L’ultima raccolta di saggi che Cesare Garboli licenziò alle stampe
prima di morire rivela a lettura conclusa l’andamento di un percorso narrativo.
Accade come se dopo la lettura dell’ultimo saggio, quello che da il titolo
all’opera, i precedenti si trovassero ad essere trasfigurati nella funzione
di personaggi: quasi come dei compagni di strada in cui si imbatte il protagonista
di un immaginario Bildungsroman. Abbiamo persino la possibilità
di collocarli scenograficamente in uno spazio, la ‘pianura proibita’
del titolo, dove domina un tempo non cronologico ma che con esso pur tuttavia
concorre, una sorta di presente parallelo evocato per dare a destini incompiuti
compimento e per riportare la funzione dell’immaginario letterario alla
sua radice patologica.
La possibilità di ripensare questo testo dove del resto ogni saggio può
esser fruito nella sua autonomia, attraverso uno schema narrativo, non fa che
riproporre quell’alternativa fra critico e scrittore rispetto alla quale
e per l’irriducibilità ad essa, l’opera di Garboli va compresa.
Dunque, anzitutto, non ci troviamo difronte ad un critico. Perché? Dovremmo
sapere a questo pun- to che cos’è un critico letterario e, per
far questo, ancor prima poter rispondere alla domanda su che cosa sia la letteratura.
Chi scrive non è in grado di rispondere a nessuna di queste domande,
più facile gli viene togliersi dall’impiccio presentando l’immagine
shakespeariana di Jago, il quale, chiamato a cantare le lodi di Desdemona da
Cassio, declina dicendo di non esser ‘altro che un critico’.
Eppure egli conosce meglio di Otello e di tutti gli altri personaggi del dramma,
la purezza della donna, tanto più pura quanto più inconsapevole
del male che, come una tela di ragno, inesorabile aggredirà il suo destino.
Ecco, possiamo immaginare che Garboli abbia vissuto dentro di se l’incapacità
di Jago e che, per osservare la purezza, abbia riconosciuto il suo occhio non
essere altrettanto ‘puro’. Ancor prima che per questioni di metodo,
dovrebbe dirsi psicologico il suo rifiuto della critica. A Garboli interessa
piuttosto che riconoscere in uno scrittore o in un poeta i segni del bello,
la gioia dell’espressione, andare invece alla radice di quell’infezione
misteriosa, di quel male incurabile che, se da un lato proietta sul vivere insufficienza
o perfino sazietà, è alla radice della letteratura: «si
scrive quando la gioia e il desiderio di vivere non basta. E’ la triste
novità che abbiamo imparato dal secolo appena trascorso. Si scrive quando
e perché si è malati» (p.167). La sua non è stata
una vocazione critica ma una vocazione diagnostica.
Da qui nasce la predilezione accordata a quegli autori del Novecento conosciuti
direttamente, che sono stati compagni di strada, interlocutori e destinatari
di più d’uno dei suoi ‘scritti servili’ (così
infatti si intitola un’altra raccolta di saggi uscita per l’Einaudi
nel 1989) e che qui in buona parte ritroviamo.
Soldati, Calvino, Parise, La Capria, Longhi e Anna Banti, Bassani sono gli autori-personaggi
che impariamo a scoprire in queste interpretazioni e sono sempre autori e sempre
personaggi insieme, essendo tenute l’una a fronte dell’altra l’opera
e la vita. Con uguale forza Garboli respinge tanto l’idea dell’analisi
di un testo come un organismo autoreferenziale senza autore tanto quella deterministica
per la quale l’opera altro non è che un riflesso speculare dell’esistenza.
Ciò che a Garboli interessa è quanto sia di un’opera che
di un autore viene minacciato dal silenzio o sommerso sotto il peso del tempo.
Non si tratta solo di ciò che è stato dimenticato ma anche e soprattutto
di quelle possibilità che la realtà nel suo farsi testo o vissuto,
ha lasciato accantonate come un guscio morto. Esse richiedono allo sguardo del
critico che ceda la sua prospettiva a quella del testimone. Così Garboli
si trovava a condividere con la professione dello storico, la lotta contro la
forza erosiva del tempo.
Ma al di là di queste affinità diversa era la materia del passato
cui egli aveva scelto di rivolgersi: ci si dovrebbe immaginare di poter estendere
la categoria dell’inconscio dall’individuo alla storia e parlare
di qualcosa di residuale, un detrito, quel guscio troppo segreto per essere
un fatto, piuttosto da evocare e raccontare che da documentare e rispetto al
quale la capacità fantastica non poteva esser sacrificata.
Così dallo sguardo dello storico si ritorna a quello dello scrittore.
Garboli voleva essere un testimone ma mai avrebbe potuto abbracciare la professione
dello storico, troppo profonda era infatti la diffidenza che egli nutriva verso
questa professione, una diffidenza che nasceva dal luogo fisico e mentale dove
la suo formazione intellettuale si era compiuta: l’Università di
Roma e lo storicismo.
Da quanto finora si è detto, particolarmente interessante risulterà
allora al lettore veder affrontare il problema della conoscibilità della
storia secondo un punto di vista filosofico che da Croce e Gentile arriva fino
alle tesi di assimilazione della storia a retorica sviluppatesi nella cultura
anglosassone.
Non alla critica, né alla letteratura, né alla storia infine l’autore
accorda la sua vocazione e tanto più forte è la sensibilità
con cui i personaggi di questa narrazione ci vengono presentati, più
aumenta l’impressione di trovarci difronte ad una esperienza solitaria
e di solitudine.
Nell’ultimo saggio Garboli immagina se stesso disceso dall’alta
montagna e dalla rigidità dei suoi inverni, dal pericolo degli strapiombi
e delle bufere di neve. Ora ha davanti a se quella pianura proibita che gli
arabi immaginavano per rappresentare lo stile di una scrittura semplice , aderente
al reale e meravigliata della raccontabilità del mondo. Piuttosto che
ricordarci la freschezza di ciò che è appena nato, questo stile
sa per noi di congedo: da quella pianura non ci giunge voce.
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