La casa editrice Idea prosegue un’operazione meritevole di attenzione: la pubblicazione degli scritti del filosofo francese Yves Michaud. Spesso, quando si intraprende un discorso con un’affermazione così compromettente, si anticipa l’annuncio (o l’elogio) della pubblicazione o ripubblicazione di qualche classico del pensiero. Case editrici piccole ma importanti, come Aragno, ci hanno resi avvezzi a questo genere di imprese. Non è il caso di Idea con il suo autore Yves Michaud. Michaud è un filosofo vivente, insegna all’Università Paris I – i suoi interessi si dirigono in particolare all’estetica (perlopiù all’estetica contemporanea) – e ha alle sue spalle un’intensa attività di ricerca sull’empirismo inglese. Non si tratta certamente di una delle star del panorama filosofico francese: il suo discorso sul destino delle arti merita tuttavia attenzione.
La prima opera di Michaud tradotta da Idea recava il fortunato titolo di L’arte allo stato gassoso e ci conduceva in medias res, ossia nelle profonde trasformazioni che l’arte sta conoscendo nel corso degli ultimi due decenni, quando ormai sembra esaurirsi anche il discorso delle nuove avanguardie e della continua messa in discussione dei paradigmi dell’arte. L’arte ormai costituisce un discorso accessibile (e interessante) solo per gli addetti ai lavori e per i “cultori”: quel vasto “mondo dell’arte” che, a parere di chi scrive, stenta sempre di più a distinguersi dal mercato dell’arte. Tutte le categorie dell’estetica come teoria dell’arte (gusto, genio, creatività) o come riflessione filosofica (esperienza, rappresentazione, esemplarità) possono essere completamente revocate dall’arte contemporanea, che, nei casi migliori, mostra proprio l’inservibilità di questi concetti e istituisce un discorso autoreferenziale su se stessa, mentre, nei casi peggiori, semplicemente “va altrove”, scade spesso nel kitsch e nemmeno se ne avvede.
Questa critica può apparire eccessivamente feroce. Ma è probabilmente una critica che Michaud sottoscriverebbe. La critica dello stato dell’arte contemporanea non lo esime però da un’analisi concreta dei suoi meccanismi e delle sue dinamiche.
In questo testo Michaud si concentra sulle logiche che reggono l’insegnamento dell’arte. Parliamo ovviamente dell’avviamento alla “professione” di artista. Su questo punto si concentrano le critiche piuttosto attente e analitiche del filosofo francese: è possibile ricondurre l’attività artistica a un profilo “professionalizzante”? Non staremmo in questo modo riducendo le potenzialità intrinseche all’arte stessa, soprattutto nelle sue declinazioni contemporanee? E non è vero che lo stesso concetto di sperimentazione si sta trasformando in un know how da spendere nel mercato dell’arte? Michaud, a differenza di altri importanti studiosi e filosofi dell’arte, si concentra su questo punto: il mondo dell’arte, oltre che di critici e di mercanti, ha bisogno di professionisti che producono i “beni di consumo” adatti a questo mercato. Naturalmente l’attenzione di Michaud si concentra sulla Francia, dove il sistema delle Grandes Ecoles tenta di rispondere in modo innovativo ai bisogni e alle attese del mercato dell’arte.
Il saggio di Michaud ci lascia con un dubbio, che meriterà di essere approfondito (magari dallo stesso autore): questo esito dell’attività artistica era uno dei possibili, ma prevedibili, esiti dell’arte, dal momento in cui la modernità ha slegato l’arte dai suoi referenti tradizionali (la rappresentazione della fede religiosa, del potere politico) per consegnarla a una piena autonomia? L’artista come professionista è l’esito contemporaneo, legato anche a fattori come il consumismo e la volatilizzazione del sistema capitalistico, dell’artista come bohémien, figura romantica di creatore libero da ogni vincolo, di genio ispirato? |