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D. Cantone, L. Taddio, L’affermazione dell’architettura. Una riflessione introduttiva , Mimesis, 2011.
di Samantha Maruzzella

Per un’affermazione filosofica dell’architettura

In costante dialogo con Jacques Derrida e Michael Foucault, Luca Taddio e Damiano Cantone si interrogano “sul progetto e sulla costruzione e […] sul soggetto che usufruisce dello spazio architettonico” (p. 10).

Sgombrando il campo dalle reciproche posizioni e senza dar nulla per scontato, si incamminano – l’uno da filosofo interessato all’architettura, l’altro da architetto che non disdegna la filosofia – lungo quel sentiero che li porta all’architettura come ciò che porta alla presenza, alla manifestazione, e dunque come ciò che afferma e si afferma.

È proprio sul concetto di affermazione che tutto il libro si dispiega agli occhi del lettore.

Il termine affermazione deriva dal latino affirmatio –onis e intende – come da definizione del Dizionario Treccani “ 1. L’atto di affermare, e le parole con cui si afferma: con la sua a. mi rassicurò; a. dei proprî diritti. Nella logica, è l’atto di enunciare una proposizione affermativa: opposta dunque alla negazione, e distinta dall’asserzione. 2. L’affermarsi, acquisto di notorietà, di credito, d’importanza e sim.: il suo successo è l’a. di capacità fuori dal comune; il prodotto ha avuto una buona a.; risultato soddisfacente, successo ottenuto in una competizione sportiva, o anche politica, ecc.: a. elettorale, ottenuta da un partito o da un candidato nelle elezioni”.

È ovviamente nel primo dei due sensi che il termine affermazione diviene centrale nella disquisizione in atto nel libro. Si tende quindi a re-interpretare l’architettura – specificatamente contemporanea – attraverso il concetto di affermazione che è il punto di incontro tra le due discipline rappresentate: filosofia ed architettura. La modalità attraverso cui l’architettura si afferma è la sua capacità di stare al passo coi tempi, la sua duplice attitudine di essere espressione del proprio tempo e, d’altra parte, di cercare di resistervi. Oggi più che mai, questa duplice attitudine dell’architettura è indispensabile: oggi che è chiamata a fare i conti con un mondo globalizzato, con un global network. Questa duplice capacità viene sintetizzata in figure quali Peter Marino o Zaha Hadid, le cosiddette archistar, che sanno fondere nel proprio lavoro realtà, competenze e personalità diverse e complesse: che siano le archistar a saper rispondere all’affermazione dell’architettura?

Quello che Cantone e Taddio denunciano nel primo capitolo del volume è l’incapacità degli istituti universitari invece di far fronte a questa complessità, e non sanno farlo né le facoltà di architettura, né quelle di filosofia: non riescono a cogliere le modalità proprie di questo affermarsi e dunque se ne lasciano intimorire, restando inerti a guardarlo dall’esterno, senza giocare ruolo alcuno nel suo continuo costituirsi e modificarsi.

È per cercare le origini di questa affermazione – e per portarne alla luce la sua interna possibilità – che gli autori si rivolgono nel secondo capitolo a Jacques Derrida. Il rapporto di Derrida con l’architettura è sempre stato molto complesso e lo è ancor di più quando non concerne se stesso rispetto alla disciplina, ma la filosofia rispetto all’architettura. Derrida vi guarda come a una reciproca incompetenza: “incompetenza del filosofo nei confronti del fare architettura e dell’architetto verso il fare filosofia”, (p.23).

Affermazione dell’architettura non significa pienezza del sapere, non significa aggregazione sommaria della riflessione filosofica e del fare architettonico, non significa superamento delle reciproche incompetenze, bensì il loro reciproco mantenersi in gioco e la capacità dei filosofi e degli architetti di sfruttarle e farle dialogare, queste due incompetenze.

Dai Passages parigini di Benjamin alla Tour Eiffel di Barthes, per giungere alla Casa di Margarethe di Wittgenstein è in questi autori e nella loro capacità critica di cimentarsi con una nuova disciplina e con nuovi materiali che l’architettura si mostra in grado di “produrre riflessione attraverso la sua produzione e la sua innovazione tecnica”, (p. 44).

È l’estate del 1926 quando Margaret, la sorella di Wittgenstein, convince il fratello a mettersi in gioco progettando la sua casa di Vienna. L'architetto incaricato dalla famiglia era l'amico di sempre, Paul Engelmann che accoglie favorevolmente quella che oggi definiremmo la "consulenza tecnica" di Wittgenstein.

Ma come pensare di tenere a freno una mente così vivace? Il filosofo si appropria in pochissimo tempo del progetto, lasciandovi indelebilmente la traccia del proprio passaggio. Ad essa dedicherà oltre due anni della propria vita.

Quello di cui ne andava, per Wittgenstein era capire se il filosofo si sia rivelato all’altezza di tale sfida. E la casa è lì (fisicamente, architettonicamente), ancora oggi, a farci interrogare (filosoficamente, criticamente) su di sè: è dunque il miglior esempio di affermazione "perché al contempo è opera fisica e opera di riflessione", (p. 54).

La sfida è dunque oggi quella di comprendere se reciprocamente, filosofi e architetti, siano in grado di darsi da pensare attraverso le proprie costruzioni e da rendere materia i propri costrutti mentali. Sfida aperta, cui siamo tutti chiamati ad intervenire...

PUBBLICATO IL : 30-11-2014

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