Governo politico dei processi di globalizzazione”,
“globalizzazione dei diritti”, politiche per una “nuova
globalizzazione”: sorprendentemente tali affermazioni spesso
mettono d’accordo, nei governi e nelle piazze del mondo,
parti politiche tra loro anche sostanzialmente diverse se non
tradizionalmente avversarie. Quando le sirene del nostro presente
ci obbligano a uscire da un ambito esclusivamente tecnico-economico,
il “concetto” di globalizzazione rivela tutta la sua
allarmante fragilità e trasparenza; eppure, la ridondanza
con cui affermazioni di quel genere affollano la comunicazione
pubblica evidenzia la necessità di riempire di senso la
vuotezza del mero slogan. Ciononostante le formule extra-economiche
riguardo la globalizzazione sembrano essere intese dagli orecchi
più diversi; certamente la semplicità del messaggio
promozionale è in grado di raggiungere tutte le case, ma
le vie della riflessione politica non devono sfuggire a una certa
complessità se pretendono di diventare effettivamente praticabili:
la determinazione della globalizzazione in quanto “concetto”
pretende la sua problematizzazione; piuttosto che la facilità
della via dritta dello slogan, esige la responsabilità
della complessità che costringe a pensare. Filosofia e
globalizzazione: non si tratta soltanto di tematizzare e problematizzare
filosoficamente la globalizzazione, di costruirne la storia, la
genealogia, il lessico, di rintracciare quei rimossi che sono
all’origine di ogni conformazione concettuale, ma, anche
e soprattutto, di ripensare le categorie tradizionali della filosofia
politica alla luce della globalizzazione. Filosofia e globalizzazione:
la congiunzione tra i due termini non li lascia intatti, ma istituisce
tra i due una “relazione interfacciale” (espressione
con la quale è bene fin da subito acquisire una certa dimestichezza),
una comunicazione sempre a rischio della prova, che non mira a
una conciliante e conciliata quanto effimera filosofia della globalizzazione,
che non terrebbe conto anche del carattere disgiuntivo della e,
dietro la quale proprio la filosofia nasconderebbe il timore di
dover nuovamente legittimare le proprie categorie di fronte al
fenomeno disorientante della globalizzazione. Con tali riflessioni
siamo già in media re dell’ultimo saggio di Giacomo
Marramao, Passaggio a Occidente, il cui sottotitolo è,
appunto, “Filosofia e globalizzazione”. Marramao premette
al suo lavoro la consapevolezza delle insidie nascoste nel rapporto
tra Filosofia e Globalizzazione, tra il peso storico-concettuale
delle categorie filosofiche e, invece, la debolezza categoriale
dell’utilizzo extra-economico della globalizzazione, la
consapevolezza che a un lavoro di decostruzione delle categorie
forti della filosofia deve corrispondere un lavoro di costruzione
concettuale nell’ambito della globalizzazione: «Ma
qui sorge – per chi non sia disposto ad appaesarsi nella
presunta autoevidenza degli idola fori che affollano la comunicazione
pubblica – una questione preliminare: in che senso e a quali
condizioni il termine globalizzazione è effettivamente
in grado di “comprendere” la pletora di fenomeni di
cui, con maggiore o minore pertinenza descrittiva, indubbiamente
dà conto? E inoltre: l’ambivalenza sottintesa nel
suo uso – ora come oggetto d’indagine, dinamica “fattuale”
di eventi, ora come criterio metodologico d’interpretazione
– non tradisce forse la sua natura di mero slogan, di “parola
senza concetto”?» [p. 14]. Sulla scorta di tali premesse
sembra quasi obbligata l’organizzazione a “raggiera”
che, a detta dello stesso autore, caratterizza i capitoli di Passaggio
a Occidente. Il primo capitolo Nostalgia del presente, dopo un’accurata
disamina delle posizioni teoriche più importanti ed esemplari
sulla globalizzazione, espone la definizione che Marramao fornisce
della globalizzazione come passaggio a Occidente; gli altri capitoli
individuano le coppie classiche del pensiero occidentale (identità/differenza,
necessità/contingenza, politica/diritto, democrazia/comunità,
universale/particolare) per destrutturarne l’utilizzo canonico
in chiave oppositiva sulla base della concezione della globalizzazione
come passaggio e, al contempo, tale procedere riempie e innerva
concettualmente la parola globalizzazione.
In Nostalgia del presente, prima di giungere a definire filosoficamente
la globalizzazione, Marramao entra nel cuore della questione mediante
un’analisi lessicale che prende spunto dall’evidenza
che il medesimo fenomeno è reso con due termini diversi:
globalizzazione nella cultura anglosassone e mondializzazione
nelle lingue romanze. La diversa matrice etimologica, globus e
mundus, rende i due termini chiamati a definire lo stesso fenomeno
tutt’altro che sinonimi: si istituisce così tra globalizzazione
e mondializzazione un campo di tensione che non soltanto complica
ogni facile e immediata acquisizione del fenomeno stesso, ma soprattutto,
in virtù dei differenti orizzonti simbolici che i due termini
evocano, lo rende interrogabile filosoficamente. Infatti, mentre
globus apparentemente evoca la finitezza geografica di una Terra
ridotta a sfera, finalmente a disposizione tanto di esploratori
e cartografi quanto di conquistatori, invece mundus, sulla scorta
delle recenti riflessioni dei “francesi” Derrida e
Nancy e della sua radice cristiana, denota l’esaurimento
di ogni senso extramondano e l’investimento di ogni senso
in questo mondo, che quindi «è il senso» [p.
17]. Attenzione, però: da ciò non si può
e non si deve evincere che “globalizzazione” è
affare di economisti e “mondializzazione” categoria
di filosofi, nient’affatto. Marramao è chiaro e puntuale
nel sottolineare che entrambi i termini convergono, anche se non
certo nel modo della sintesi, nel determinare il medesimo fenomeno:
«L’analisi differenziale delle costellazioni di senso
dei termini “mondializzazione” e “globalizzazione”
– intesi come derivati di mundus e globus – lascia
dunque affiorare i diversi profili delle metafisiche influenti
che agiscono alle spalle delle rispettive genealogie e “narrative”,
come pure le inevitabili contaminazioni reciproche delle loro
prognosi. Andare alla radice delle une e delle altre, delle divergenze
e delle interferenze, appare una conditio sine qua non per portare-al-concetto
il termine globalizzazione senza per questo sacrificarne la ricchezza
e polivalenza di significati» [p. 20]. L’analisi dei
termini globus e mundus è la prima prova di quella vera
e propria “prassi concettuale” che caratterizza il
leit-motiv del saggio di Marramao: la “relazione interfacciale”
di globalizzazione e mondializzazione individua la loro “radice”
comune nel campo di tensione reciproco tra “espansività
e compiutezza”, tra scoperta e appropriazione de-finitiva
del fuori, che, pur riferendosi ad ambiti simbolici differenti,
caratterizza entrambi gli aspetti della globalizzazione. Inoltre,
ed è un’interpretazione che dovrebbe ormai esser
data per acquisita, la globalizzazione ha una storia filosofica
non così recente come quella economica, anzi essa oggi
raccoglie storie e narrazioni anche diverse tra loro: in Dämmerung:
nel crepuscolo della sovranità, in una tappa del confronto
serrato con Carl Schmitt che attraversa tutto il libro, Marramao
fornisce un esempio della possibilità che la globalizzazione
offre di citare fenomeni estrapolandoli dal loro contesto storico-narrativo
di riferimento per attualizzarli nel presente, descrivendo la
parabola declinante dello Stato-Leviatano che, sorto con la pace
di Westfalia (1648) per “neutralizzare” le diverse
e conflittuali “potestà indirette”, oggi tramonta
proprio sulla spinta centrifuga di nuove configurazioni economiche,
religiose, socio-istituzionali di autonome “potestà
indirette”.
Per leggere adeguatamente un “concetto” di globalizzazione
che si va internamente complicando, piuttosto che ricorrere alla
presunta istanza inventiva del postmoderno, Marramao riattiva
la categoria tipicamente moderna della secolarizzazione, con la
quale, come è noto, fin dai tempi di Potere e secolarizzazione
(1983), ha una certa dimestichezza. Anche in questo caso si tratta
di un passaggio fondamentale lungo il percorso di de-tecnicizzazione
del concetto di globalizzazione su cui Marramao è in cammino:
la secolarizzazione non rappresenta affatto, come Robertson pensa,
una categoria non all’altezza del tempo globale, bensì
proprio i processi di globalizzazione obbligano a una sua seria
revisione e a una sua attualizzazione. Abbandonare il sicuro rifugio
della definizione tecnico-economica della globalizzazione per
avventurarsi sul terreno minato (non solo in termini metaforici
come purtroppo sappiamo) del processo di globalizzazione in ambito
politico-culturale comporta il non poter eludere, e la cronaca
nazionale e internazionale dimostra la sua assoluta non eludibiltà,
la dimensione fortemente simbolica che tale sconfinamento investe.
Ribaltando completamente il pregiudizio diffuso a tale riguardo
sia tra i suoi sostenitori che tra i suoi avversari, che vorrebbero
il processo di globalizzazione volto alla progressiva estinzione
della dimensione simbolica, Marramao addebita alla stessa globalizzazione
la produzione di nuove identità simboliche come riflesso
speculare della espansione omologante della modernità di
stampo occidentale. Dunque, lo stesso termine di globalizzazione
deve essere reso in modo da comprendere entrambi i vettori, tecno-economico
e politico-culturale, che vi interagiscono; globus e mundus, dimensione
tecnica e dimensione simbolica, definiscono insieme il campo di
tensione della glocalizzazione: «Il glocal si configura,
a questo punto, come una coabitazione conflittuale di due linee
di tendenza: il trend “sinergico” del globale, rappresentato
dal complesso tecnoeconomico e finanziario, e quello “allergico”
del locale, rappresentato dalla turbolenza delle differenti culture
[…]. A partire da qui si producono faglie profonde, linee
di frattura conflittuali che, con buona pace di Huntington, non
separano le “civiltà” come fossero blocchi
identitari omogenei e chiusi in se stessi, ma attraversano piuttosto
per vettori interni tutte le società del pianeta: dalle
democrazie occidentali allo stesso mondo islamico. E tuttavia,
per trasferire la categoria di glocalization dal piano descrittivo
a quello concettuale, è necessario un ulteriore passaggio.
Il fenomeno non va inteso come una resistenza inerziale di forme
comunitarie tradizionali al trend espansivo della modernità
[…]. Ma al contrario come una vera e propria produzione
di località» [pp. 38-39]. Ecco come, a tre secoli
e mezzo di distanza dalla pace di Westfalia, la secolarizzazione
torna a poter svolgere nuovamente oggi quella essenziale funzione
di porre in relazione interfacciale due ordini diversi, garantendo
al contempo la loro differenza; a condizione, però, che
non sia intesa come una progressiva “desacralizzazione”,
piuttosto la secolarizzazione deve tendere a rompere il rigido
dualismo tra sacro e profano, tra dimensione simbolica e procedura
istituzionale, tra valori e tecnica, rendendo così possibile
una sfera pubblica politica dove il conflitto di valori non debba
essere “neutralizzato” dal “grande freddo”
delle istituzioni dell’universalismo, né l’“incommensurabilità”
dei valori debba tradursi nella loro “incomparabilità”
secondo la logica monadica dei ghetti contigui: «La secolarizzazione,
in altri termini, non comporta una lineare “desacralizzazione”,
così come la crisi delle cosiddette centralità (dal
Soggetto-Popolo al Soggetto-Stato) non induce necessariamente
un’attenuazione o un indebolimento dei meccanismi di identificazione
simbolica. […] Mette capo piuttosto a un gioco di specchi
in cui l’uno tende ad assumere le prerogative dell’altro:
la Chiesa si “statalizza” (assumendo i caratteri della
centralizzazione e razionalizzazione burocratica) e lo Stato si
“ecclesiasticizza” (incrementando le proprie caratteristiche
sacrali e ritualizzando le proprie procedure)» [p. 189].
Soltanto se si tiene ben salda sul cardine della secolarizzazione,
la porta del passaggio a Occidente può essere aperta e
attraversata in modo che da entrambe le direzioni il passaggio
sia zona di trasformazione e svolta, come Marramao indica nello
spiegare il titolo del suo libro: «Una volta che ci saremo
lasciati alle spalle la discordia concors tra la tesi dell’omologazione
individualistico-mercantile e la tesi dello scontro tra civiltà,
la globalizzazione si presenterà nei suoi caratteri effettivi:
non come “occidentalizzazione del mondo” […]
e neppure come mera “deoccidentalizzazione” e “desecolarizzazione”,
ma come passaggio a Occidente di tutte le culture – come
un transito verso la modernità destinato a produrre trasformazioni
profonde nell’economia, nella società, negli stili
di vita e nei codici di comportamento non solo delle civiltà
“altre” ma della stessa civiltà occidentale»
[p. 24].
Avviandoci alla conclusione, diventa essenziale evidenziare le
ripercussioni sul piano più tradizionalmente filosofico
che la globalizzazione “portata-a-concetto” come glocalizzazione
necessariamente comporta. Il concetto filosofico, che ostinatamente
ritorna nei contesti più diversi che ogni capitolo di Passaggio
a Occidente descrive, è quello di differenza. Come Marramao
giustamente sottolinea, la metafisica occidentale ha pensato con
insistenza non solo l’identità, ma anche la differenza,
eppure, anche quando non l’ha pensata come un “accidente”
da superare nell’identità, ha sempre sussunto la
differenza sotto il paradigma dell’unità: «Come
intendere, dunque, la differenza? Differenza non come negatività
dialettica, e neanche come mero rovescio della logica identitaria.
Ma differenza come cifra della inidentificabilità dell’essere.
L’essere non tollera identificazioni, non ha carta d’identità.
Se è vero che quello strano complesso di accadimenti che
chiamiamo “mondo” è, in quanto eventualità,
fatto di differenze, ne consegue allora che le differenze non
identificano mai l’essere, ma appunto sempre lo differenziano»
[p. 215]. Mentre le riflessioni più recenti del pensiero
femminista offrono un contributo decisivo nel pensare la differenza,
un pensatore postmetafisico quale Habermas non avrebbe evitato
uno strascico di metafisica proprio nel fondare la sua teoria
dell’agire comunicativo tra culture diverse su ciò
che esse hanno “in comune”, cercando così di
neutralizzarne le differenze. Al contrario di Habermas, la proposta
di Marramao consiste nel pensare la democrazia come comunità
dei senza-comunità, dunque non soltanto come luogo dell’accordo,
ma anche e soprattutto come tutela del conflitto in quanto è
proprio nel conflitto di identità che avviene il riconoscimento
delle differenze. A una condizione, però: che il conflitto
democratico avvenga sempre sulla soglia del passaggio a Occidente,
che impone a ogni identità il sentirsi di passaggio, contingente.
Questa è una questione sulla quale, forse, vale la pena
di insistere: il passaggio a Occidente non deve essere oltre-passato
in direzione di quell’isola lontana dal mondo che è
Utopia, prototipo di ogni “realizzazione del virtuale”,
a cui Marramao contrappone la “virtualizzazione del reale”
di chi rimette la propria identità alla contingenza, di
chi resta sul “confine” del passaggio.
“Governo politico dei processi di globalizzazione”:
oltre un ovvio significato tecnico-istituzionale relativo al significato
tecnico-economico della globalizzazione, che senso filosofico
avrebbe tale espressione? In breve: quale politica per la glocalizzazione?
Lungo tutto il suo libro, anche dove non è esplicitamente
tematizzata, Marramao non distrae mai la sua riflessione dalla
“questione del politico”, che rappresenta la traccia
sotterranea di Passaggio a Occidente e di questa nostra interpretazione.
Dove non appare direttamente tematizzato, il politico rappresenta
il “criterio” delle analisi di Marramao, reso esplicito
nel denso ed estremamente stimolante capitolo dedicato a Carl
Schmitt, L’esilio del Nomos. Carl Schmitt e la globale Zeit.
Sulla scorta di Schmitt, Marramao non solo afferma che il politico
deve essere distinto dallo statuale, dunque non può esaurirsi
nella definizione di procedure tecnico-istituzionali, ma, in ambito
simbolico, “politico” è il criterio del “dirimere”
e del “dividere”: «Il “politico”
non può essere circoscritto, confinato, topologicamente
delimitato: anche se la dimensione spaziale ne costituisce, come
vedremo, uno dei principali correlati. Può essere soltanto
temporaneamente “localizzato” nelle dimensioni o forme
determinate in cui, di volta in volta, storicamente si manifesta.
Esso è infatti, stricto sensu, un “criterio”:
un’attitudine che si esplica […] non nel rifondare
e nel ricomporre, ma nel dirimere, nel dividere» [p. 133].
Dividere, dunque, ogni posizione identitaria in se stessa, producendo
in essa una in-tensificazione, una tensione interna che determini
le differenze confliggenti come “costitutive” di ogni
identità: è chiaro adesso come Passaggio a Occidente
sia un libro “politico”. Eppure la strada da percorrere
per giungere a un produttivo “governo politico dei processi
di glocalizzazione” resta ancora lunga e tortuosa. Marramao
è consapevole che la glocalizzazione problematizza in modo
dirimente proprio il politico, nel senso, ci sembra, della necessità
di andare con Schmitt oltre Schmitt. Con Schmitt nell’esigenza
di attivare uno spazio politico della globalizzazione, oltre Schmitt
nel senso del bisogno di una riflessione radicale su tale “dimensione
spaziale”, affinché il politico sia pensabile e gestibile
senza terra: uno “spazio” che non sia esclusivamente
la premessa a forme di territorializzazione extrastatali del globale,
ma sempre e comunque zona di passaggio. |