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Marcella D'Abbiero, Desiderio e filosofia , Guerini, 2003.
di Andrea Porcella

Il libro mette insieme una serie di saggi che, come annuncia il titolo, ruotano intorno al tema del desiderio come problema filosofico. I saggi affrontano autori del Novecento, per lo più francesi, che si sono occupati del desiderio o meglio che hanno fatto di esso uno dei passaggi chiave del loro pensiero. La filosofia da sempre si interroga su cos’è il desiderio e su che ruolo ha nell’esperienza umana. Quello che sembra esser nuovo negli autori presentati nel testo è il ruolo prelogico ma non irrazionale che il desiderio e le emozioni assumono. Questa nuova funzione è origine e conseguenza dell’abbandono del logocentrismo moderno, che proprio dalla Francia, attraverso Cartesio, aveva preso le mosse. Tutti gli autori presentati nel testo si “battono” per il superamento dell’idea che il cogito sia il fondamento assoluto ed autodeterminantesi di ogni certezza. Rifiutando con ciò non l’idea stessa della razionalità (non si tratta di derive relativistiche o irrazionalistiche) ma rifiutando di dare al logos, attraverso la formula del cogito, quella potenza assolutizzante che esclude da sé sia le emozioni, sia l’esperienza come luogo autentico ed originario della certezza della conoscenza. Il logos diviene per questi luogo del comune intendere, possibilità di questa intesa, mezzo e non fondamento, dell’esser rivolti «fuori» (in quanto coscienze) di fronte alle cose. Il Cogito, «le Je», precipita così sulla terra e diviene cosa tra le cose. In questa prospettiva il desiderare e il desiderato, ciò a cui siamo esposti, divengono inevitabilmente alcuni dei temi principali della riflessione. Si comprende allora la scelta di iniziare il libro con un saggio, quello di Nunzio Allocca, sul pensiero di Roger Caillois (fondatore insieme a G. Bataille e M. Leiris del celebre «Collège de Sociologie») e l’argomento cartesiano del sogno. Cartesio cerca un fondamento alle scienze del suo tempo e una filosofia che sia scienza di questo fondamento. Per far ciò sospende la validità della percezione sensibile: sospende cioè quella consapevolezza quotidiana che fa sì che si possa distinguere tra i modi e le qualità del percepire e del percepito. Il passaggio è tra i più celebri della storia della filosofia; con la domanda: «Dormo o son desto? » il filosofo francese pone sotto il segno dell’indistinzione il sogno e la realtà, l’immaginazione e la percezione, arrivando a sospendere, attraverso l’esercizio scettico, la consistenza stessa del reale. Cartesio cerca di scalzare la prospettiva scettica accettando e svolgendo i suoi presupposti. Questa sospensione troverà, come è noto, il suo superamento solo nella certezza del cogito.

Quindi, non più alla percezione ma all’intelletto sarà affidato il compito di attestare la certezza della conoscenza. Scrive Allocca commentando il procedimento cartesiano: «l’infinita varietà delle qualità percepite non esiste se non nella mente del soggetto conoscente (...) La certezza non può dunque appartenere ai sensi, ma solo all’intelletto che percepisce con evidenza» (p. 22). In questo modo il desiderato perde la sua forza e le sue qualità; non è più esso a muovere come diceva Aristotele il desiderante, ma questi si autodetermina al desiderare. L’ego diviene l’unico motore del desiderio. Roger Caillois cerca di invalidare il ragionamento cartesiano, con l’intento di mostrare l’impossibilità di trovare un appiglio per uscire dal dubbio. Per Caillois la coscienza è un abisso di memoria, pulsioni e desideri, abisso nel quale non si può rintracciare alcuna certezza o fondamento. Riponendosi la celebre domanda cartesiana si chiede: «poiché è di fatto inevitabile che, almeno nel momento in cui sogniamo, si confondono i sogni con la realtà, come potremo andar certi che, quando non sogniamo, non confondiamo la realtà con i sogni?» (p. 26) La memoria diviene l’elemento in grado di invalidare il ragionamento cartesiano. Quando ricordiamo, infatti, non riusciamo a distinguere con certezza se ciò che sopraggiunge dalla memoria sia un ricordo di realtà o di sogno. Caillois introduce la temporalità all’interno del cogito e tra le cogitationes: mentre mi chiedo se sogno o se sono desto non posso sapere se sto pensando (ricordando) a un sogno o ad una percezione sensibile. C’é sempre una differenza temporale tra la riflessione e l’oggetto della riflessione. Questa introduce evidentemente un rimando all’infinito, attraverso la necessità di un nuovo atto riflessivo di distinzione che a sua volta ne richiederà un altro ecc. ecc.. La memoria, partecipando agli atti apprensionali del cogito, porta in esso l’oblio del tempo e del ricordo. Quindi una volta intrapresa la via del dubbio, e riconosciuto il ruolo della memoria nel processo conoscitivo è impossibile tornare indietro. «Alla superficie della coscienza vigile affiorano i residui dell’abisso della non-ragione, muta inesauribile sorgente della ragione stessa» (p. 35). Il primo saggio ci apre così al motivo dell’indagine proposta: il cogito cartesiano e la prospettiva razionalistica sono insufficienti, bisogna allargare la ricerca e dar ragione di una vita di coscienza che è situata prima di ogni distinzione tra vero e falso, tra razionale e irrazionale. Pena l’impossibilità di uscire dal dubbio e la trasformazione del mondo in una favola del cogito. Il tema del desiderio come elemento centrale dell’esperienza umana e della storia, entra prepotentemente nella cultura francese attraverso i celebri seminari di Kojève sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Non a caso tutti, o quasi, gli autori presentati in Desiderio e Filosofia, hanno frequentato i seminari di Kojève, di cui parleremo più avanti analizzando il saggio di Luciano De Fiore. Tra i partecipanti al seminario c’è Georges Bataille, autore di cui si occupano i saggi di Guido Coccoli e di Sara Colafranceschi. Il primo analizza il confronto di Bataille con il pensiero di Hegel e con l’interpretazione di Kojève. La storia di questo rapporto è suddivisibile in due fasi. Nella prima Hegel è sostanzialmente interpretato e criticato come il principale rappresentante dell’idealismo, inteso come quel pensiero che, in linea con il razionalismo cartesiano, cerca di superare nel processo dialettico le contraddizioni dell’esperienza e il «carattere nero dell’umanità». La seconda fase è caratterizza da una sorta di ripresa dovuta all’ascolto dei seminari di Kojève. Bataille recupererà al suo pensiero le figure del servo e del padrone come emblemi della condizione originaria dell’uomo. «L’uomo subisce (...) in contraddizione con la morale formale, degli impulsi che lo attirano verso ciò che è basso, che lo mettono in antagonismo aperto con ogni elevazione dello spirito» (p. 81). Il servo è colui che subisce questi impulsi, il sovrano è colui che hegelianamente «sopporta la morte» (...) in quanto capace di guardare in faccia il negativo soffermandosi presso di lui» (p. 74). Il sovrano acquista nell’interpretazione di Bataille un nuovo significato (aristocratico e nietzschiano), esso è colui che rifiuta il superamento. Il servo può quindi ergersi a sovrano solo nel momento in cui si riappropria delle sue forze distruttive e permane in esse, riconoscendo l’origine “nera” di tutto ciò che è elevato e sacro. Conservando il negativo Bataille vuole preservare l’elemento vitale della dialettica e più in generale dell’esperienza umana; vuole mantenere attiva l’esperienza della morte senza ricomprenderla. Se per Kojève «Il est [l’Homme] le résultat de l’effort d’une puissance absolue, et il est cette puissance elle-même : il est Négativité incarnée, ou comme dit Hegel, ‘entité-negative-ou-négatrice ‘ (das Negative)», allora Bataille si sforza «di trovare un difficile, forse impossibile equilibrio tra un’azione della negatività come azione distruttrice, che decompone e sfigura, e l’attribuzione alla potenza del negativo d’una funzione trasformatrice e creatrice» (Colafranceschi p. 83). Per Bataille «compito dell’individuo posthegeliano diventa allora quello di mettere in gioco» «le rappresentazioni più cariche di valore emotivo», quali il riso, l’attrazione erotica, la paura e le lacrime, spogliandole «della ganga che le aveva sottratte alla contemplazione», per situarle «oggettivamente nella furia dei tempi». Paradossalmente, infatti, «senza libera perdita, senza dispendio di energia non vi è esistenza collettiva» (p. 88). Non vi è desiderio.

Al di là della radicalità batailliana quello che l’indagine conquista è l’imporsi alla ricerca di un nuovo soggetto desiderante, in cui “mente” e “coscienza” devono essere considerate in un senso più ampio. Ci troviamo un gradino più in basso dentro l’abisso a cui si riferiva il pensiero di R. Caillois. Le pulsioni appaiono ora un elemento strutturale, vitale, irriducibile alla sintesi e non più stigmatizzabile come aspetto “animale” della coscienza. Ad esse la riflessione deve riuscire a corrispondere. Il punto è estremamente delicato: da un lato vige la necessità di non abbandonare il terreno della ragione, dall’altro non si può più far finta di non vedere che l’irrazionale irrompe irriducibilmente e produttivamente in tutti i piani dell’esperienza umana.


Il saggio di Marcella D’Abbiero, Jean-Paul Sartre: un cogito che soffre e che ama, sembra rispondere a questo nodo concettuale. L’intento del saggio è quello di mostrare «la valenza affettiva e non solo cognitiva della coscienza in Sartre» (p.99), far vedere, cioè, come uno dei contributi più rilevanti del pensiero sartriano sia stato quello di riuscire ad evidenziare il ruolo del desiderio e del sentire non verbale, collocandolo all’interno di una analisi della coscienza più comprensiva. Questa analisi conserva il ruolo cognitivo della coscienza ma lo “riduce” mostrandone il carattere di attività tra le altre. Per Sartre «in qualsivoglia approccio alla realtà, anche nelle emozioni e negli affetti, la mente è sempre presente, e dire “mente” per lui significa dire “la mia mente”» (p.102). La «mind» è quell’insieme di atti coscienziali, originario esser rivolti fuori (coscienza non tetica), dove non ha più alcun senso la distinzione tra “sentire”, “percepire” e intelletto. L’affettività segna ogni relazione con il mondo prima e a motore di ogni conoscenza possibile. Tale affettività è la “mia” effettività in quanto costitutiva della “mia mente”. Sono richiamati nel saggio i noti passi dell’Introduzione di Essere e Nulla in cui Sartre, partendo da un’impostazione husserliana, definisce la coscienza e il cogito preriflessivo (par. 3). La coscienza, scrive in essi Sartre, «non è un modo di coscienza particolare, chiamato senso interno o conoscenza di sé, è la dimensione transfenomenica del soggetto. (...) Ciò significa che bisogna abbandonare il primato della conoscenza se si vuol dar fondamento alla conoscenza stessa» (Essere e Nulla p. 17). La coscienza non è allora un qualcosa di chiuso, di “interno” che deve poi rapportarsi con ciò che è esterno oltre se stessa. La coscienza è esplosione, “è” vissuto di ciò di cui è coscienza. Ma se la coscienza è sempre ed esclusivamente coscienza di … allora la condizione necessaria perché una coscienza conoscente sia conoscenza del suo oggetto è semplicemente che sia cosciente del suo essere coscienza in quanto conoscenza di quell’oggetto. La certezza di sé e della conoscenza è data esclusivamente dal modo di esistere della coscienza stessa. Ogni coscienza posizionale dell’oggetto è per Sartre, di conseguenza e necessariamente, coscienza non posizionale di sé. Questa coscienza non posizionale è il cogito preriflessivo. La D’Abbiero affronta poi uno dei nodi concettuali più difficili e discussi del pensiero sartriano che è la formazione del sé e della personalità. «Sartre propone di chiamare “soggetto” o “sé” l’evento dell’unità dei diversi». La personalità è quindi vissuto di unità, vissuto che a causa della struttura della coscienza impersonale (molteplicità di atti, infinita e non-tetica) si scontra con una irrealizzabilità intrinseca che lo trasforma in desiderio; desiderio di unità. Il sé progetta la sua unità, e la realizza selezionando, ad un livello preriflessivo, gli atti di coscienza e le visioni di mondo che questi comportano. Ponendo il progetto nell’ambito della “coscienza non-tetica” «Sartre cerca di esprimere l’aspetto affettivo e non cognitivo delle scelte umane contestando che io possa mai affermare: “ora faccio una scelta”, perché io sono la scelta, e sono la situazione che mi circonda» (p. 106). “Io” sono immediatamente la situazione in quanto “sono” coscienza di situazione. La coscienza stessa non sta in relazione ma “è” relazione viva, “veçu”. Per questo, soltanto attraverso la configurazione del mondo che mi circonda posso conoscere il mio progetto. In Sartre l’unità della mente trova così un dualismo descrittivo nella divisione, tra coscienza riflessiva e coscienza irriflessiva. Ma «contrariamente a quanto passa nella vulgata, in Sartre, è la “coscienza non-tetica” che divora quella tetica, è l’affetto che divora il logos, è il cogito preriflessivo che divora la riflessione» (p.108). Allora alla base di ogni atto o azione nel mondo è necessario porre questo rapporto nel sé tra “coscienza tetica” e “coscienza non-tetica”, termini coniugabili rispettivamente come “desiderio di unità” e “molteplicità”. L’autore fa vedere come dalle dinamiche tra questi due elementi scaturiscano i comportamenti emotivi e le condotte. Quindi il soggetto può, non deve, scegliere di vivere questa emotività che resta però la prima certezza di sé. Ma ciò si può fare unicamente mantenendo quella fluidità interna della «mind» senza pretendere di dare un’unità statica alla molteplicità reificandola. Questa molteplicità di vissuti e non di coscienze si traduce in una sostanziale dualità percettiva di sé; da un lato si configura l’unità dell’ego e il suo desiderio di essere tale; dall’altro si delinea la molteplicità indeterminata della coscienza originaria preriflessiva. L’alterità diviene, così, fenomeno costitutivo della “conoscenza” di sé.


Siamo cosi gettati nel terreno concettuale del saggio di Luciano De Fiore, Fine della Storia, Eclisse del Desiderio, e nel cuore stesso dell’argomentazione di Desiderio e Filosofia. Nel suo studio De Fiore ci restituisce con entusiasmo il pensiero di Kojève e ci permette di analizzare, anche se naturalmente in una prospettiva completamente diversa, alcuni aspetti emersi nel saggio della D’Abbiero su Sartre. In particolare ci dà la possibilità d’interrogarci su cosa comporta la dualità dell’esperienza di sé, e il desiderio di unità che a questa si accompagna. Il “racconto”, come lo definisce l’autore, ha il suo inizio nella sezione A del capitolo quarto della Fenomenologia dello Spirito di Hegel la figura bifronte di Signoria e Servitù. Questa figura, scrive De Fiore, descrive quelli che per Hegel sono i termini che indicano quel che fa sì che «una coscienza “tenga” o non tenga – qualcosa come autoconsistenza e non-autoconsistenza. Si tratta quindi non tanto, e non solo, della relazione tra autocoscienze, ma del rapporto che ogni autocoscienza intrattiene con se stessa (il suo concetto infatti è “l’unità con se stessa” nel suo esser Altro). Il poter dire “io” presuppone dunque lo sdoppiarsi al proprio interno rispecchiandosi dapprima in un “io” diverso dal proprio» (p. 117). Già in Hegel secondo Kojève l’autocoscienza è definita come una relazione e non come un ente positivo, relazione che deve conservarsi in uno stato di tensione nel quale i poli devono riconoscersi senza mai risolversi uno nell’altro. Ogni autocoscienza deve farsi carico della propria dualità. Nel celebre “racconto” della Fenomenologia dello Spirito, il servo è colui che è destinato a vincere perché attraverso l’esperienza della morte e della sua servitù arriverà ad accollarsi la propria dualità. Il servo, scegliendo la non-autocoscienza a favore della vita, si espone a vivere la contraddizione che a differenza del signore, privo oramai del suo opposto (il servo è considerato da questi un oggetto e non più una coscienza), riesce a sostenere tenendola in sé. Il servo rielabora le proprie passioni epurandole dagli eccessi, controllandole a favore dell’amore di sé e della propria vita. E’ evidente come il desiderio e il desiderare svolgano un ruolo determinante nella dialettica dell’autocoscienza. Nella lotta per la sopravvivenza innescata tre le coscienze e nella coscienza (per l’autocoscienza), ognuna desidera prima di tutto la vita dell’altro, e quindi usando una celebre definizione (che verrà ripresa da Lacan, vedi il saggio di M. L. Proietti) ogni coscienza è desiderio di desiderio: è desiderio dei desideri dell’altro. Scrive De Fiore «per Hegel, in linea con Hobbes e Spinoza, il desiderio promuove la conoscenza e la storia. Attivato dalla mancanza costitutiva del soggetto (...) il desiderio è essenzialmente collegato al conoscersi. (...) La soddisfazione finale del desiderio sarà la scoperta del soggetto come sostanza» (p. 120). Il processo della autocoscienza è quindi intimamente legato al desiderio, che nella sua soddisfazione è trasformazione della differenza in unità. Desiderare è allora negare, negare la molteplicità, negare l’altro per ricondurlo a sé. Il desiderio è, in questa proprietà negatrice, anticipazione proiezione nel tempo. In ciò il desiderio è rivelatore della temporalità strutturale dell’essere umano. Il desiderio è per Kojève manifestazione della paradossale natura umana: «non essere quel che si è (natura) ed essere quel che non si è (coscienza o negazione)» (p. 127). Ma il desiderio stesso è in realtà incolmabile, l’ambiguità da cui ha origine, è strutturale, ontologica. Allora, se la storia di ogni autocoscienza è storia di desideri, verso se stesso e verso l’altro, la storia dell’umanità è mossa dal desiderio e l’assoluto, fondamento diveniente, è il ricongiungimento del soggetto desiderante con il suo desiderato. Ma una storia è possibile solo nel momento in cui si pensa o la possibilità o la realizzazione stessa della sua fine e quindi di conseguenza si pensa la fine del desiderio. O ogni “ora” è in sé fine e cominciamento della storia stessa o non è possibile per principio una storia dell’autocoscienza che sia in sé storia dello spirito.
Tutto ciò ci introduce nel problema della storia e della sua fine, seconda grande tematica del pensiero di Kojève. Il filosofo si chiede: se il desiderio è motore della storia, una volta che questo è appagato, la storia finisce? Chi è l’uomo della protostoria pensato da Hegel? Alla fine della storia, l’uomo si ritroverebbe senza desideri felice ed appagato, ricongiunto con sé e con il suo oggetto. La vita si svolgerebbe immersa nel tempo infinito della natura. Quello che resterebbe sono le pulsioni “basse” di cui parlava Bataille. L’uomo della protostoria tornerebbe animale, senza più voglia di trasformare le passioni in affetti, quelle pulsioni in desideri. Un mondo dove tutto è cosa e tutto ciò che è “altro” non essendo più polo oppositivo e conoscitivo diviene mero oggetto di consumo. Per Kojève tutta la contemporaneità vive nella protostoria. Ma è veramente possibile questa dimensione anestetica del saggio? I nostri tempi sono veramente i tempi della fine del desiderio? De Fiore conclude il saggio opponendo a Kojève la tesi che i desideri proprio in quanto originati dalla struttura della soggettività sono diversi dalle passioni (in quanto pulsioni) e non sono mai esauribili. I desideri portano in sé quella che Sartre avrebbe definito la transfenomenicità del soggetto, essi sono sempre in altro e altrove. Allora compito dell’uomo della protostoria potrebbe essere quello di guardare l’origine del desiderato imparando a conoscersi e a viversi come quel desiderio di unità di cui parlava Sartre. Vivere la propria molteplicità lasciandosi andare di volta in volta al desiderio dei desideri, riscoprendo così la nostra naturale attitudine all’alterità che noi stessi siamo.


Dai saggi fin qui esposti è emersa una molteplicità strutturale del soggetto, molteplicità articolata all’interno di quella che Sartre definiva coscienza “non tetica”. Questa coscienza “non tetica” è l’ambito in cui si dà il cogito preriflessivo come prima certezza di “sé” di una coscienza personale. Inoltre si è evidenziata l’idea che il desiderio è rivelatore di una coscienza agente irrazionale o meglio pre-razionale. Questa coscienza pre-razionale che emerge attraverso l’analisi del desiderio è luogo delle pulsioni e dei desideri più intimi del soggetto. Per Sartre la coscienza “non tetica” è già coscienza posizionale “di” e “nel” mondo, e quindi non c’è coscienza che non sia già da sempre scelta, progetto di “mondo”, non c’è coscienza che non sia in qualche modo volontà, intesa come desiderio di sé. La personalità ci appare allora il frutto di un costante lavoro ermeneutico-dialettico del “sé” verso “sé” rapporto che struttura il mondo modificando l’in-sé. Ma qual’è il modello descrittivo che ci permette di rendere conto di questa unità/molteplicità concettualmente contraddittoria, e dell’agire «irrazionale»? A conclusione del libro troviamo, nel saggio Jean-Paul Sartre, Sigmund Freud e il problema dell’irrazionalità di Francesco Saverio Trincia, la discussione di quest’ultimo tema. Discussione svolta attraverso un confronto a tre tra Sartre, Freud e i sostenitori della teoria del “multiple self”. Quello che è in gioco in questo confronto è «il problema della definizione dell’irrazionalità dell’agire e delle sue caratteristiche, l’ulteriore problema del rapporto tra l’agire che si dovrebbe definire propriamente irrazionale e l’agire che in modo generale e indeterminato definiamo inconscio o dell’inconscio, (…) [e la] legittimità dell’uso del concetto di inconscio nella comprensione dei comportamenti che definiamo assurdi» (p. 178).
Se si ammette, sostiene l’autore, che l’inconscio sia soggetto di azioni ci troviamo di fronte a due possibilità opposte di spiegazione, a due modelli teorici: o quest’agire è l’azione di una delle parti “razionali” di una “mind” intrinsecamente multipla, e in questo caso è possibile costruire modelli di descrizione e di spiegazione che fanno a meno di un riferimento all’inconscio; oppure il comportamento “irrazionale” è l’esito visibile di un’assenza o di una sospensione della ragione cosciente e quindi di un inconscio, così come tematizzato da Freud. Il nodo della questione consiste nel fatto se si debba pensare o meno una intrinseca razionalità della coscienza e se sia quindi possibile ricondurre a questa i fenomeni irrazionali razionalizzandoli, oppure attraverso la nozione freudiana di inconscio lasciare i fenomeni irrazionali nella loro specificità senza ridurli ad una, se pur frammentata, razionalità cosciente di coscienza. Per Trincia sia Sartre che David Pears delineano una teoria dell’irrazionalità, accettando la prima ipotesi, sostanzialmente razionalistica.
Il punto di partenza del confronto a tre è la figura della “mauvaise foi” (malafede) a cui Sartre dedica il secondo capitolo de L’Etre et le néant. Tematizzando la malafede Sartre «tenta infatti, senza peraltro riuscirvi, di comprendere il concetto di inconscio o, se si preferisce, di appropriarsene, tenendosi lontano dalla “fatale” antropomorfizzazione che lo trasforma in una sorta di altra persona nell’io» (p. 180). Analizzando la teoria sartriana della malafede Trincia individua due punti, che rendono il pensiero sartriano utilizzabile nell’ambito teorico della Motivated Irrationality.
Primo punto è l’uso equivoco del concetto di verità. Infatti nel fenomeno della malafede il mentitore deve necessariamente conoscere ciò che nasconde per poterlo nascondere. Conoscenza che introduce nella coscienza “non etica” un elemento evidentemente egologico e contraddittorio con la natura stessa di questo tipo di coscienza. Il problema dell’irrazionale viene così traslato sul piano di due sistemi di “verità” che non comunicano correttamente fra di loro. Quello che accade nel rapporto tra il mentitore e colui a cui questi mente è, nell’ambito di una stessa coscienza, il “conflitto” tra intenzionalità parimenti razionali che non colgono l’una il senso dell’altra. O meglio la coscienza attuale non coglie nella sua attualità il senso, l’intenzionalità, della “sua” coscienza inattuale (preriflessiva). La coscienza preriflessiva a sua volta elude l’angoscia ponendosi o in malafede o in buonafede. Evidente conseguenza di ciò è il moltiplicarsi all’infinito dei soggetti coscienti di una stessa coscienza, moltiplicarsi che porta con sé infiniti piani di incomunicabilità tra queste infinite coscienze che arrivano a comporre una coscienza in quanto coscienza personale.
Secondo punto individuato è il rifiuto stesso, da parte di Sartre, della teoria dell’inconscio. Secondo l’A., infatti, pur nell’enorme distanza concettuale da Freud, nelle premesse sartriane è latente un pensiero dell’inconscio, anche se diverso da quello freudiano, «si potrebbe dire che l’inconscio in qualche modo agisca, o faccia la sua comparsa nel testo sartriano, ossia che nelle pagine di Sartre si avverta come la presenza di un tema teorico che appare tanto più potente quanto meno se ne prende atto. Donde, infatti, ci si può chiedere, deriva l’impossibilità che l’agire della soggettività in buona fede o della soggettività in malafede ottengano il risultato che cercano?» (p.195). Se non in delle ragioni che sembrano rinviare a una sorta di coattivo, profondo, necessitato, non corrispondere di quel che si vuole con quel che si ottiene. La malafede non è forse in realtà un rifiuto profondo della coscienza, in-cosciente, di “essere” ciò che non è e di non essere ciò che è? La tentazione di un riempimento psicanalitico della negazione è connaturata al testo sartriano stesso. E’ quindi in una sorta di ambivalenza emotiva che il pensatore francese rinnega e simultaneamente tenta di ricomprendere l’inconscio. Ma introducendo la malafede al posto di questo in nome dell’autotrasparenza della coscienza, Sartre entra in contraddizione proprio con questo suo assunto fondamentale. Come può una coscienza totalmente autotrasparente mentire a se stessa se non perdendo proprio le caratteristiche di unità e trasparenza? Sartre di fronte al problema degli atti irrazionali, nel distinguersi dalla teoria freudiana, sceglie una difficile strada che espone la sua teoria della coscienza alla razionalizzazione dell’irrazionale e alla frammentazione dell’unità coscienziale che tanto difendeva. Probabilmente avrebbe invece potuto mantenere ferma la distinzione tra coscienza tetica e “non tetica” conservando ad essa il ruolo pre-razionale di un in-conosciuto/osservabile molto simile all’inconscio freudiano, affermando più decisamente l’immagine di una menzogna senza mentitore, riuscendo così a non precludersi una spiegazione dell’irrazionalità e dell’agire irrazionale in grado di conservare la specificità del fenomeno. Sartre istituisce di fatto una metafisica della coscienza «edificata sulla simultaneità contraddittoria dell’essere e del non essere che la coscienza stessa è» (p. 192). Egli non riesce a pensare un agire preriflessivo, che comunque tematizza, né come radicalmente altro da qualsiasi forma di soggettività agente, né come parte di un soggetto. La malafede, in ultima analisi, riduce l’irrazionale nel razionale, ma il primo non viene risolto o spiegato, ma negato.
Il confronto a tre tra Sartre, Freud e i teorici del “multiple self” denuncia, secondo l’A., il limite strutturale e la dissoluzione del progetto della definizione filosofica dell’irrazionale; si comprende così che l’indicazione della necessità «che un altro linguaggio e un altro orizzonte concettuale devono comunque essere chiamati in campo per rispondere al problema filosofico dell’assurdo» (p. 198), per render conto della complessità che il tema del desiderio ha delineato. Quello che va compreso è che ciò che è in gioco nell’irrazionale non è l’autoinganno ma una vita di coscienza che prescinde totalmente dell’essere cosciente della coscienza stessa. Freud riesce a render conto di questa vita inconscia di coscienza, senza ricondurla ad una razionalità intrinseca. Per far ciò non prende le mosse come in filosofia dal problema dell’irrazionalità ma dal fatto che ci sono dei fenomeni descrivibili solo per analogia che producono dolore, sofferenza, in una parola sintomi. L’inconscio si dimostra come “vero” solo attraverso la funzione di finzioni che servono a spiegarlo e a render conto di atti psichici che mancano del carattere della coscienza. L’effettivo apparato di coscienza in cui si generano desideri, dolori, contraddizioni e gioie di una coscienza particolare resta “ignoto”. Le “funzioni” finzioni servono a curare il dolore che accompagna le lacerazioni della vita di ogni coscienza particolare. La teoria della coscienza freudiana, a differenza della filosofia che conosce solo coscienze, dà voce scientifica alla sofferenze di persone particolari, a “qui” ed “ora” irriducibili a qualsiasi sintesi. Lavora su «sintomi» per risolverli, ha di mira il disagio per curarlo. Il sintomo è la chiave di volta del confronto a tre operato dall’autore. L’irrazionale è allora un limite “vissuto” della ragione ed è per questo che non può trovare in essa la sua spiegazione. Conclude Trincia : «Il difetto della prospettiva teorica di autori come David Pears si riconduce essenzialmente al fatto che essi non si pongono la questione di come la ragione possa affacciarsi sul suo limite, ma indagano i vari tipi di comportamento irrazionale per offrire una risposta razionale a ciò che in questo stesso atto viene cancellato ed occultato nella sua autentica fisionomia. (...) Per la filosofia, l’irrazionale non è in grado di costituirsi a problema a meno che essa non si appropri del tema del limite della ragione – e dunque si autosospenda» (p. 219).
Il cerchio così si chiude. Abbiamo iniziato questa lunga recensione dalla critica operata da Roger Caillois del cogito cartesiano nel suo esaurirsi nelle cogitationes. Siamo poi giunti attraverso il pensiero di Sartre all’allargamento del cogito alla sfera della emozioni, elaborando l’idea che il sé sia fondamentalmente desiderio di unità. Con la constatazione della sostanziale molteplicità del soggetto è venuta meno l’idea di individuo formatasi nella modernità. Questo sgretolamento ha aperto all’indagine un ambito della coscienza del tutto estraneo all’esser cosciente della coscienza (e al suo essere autocoscienza). Per poter render conto di questo ambito si è imposta, infine, la necessità di sospendere, mettere tra parentesi, il classico argomentare della filosofia. Filosofia che trova così, in una parte della sua storia del ‘900, attraverso il tema del desiderio, un limite alle sue possibilità. Questo limite che chiama all’autosospensione la ragione, che ha avuto e che può ancora avere conseguenze, deve essere nuovamente oggetto d’indagine. In conclusione, il libro ci lascia con una domanda : «Fino a che punto è legittimo il programma della costituzione di una teoria della ragione ruotante sulla questione del limite della ragione stessa? » (F.S. Trincia, p. 219)

PUBBLICATO IL : 30-02-2005

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