Il problema dell’analogia – analogia dell’essere, dell’ente
o del bene – non è un problema che possa essere riferito ad un
solo ambito della speculazione filosofica: esso è infatti innanzitutto
un problema metafisico, in quanto riguarda l’analisi del rapporto tra
la sostanza e gli accidenti che a questa ineriscono, è un problema logico
e semantico, in quanto riguarda la possibilità che un medesimo termine
sia predicato di qualcosa secondo modalità differenti, è un problema
teologico, attraverso il quale si esamina la possibilità, o eventualmente
l’impossibilità, di formare concetti univoci a Dio e alle creature,
è un problema epistemologico, poiché varia la conoscenza di dati
termini a seconda che il rapporto tra essi sia analogo o univoco o equivoco,
è infine un problema etico, poiché la natura del bene, e dunque
del bene umano, va intesa analogicamente all’interno del rapporto che
questa intrattiene con il Bene sommo.
Diversamente da altri problemi suscitati dalla lettura del corpus aristotelicum,
la riflessione sull’analogia – principalmente grazie all’opera
di Boezio, tanto la sua opera di traduttore della logica aristotelica quanto
la sua produzione originale, in particolare i primi capitoli dell’Aritmetica
– attraversa tutti i secoli medievali, ed è al centro di discussioni
accese tanto nel periodo alto-medievale quanto nell’età della scolastica;
tanto più complessa risulterà la speculazione tardo-medievale,
grazie alla traduzione dal greco e dall’arabo della quasi totalità
delle opere aristoteliche a cavallodei secoli XII e XIII.
Se la speculazione metafisica genialmente concepita da Scoto nel suo commento
alle Sentenze di Pietro Lombardo ha attirato, conquistandone l’attenzione,
gli storici della metafisica e della teologia medievali, al contrario la sua
attività di commentatore delle opere di Aristotele è stata lasciata
decisamente in ombra dalla storiografia più o meno recente. A questa
lacuna si propone di porre in parte rimedio il volume di Giorgio Pini dedicato
alla trattazione scotista della questione dell’analogia dell’ente
nei commenti alle opere aristoteliche, ovvero alla Metafisica, alle
Categorie e agli Elenchi sofistici. L’attenzione maggiore
è dedicata al commento per questioni alla Metafisica, e in ciò
l’impresa dell’autore è tanto più degna di attenzione,
in quanto tale testo è da sempre noto a causa della sua estrema oscurità.
Il volume costituisce certamente un importante complemento non solo agli studi
scotistici, ma anche allo studio storico e comparativo delle teorie ontologiche
e semantiche tardo-medievali.
In un primo capitolo introduttivo l’autore ricostruisce, da un punto
di vista storico, le tappe fondamentali della carriera ‘scolastica’
di Scoto: la sua formazione, la sua attività in seno all’ordine
francescano di cui era membro, la cronologia dei suoi scritti; la ricostruzione
così offerta è ampia e precisa, basata su una bibliografia aggiornata
e selezionata con cura.
Nel secondo capitolo vengono descritte le teorie dell’analogia dell’ente
subito precedenti l’età di Scoto (si tratta di testi e autori che
coprono grossomodo la seconda metà del secolo XIII): in tal modo l’autore
illustra preliminarmente quali siano i più rilevanti problemi concettuali
sui quali interverranno la critica e le innovazioni di Scoto; vengono così
rapidamente, ma con estrema precisione e chiarezza, analizzate le posizioni
di Tommaso d’Aquino, degli Incerti autores (due anonimi commentatori
degli Elenchi sofistici), di Radulfo Brito e di Guglielmo di Bonkes.
Nei restanti capitoli (III-VII) è esposta la dottrina originale di Scoto
sull’analogia dell’ente.
Secondo la sistemazione classica della questione dell’analogia –
la sistemazione di Tommaso d’Aquino accettata dalla maggior parte dei
suoi contemporanei – l’analogia è un fenomeno tanto ontologico
quanto semantico: la dipendenza ontologica degli accidenti dalla sostanza trova
una correlazione nel modo di significare del termine ‘ente’, il
quale significa in primo luogo la sostanza, in secondo luogo gli accidenti che
a questa ineriscono, e dunque di questa si predicano. Secondo Scoto, al contrario,
è impossibile parlare di analogia sul piano semantico: se da un punto
di vista ontologico è possibile che l’essere venga riferito primariamente
alla sostanza e secondariamente ai suoi accidenti, non è invece possibile
che un medesimo termine, come il termine ‘ente’, significhi per
prius et posterius. Un termine infatti può significare ciò
che è primo per noi e ciò che è primo in sé, ma
tale termine può essere utilizzato per significare allo stesso titolo
tanto ciò che è primo per noi tanto ciò che è primo
in sé senza che in tale maniera di significare sia rispecchiata la dipendenza
ontologica di ciò che è primo per noi da ciò che è
primo per natura; inoltre, un termine significa in modo distinto il proprio
significato, e la sua capacità significativa è del tutto indipendente
da eventuali rapporti di dipendenza di tutti i suoi significati; in tal modo
Scoto ha soppresso, esclusivamente da un punto di vista logico, sia bene inteso,
la classe dei termini intermedi tra gli omonimi e gli univoci, ossia i termini
analoghi (pp. 51-57).
Nei commenti alle Categorie e agli Elenchi sofistici Scoto
aveva sostenuto una dottrina dell’equivocità dell’ente; nella
sua opera teologica al contrario, ossia nel commento alle Sentenze,
era la possibilità di un’univocità dell’essere a venire
teorizzata. Come spiegare una simile contraddizione all’interno del pensiero
del maestro francescano? Nel capitolo V del suo volume, la cui lettura, non
risulta in verità estremamente agevole, Giorgio Pini individua nella
prima questione sul libro IV della Metafisica il testo che maggiormente
testimonia l’evoluzione del pensiero di Scoto sull’analogia; il
commento alla Metafisica sarebbe stato scritto da Scoto, almeno in
alcune sue parti, dopo i commenti all’Organon e prima dei commenti
al Lombardo. La prima questione sul libro IV, tramandataci in una forma piuttosto
incoerente, sarebbe il risultato della fusione di due redazioni differenti della
questione medesima, una prima redazione, in cui la risposta al problema dell’analogia
era sostanzialmente identica a quella fornita nelle opere di logica, e una seconda
redazione, in cui comincerebbe ad essere formulata una teoria dell’univocità
dell’ente. Prova di questo fatto sarebbe che ad alcuni argomenti esposti
in tale questione a favore dell’univocità, argomenti ai quali,
secondo la forma più diffusa e coerente della quaestio, ci si
aspetterebbe una critica in sede di soluzione delle rationes in contrarium,
non si trovi alcuna risposta; tali argomenti in favore dell’univocità
dell’ente sarebbero dunque ritenuti validi.
Gli ultimi due capitoli del volume (VI-VII) concludono l’esame del pensiero
di Scoto circa lo statuto ontologico delle categorie ed il rapporto tra accidenti
e sostanza. A differenza di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, Scoto non
pensa che sia possibile dimostrare, ovvero dedurre, la sufficentia praedicamentorum,
ossia, secondo Scoto, la divisione dell’essere nelle dieci categorie è
rigorosamente indimostrabile. Le dieci categorie sono infatti i generi supremi
e costituiscono la divisione massimamente prima dell’ente; ma se si intendesse
procedere ad una deduzione delle categorie dividendo preliminarmente l’essere
in sé (la sostanza) dall’essere in altro (gli accidenti), e si
cercasse poi di dividere l’essere in altro secondo altre sottodivisioni
arrivando ad ottenere così dieci predicamenti, o le dieci categorie,
il requisito secondo qui queste fossero le divisioni massimamente generali dell’ente
risulterebbe evidentemente disatteso. La divisione dell’ente secondo le
dieci categorie è appropriata e immediata, e dunque non può essere
dimostrata; le categorie vanno intese piuttosto come essenze realmente distinte
tra loro. Così facendo Scoto imposta i termini del dibattito sulla distinzione
reale delle categorie che attraverserà tutto il XIV secolo.
Da ultimo viene analizzato il problema del rapporto tra accidenti e sostanza;
l’autore intreccia felicemente l’esame di un problema metafisico
con l’esame di un problema teologico, ossia il problema del rapporto tra
sostanza e accidenti nel sacramento dell’Eucarestia. Nodo centrale del
problema è di capire se l’inerenza, ossia l’inerire di un
accidente ad una sostanza, rientri nella sua essenza oppure no. L’autore
(p. 184) considera il punto più innovetivo della dottrina di Scoto l’affermazione
che l’inerenza – ossia la dipendenza ontologica dalla sostanza –
non rientra nell’essenza dell’accidente: gli accidenti sono considerati
formalmente enti per se stessi, e ciò, secondo l’autore, rispecchia
sul versante ontologico il rifiuto dell’analogia dell’ente da un
punto di vista semantico; affermare che le categorie sono enti per se stessi,
non significa mettere in dubbio la loro reale dipendenza dalla sostanza, ma
solo affermare che la dipendenza dalla sostanza non rientra nella loro definizione,
dunque non rientra nella loro essenza.
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