilità dell’evento stesso, evento che è anche un avvento, che accade ma resta sempre da compiersi. Da questo evento, non uno ma tre neonati scoprono il mondo: il nascituro sa poco del mondo quanto i genitori sanno poco di lui e di come ne dovranno aver cura. Ma questa prossimità che ha portato i due a divenire ben presto tre, come può essere ripristinata? I fra-due che magicamente aveva visto luce, è di nuovo messo in crisi dall’irruzione di un terzo – il figlio – che levinasianamente potremmo dire porta con sé la legge, l’istituzione, ma anche lo sguardo indagatore, che vigila sul mondo e nella familiarità in cui ha fatto irruzione.

     Il prossimo movimento sarà allora l’acquisizione della capacità di uscire da sé e sapervi fare ritorno. Soltanto sapendo districarsi in quest’alternanza tra essere in sé ed essere fuori di sé, potrà compiersi l’unità che non potrà mai esigere la rinuncia all’alterità assoluta da parte di nessuno dei due soggetti. Soltanto a queste condizioni si mantiene aperta la possibile rinascita del desiderio, “la sua indefinita attrazione per un’aldilà irraggiungibile cui continua ad aspirare” (pp. 66-67). In questo andirivieni tra me e l’altro, tra il mio corpo e il suo corpo, una promessa, un impegno e una sfida si impongono: lasciar essere. Mettendo in scacco la logica capitalistica, la Irigaray ci invita a pensare  un’economia relazionale, in cui il lasciar essere – ma anche il lasciarsi essere – ha la meglio sulla competitività, sulla rivalità, sul padroneggiare. Un lasciar essere che è un dono assoluto all’altro e dell’altro, che soltanto può permetterci di vedere la fioritura del suo esser-altro. La morale tradizionale non potrà che fallire dinanzi ad una simile apertura, alla smisuratezza dell’incontro, perché la morale tradizionale, l’altro come altro non l’ha mai incontrato. Parafrasando la quinta meditazione husserliana, ma senza mai citarla, la Irigaray afferma l’impossibilità dell’incontro con l’altro, se non essendo già consapevoli di non poterlo contenere, di non poterlo assorbire in una percezione piena e completa, come invece facciamo con gli enti intramondani – gli utilizzabili di Heidegger. Contrariamente a tutti gli altri enti, l’altro esiste – ex-iste – ed ha un senso pieno al di là e al di fuori del mio progetto: egli non ne tiene conto, e può sempre farmi scacco, de-ludendo – nell’etimologia latina del termine – sempre le mie aspettative. Tutto questo accade perché l’altro non ha luogo nel mio mondo: se davvero voglio incontrare l’altro – e non una semplice proiezione del mio ego – allora devo muovermi, uscire da me e spingermi oltre i miei limiti, là dove il mio orizzonte si confonde con il suo. Confusione di orizzonti, confusione di desideri, che paventano l’infinitezza di una trascendenza: se il desiderio dell’altro – e così anche il suo orizzonte – mi resta inappropriabile, mi conduce sempre al di là di me, e se lo stesso vale, necessariamente, anche per l’altro nei miei confronti, allora ciò che ci unisce – e il momento stesso dell’unione – appartiene ad una dimensione trascendentale.

     L’estasi – o ex-tasi – dei due plasma, per così dire, una nuova temporalità che incrina le nostre concezioni tradizionali di passato, presente e futuro, perché l’altro è un presente fine con la presenza, è un presente senza passato, perché seppure mi raccontasse il suo passato, mi sfuggirebbe sempre, sarebbero troppe le cose di lui che non potrò mai sapere, perché per quanto io possa interrogarlo, richiamarlo, costringerlo alla narrazione dei suoi vissuti, il suo passato non sarà mai per me assimilabile, non potrò mai farlo mio, inglobarlo nella mia stessa temporalità. Qualsiasi cosa io faccia, non potrò mai com-prendere l’altro nella sua assolutamente altra alterità, non potrò mai ridurlo a semplice fatticità. Così come presente e passato, anche il futuro è completamente rimesso in questione dall’alterità dell’altro: il suo è un futuro che è sempre in costruzione, sempre da venire, o meglio, sempre a-venire: l’altro lacera il mio tessuto temporale, essendo un futuro presente nel presente, che trascende ogni volta la mia temporalità. La mia temporalità stessa, allora, si comporrà di due momenti: ricordarmi/curarmi di me, ricordarmi/curarmi dell’altro, lasciando le nostre differenze libere di vivere e di manifestarsi. Così come il tempo, anche lo spazio viene squarciato da questo incontro: costringendomi all’apertura ad un’altra trascendenza, il rispetto dell’altro mi farà muovere verso un altro universo, che mi renderà meno familiare il ritorno nel mio; essendomi distanziata dal mio mondo per aprirmi al suo, l’altro mi rende estraneo, almeno in parte, a quanto mi sembrava più prossimo: il mio mondo. Lo spazio andrà interpretato in termini nuovi, che sono quelli di apertura di una soglia, di prossimità che però non sia una semplice condivisione di territori: la prossimità all’altro si scopre nella possibilità di elaborare un mondo comune che non distrugga il mondo di nessuno dei due, senza sconfinare dai nostri limiti. Nel suo irrompere continuo, l’altro non si è lasciato prevedere nel suo arrivo: non ho potuto allestire feste di benvenuto, perché l’altro mi si fa incontro senza preavviso.

     Il problema di un ritorno a me che passi dall’altro è essenzialmente il problema dell’essere umano – e forse non solo umano: come già in Speculum, anche in Condividere il mondo la questione dell’autoaffezione assume importanza capitale nella trattazione della Irigaray. Del resto, come si può nascere da un corpo di donna, estraniarsi da questo corpo, prenderne le distanze, valutarne le differenze, essere affetti da null’altro se non da se stessi? Come posso tornare a me pienamente, quando il primo mondo del soggetto è un altro? Un altro mondo? Ancora dentro di lei, o già venuto al mondo, il piccolo vive in un mondo che è sempre e comunque quello di sua madre, ed anche il risveglio e la scoperta di un mondo proprio vengono filtrati attraverso il mondo della madre (che poi sono gli occhi della madre, le mani della madre, le orecchie della madre… che filtra tutti i suoi sensi). Sono necessarie però delle distinzioni tra uomini e donne: infatti, per ritrovare la sua auto-affezione il soggetto maschile deve liberarsi dell’involucro del mondo materno che lo protegge, ma lo fa da essere completamente diverso dall’essere che l’ha generato; per la donna, oltre ad una condivisione di aspetti familiari con la madre, è anche la sua stessa conformazione fisica a permettere un miglior rapporto con l’autoaffezione. In un breve ma denso passaggio ricco di implicazioni, la Irigaray scrive: “Il sé dell'uomo si riceve prima da un altro che, avvolgendolo, gli resta impercettibile come altro: sua madre” (p. 10). La costituzione della soggettività maschile, nella nostra cultura occidentale, è un passaggio molto problematico, perché l’uomo (inteso non come genere, ma come soggetto di sesso maschile), per costituirsi come tale, avrebbe bisogno di staccarsi dalla naturalità in cui è nato, il corpo materno; però, non riconoscendo la propria madre come un altro trascendente rispetto a se stesso, l’altro da cui per primo ha ricevuto, ed ha ricevuto la cosa più grande, la sua origine, l'uomo ha assimilato la madre, e con essa tutte le donne, ogni donna, a un mondo solo naturale. Per questo motivo, l’auto-affezione è molto più difficile per gli uomini, perché non avendo ancora riconosciuto la differenza fra la soggettività femminile e quella maschile, l’uomo resta dipendente dal mondo materno, e cercherà di trasformare ogni ambito in un contesto in cui potrà sentirsi a casa, proprio come nel grembo della madre. La donna potrà aiutare l’uomo in questo complicato processo di costituzione della soggettività soltanto affermando la sua differenza rispetto a lui, il suo essere altra in un modo assoluto, il che però non significherà impossibilità di un incontro, ma anzi la possibilità più vera della sua realizzazione.

     Tutte queste considerazioni conducono la Irigaray a scagliarsi contro Heidegger, contro il suo con-essere-nel-mondo, e soprattutto contro la sua pretesa che il mondo sia uno, perché così facendo, Heidegger e gran parte della filosofia occidentale, hanno escluso l’altro dalle loro elaborazioni, il che l’ha portato sempre più lontano dalla nostra cultura. In generale, la grande dimenticanza della filosofia occidentale – e di Heidegger in particolare – consiste nel non aver preso in considerazione questo primo mondo, quello materno e di fare del mondo un intreccio di relazioni con gli altri in generale. Una dimenticanza ancor più grave perché non ci ha permesso di comprendere che non esiste un unico mondo: quello su cui noi viviamo è la terra che tutti abbiamo in comune – uomini, animali, piante e utilizzabili – ma di mondi ce ne sono un’infinità, perché ognuno di noi è il suo mondo e porta con sé l’infinitezza trascendentale di un’alterità assoluta e di un mondo assolutamente  rispetto a quello dell’Altro/Altra. Ma internet, le reti globali, il continuo arrivo di immigrati, insomma, la nostra moderna società multiculturale, non ci mostra proprio il fallimento delle teorie che ritengono il nostro l’unico mondo? Esso non è che “un’evoluzione incompleta e parziale del’umanità” (p. 128). L’invito che ci offre in ultima battuta l’autrice è quello di coltivare una cultura dell’altro che si fondi sulla differenziazione, perché soltanto accettando che l’altro è diverso da me e che ha e vive in un suo mondo, è possibile un futuro per i nostri mondi.

PUBBLICATO IL : 13-05-2011

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