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Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin , Quodlibet, 2003.
di Dario Gentili

Tra tanta recente letteratura critica su Walter Benjamin, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin di Tamara Tagliacozzo può con diritto ritagliarsi un suo peculiare spazio di rilievo. Come è evidente già dal titolo, il libro di Tagliacozzo riempie una evidente lacuna negli studi su uno dei più influenti filosofi del Novecento: infatti, Esperienza e compito infinito analizza con grande acribia gli anni giovanili di Benjamin, compresi tra il 1912 e il 1918, spesso relegati sullo sfondo dalla critica rispetto alla produzione benjaminiana degli anni venti e trenta. È pur vero che Pierfrancesco Fiorato in Italia e Astrid Deuber-Mankowsky in Germania rappresentano un importante precedente, che Tagliacozzo ha ben presente, tuttavia l’originalità di Esperienza e compito infinito consiste nella sua struttura rigorosamente cronologica che, nel ricostruire la formazione umana e intellettuale del filosofo tedesco – Benjamin stesso l’insegna – induce la sua autrice a non sottovalutare anche il particolare più apparentemente secondario. Se Fiorato e Deuber-Mankowsky hanno scritto pagine decisive sull’influenza di Hermann Cohen e del neokantismo sul giovane Benjamin, attraverso una ricognizione estremamente scrupolosa, Tagliacozzo allarga sensibilmente la costellazione benjaminiana degli anni dieci. Proprio riguardo a un autore quale Benjamin, tale ricerca assume un valore particolarmente significativo. Infatti, per la scarsità di riferimenti filosofici espliciti, solo con gran difficoltà la forma e il contenuto dei più celebri scritti benjaminiani sono riconducibili a una determinata tradizione filosofica; un tale stato di fatto, soprattutto nella prima fase della ricezione di Benjamin, ha provocato una diffidenza di fondo da parte dei filosofi “di professione” e, a tutt’oggi, ha reso disponibile l’opera benjaminiana a essere accolta negli ambiti di pensiero più disparati. Raramente si risale indietro la ben nota Premessa gnoseologica all’Ursprung des deutschen Trauerspiels del 1925 per ricostruire la costellazione filosofica di riferimento di Benjamin. Dunque, un primo merito del libro di Tagliacozzo consiste nell’aver dimostrato come, da un punto di vista prettamente filosofico, la Premessa gnoseologica sia soltanto la punta di un iceberg che poggia la sua base proprio nel febbrile, incoerente e confuso anche, decennio predente, quando Walter Benjamin era un giovane studente e studioso di filosofia.

Dalla militanza nella Jugendbewegung di Gustav Wyneken, alla frequentazione dei corsi universitari dei maggiori esponenti del neokantismo, la corrente filosofica in quegli anni più influente in Germania, e al progetto di una tesi di dottorato su Kant, dall’amicizia con il “genio” Felix Noeggerath, all’incontro e ai primi confronti con l’amico di una intera vita Gershom Scholem e, attraverso di lui, al primo ma risoluto insinuarsi delle categorie del pensiero ebraico nelle sue riflessioni; ma anche tanti interessi apparentemente eccentrici come quello, ad esempio, per le civiltà precolombiane, che da “collezionista” benjaminianamente conseguente Tagliacozzo non manca mai di registrare: insieme alle rigorose analisi di carattere teoretico degli scritti degli anni dieci, per decifrare la complessa formazione intellettuale di Benjamin, Esperienza e compito infinito non tralascia affatto informazioni di natura biografica, che sono fondamentali per restituire l’autore di scritti dalla così forte influenza postuma alla temperie culturale del “suo” tempo. Insomma, anche a un livello superficiale di lettura, Esperienza e compito infinito è una vera miniera di materiale eterogeneo, custodito nell’imponente apparato di note del testo, che riesce a rendere la freschezza, l’inquietudine e la curiosità umana e intellettuale di un giovane e promettente filosofo degli anni dieci del Novecento, ben prima che sia travolto dalla “bufera” della Storia, da quegli avvenimenti epocali che hanno tragicamente segnato il “secolo breve”.
Per evitare ogni sorta di fraintendimento, in cui comunque Tagliacozzo è attenta a non incorrere, occorre precisare che la filosofia del giovane Benjamin non può essere assunta come una “fondazione” del suo pensiero maturo, tuttavia essa fornisce una importante chiave ermeneutica per leggere i suoi scritti più celebri e per sfuggire alcuni preconcetti che non raramente hanno accompagnato la critica. Esperienza e compito infinito: già il titolo del libro di Tagliacozzo mostra esemplarmente due concetti che nello sviluppo della riflessione benjaminiana incontreranno fortune quasi opposte. L’idea di Erfahrung rappresenterà, infatti, un leit-motiv che accompagnerà il pensiero di Benjamin fino agli ultimi suoi scritti. Come in Sul programma della filosofia futura (1917-18), in Benjamin resta aperta la possibilità di una conoscenza legata a un’idea di esperienza che, a differenza del neokantismo, non sia limitata esclusivamente all’ambito delle scienze fisico-matematiche e alle loro categorie, ma sia insieme “a priori” e “metafisica”. Certo, nel 1933, tale Erfahrung è connessa all’idea di “povertà” (Armut); piuttosto che come estensione e arricchimento dell’esperienza possibile, l’Erfahrung è desunta come scarto e resto rispetto all’invadenza dell’”esperienza vissuta” (Erlebnis), “forma” repressiva di un’esperienza ridotta a prevedibilità e controllabilità. Senza dilungarci in accurate analisi, che pure meriterebbero, tra gli aspetti decisivi che cominciano a delinearsi negli anni dieci e che occuperanno in seguito un ruolo fondamentale nella riflessione matura di Benjamin, basti accennare al rapporto tra idee e concetti, di derivazione kantiana, che tanta importanza assumerà nella Premessa gnoseologica alla Ursprung des deutschen Trauerspiels, e alla concezione dell’Ausdruckslose, ricorrente negli scritti benjaminiani di carattere estetico, ma che ha la sua scaturigine in Due poesie di Friedrich Hölderlin degli anni 1914-15.

Negli scritti della maturità, ben altra fortuna sarà riservata, invece, alla concezione di compito infinito, che ritornerà con segno inverso nell’ultimo scritto benjaminiano, nella tesi XVIIa di Über den Begriff der Geschichte del 1940, dove “la dottrina neokantiana del ‘compito infinito’” rappresenta l’anticamera teorica di quel “tempo omogeneo e vuoto” con cui Benjamin critica l’attendismo del partito socialdemocratico, inefficace a fronteggiare l’ideologia fascista, di cui finisce per condividere l’ideale progressivo. Tuttavia, un passaggio decisivo di Esperienza e compito infinito consiste nel riconoscere come, negli scritti degli anni dieci, la riflessione di Benjamin sulla kantiana “cosa in sé”, seppur ancora radicata nell’idea neokantiana di “compito infinito”, non senza un certo tasso di problematicità, già comincia a trasfigurarsi in quelle concezioni originalmente benjaminiane, dove, in controluce, si può scorgere il riflesso di una Erfahrung “metafisica”: nell’idea di “lingua pura” del saggio Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, nella figura della “Gewalt divina” di Zur Kritik der Gewalt e nelle prime elaborazioni del messianesimo ebraico, ad esempio. Proprio nella riflessione sul linguaggio, profondamente legata al pensiero ebraico, Tagliacozzo rintraccia un determinante distanziamento di Benjamin rispetto al neokantismo. Corrisponde a tale presa di distanza un definitivo abbandono dell’esigenza sistematica che, sulla scorta di Kant e del neokantismo, aveva accompagnato Benjamin negli anni dieci? Anche se non esplicitata in questi termini, Esperienza e compito infinito di Tagliacozzo non lascia affatto inevasa la questione. Che la riflessione di Benjamin sul linguaggio e sul messianesimo possa rappresentare il retaggio del suo interesse giovanile per il sistema kantiano e neokantiano non indebolisce affatto, in senso postmoderno ad esempio, la centralità della questione della conoscenza nel suo pensiero, anzi: che gli scritti più importanti di Benjamin non si configurino in forma sistematica non significa che in essi venga a mancare una struttura e una costruzione forte di pensiero. L’esplicita assenza di un sistema filosofico di matrice moderna può non corrispondere affatto a un’assenza di sistematicità; o meglio: soltanto l’assenza di un tale sistema pone le condizioni di possibilità per una teoria della conoscenza in grado di accogliere una concezione teologica del linguaggio e la questione del messianesimo.

PUBBLICATO IL : 19-03-2005

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