Il volume pubblicato presso l’editore Giappichelli, tradotto e curato
– con una postfazione – da Antonino Scalone, raccoglie tre saggi
di argomento kelseniano che il Geschäftsführer dell’Hans
Kelsen-Institut di Vienna, Robert Walter, ha separatamente pubblicato tra
il 1992 e il 1999.
Il leit-motiv dei testi presentati può essere individuato nell’intenzione
di mostrare come il carattere positivo e formale della dottrina pura del diritto,
da un lato, non escluda una scelta politica, a tratti anche chiaramente emergente,
orientata in senso liberaldemocratico e riformistico da parte di Kelsen, dall’altro,
come il carattere critico del suo peculiare positivismo giuridico non comporti
una cieca subordinazione o passiva accettazione di qualsiasi norma in quanto
tale; al contrario, sganciare la teoria giuridica dall’assunzione di determinati
valori e contenuti che giustifichino il diritto posto, significa nel contempo
liberare l’indipendenza morale di coloro che all’ordinamento giuridico
si trovano ad essere sottoposti: «La dottrina pura del diritto rende così
del tutto chiara la problematica dell’obbedienza giuridica: nessuno
si può richiamare come propria giustificazione ultima al diritto positivo.
Spetta ad ogni uomo la decisione morale se seguire il diritto positivo o
rivoltarsi contro di esso!» (p. 11). La teoria del diritto viene
in questo modo depurata da elementi giusnaturalistici (i quali, come si sa,
consistono nella deduzione della validità/legittimità di un ordinamento
giuridico in base a contenuti presuntivamente razionali, naturali o divini)
e dai fatti normativi delle teorie giusrealistiche (la critica di Kelsen
è in questo frangente rivolta in particolar modo alla mancata distinzione
tra Sein e Sollen che tali dottrine comportano e alla perdita
della caratteristica funzione normativa del diritto). In somma, il carattere
descrittivo, e nient’affatto giustificativo, della dottrina
pura del diritto si riflette anche nella elaborazione di una Grundnorm,
fondamento di validità dell’ordinamento giuridico, la quale, lontana
dal poter essere concepita come il fatto storico della redazione di una costituzione
o come l’assunzione morale di qualche teoria della giustizia, occorre
sia intesa, insiste Walter, come bloße Annahme, cioè come
fondamento trascendentale della conoscenza dell’ordinamento giuridico
(Kelsen afferma esplicitamente: «Questo [scilic. la norma fondamentale]
è il presupposto fondamentale da cui parte tutta la conoscenza [il corsivo
è mio] dell’ordinamento giuridico […]»; in Kelsen,
Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino 2000, p. 98).
I primi due saggi di Robert Walter (La dottrina del diritto di Hans Kelsen
e Origine e sviluppo dell’idea di norma fondamentale) si occupano
rispettivamente di «svolgere alcune osservazioni sul tipo di teoria»
che la Reine Rechtslehre rappresenta, di metterne in luce i presupposti,
di «presentar[ne] alcune posizioni caratteristiche», e di descrivere,
attraverso un breve esame di alcune opere fondamentali, l’evoluzione della
concezione kelseniana della norma fondamentale.
Dal primo articolo vanno tratte alcune osservazioni fondamentali. In primo luogo,
la teoria kelseniana è una dottrina del diritto positivo. Che
un insieme di leggi siano poste significa che: «a) Deve trattarsi
di prescrizioni che sono poste da uomini, o attraverso espliciti
atti di volontà o attraverso consuetudini; non quindi
di regole prescritte da autorità superumane, quali Dio o la natura. b)
Deve trattarsi di prescrizioni che sono poste per gli uomini, quindi
che sono indirizzate a loro […] c) Il sistema di regole
che viene preso in considerazione deve essere effettivo, cioè
deve essere complessivamente osservato o eseguito» (pp. 7-8). In secondo
luogo, come già anticipavamo sopra nel riferimento alla critica del giusrealismo,
ciò che interessa alla dogmatica del diritto è «la
descrizione di come gli uomini devono comportarsi secondo il diritto,
e non di ciò che a loro viene effettivamente ordinato
o di come essi si comportano effettivamente» (p. 8). In questo
senso, poiché la teoria giuridica intende le regole di comportamento
come norme e le colloca nel mondo del Sollen (non in quello
del Sein), occorre sia definita come una teoria della dogmatica
giuridica. A questo punto, osserva Walter, Kelsen è del tutto consapevole
del fatto che la validità delle norme che compongono un ordinamento giuridico
ha bisogno di una fondazione: «per fornirla, serve la dottrina della
norma fondamentale». Il punto è particolarmente delicato,
se non fosse anche solo per le interminabili discussioni che esso ha suscitato
e continua ancora a suscitare; la spiegazione di Walter, al proposito, è
molto chiara:
«[…] considerata in modo intrasistematico, ogni norma giuridica
vigente si può ricondurre ad un’altra norma – che fonda la
sua validità: la validità della sentenza del giudice da parte
della legge, la validità della legge all’autorizzazione del parlamento
da parte della costituzione, la validità della costituzione forse all’autorizzazione
a emanare una costituzione conferita a un consiglio rivoluzionario. Questa continua
derivazione della relazione di validità incontra tuttavia un limite.
Esso sta là dove senza autorizzazione giuridica – in modo
caratteristico dopo una rivoluzione o un colpo di Stato – una persona
o un gruppo di persone “assume il potere” e in qualche modo insedia
un consiglio costituente. Se si vuole intendere un sistema di prescrizioni
come un sistema vigente di norme, allora si deve ipotizzare che il
primo atto, puramente fattuale, si fonda su una autorizzazione. Questa ipotesi
è la norma fondamentale» (p. 10).
Lo statuto della norma fondamentale viene approfondito da Walter nel secondo
articolo raccolto in questo volume. La sua evoluzione e le oscillazioni della
sua determinazione vengono registrate con precisione a partire dalla prima edizione
dei Hauptprobleme der Staatsrechtslehre – nella quale ancora
non si trova l’idea di norma fondamentale – fino all’opera
postuma di Kelsen, la Allgemeine Teorie der Normen.
Il punto sul quale vogliamo brevemente soffermarci concerne la considerazione
dello sviluppo di tale norma attraverso gli studi degli allievi di Kelsen che,
seguaci della sua dottrina, la posero alla base dei loro lavori e ad essa fornirono
importanti contributi.
All’inizio della sua esposizione Walter ribadisce la funzione conoscitiva
della norma fondamentale: «Innanzitutto attraverso l’unica
norma fondamentale l’oggetto “diritto positivo” ottiene la
sua unità» (p. 41). La finalità che presiede all’introduzione
della Grundnorm nella teoria giuridica può essere compresa anche
a partire dalla teoria coheniana, per cui l’oggetto della conoscenza viene
‘prodotto’ dal metodo utilizzato: «Soltanto dall’introduzione
di una norma preposta all’oggetto di osservazione l’oggetto riceve
il suo carattere normativo» (p. 41). Nei Hauptprobleme, l’idea
di norma fondamentale non è stata ancora sviluppata, ma ben chiara a
Kelsen è la strikte Trennung tra Sein e Sollen.
Da questa consegue l’inderivabilità dell’uno dall’altro
e dell’altro dal primo; in termini giuridici, tale dottrina comporta il
netto rifiuto della teoria della forza normativa del fattuale: «Il problema
dell’origine del dovere viene considerato da Kelsen come esterno alla
sua riflessione» (p. 41). Nei Problemi fondamentali, Kelsen scrive:
«Il problema dell’origine […] del dovere non [sta] più
nel campo di osservazione volto solo al dovere e interno al metodo di conoscenza
normativo» (Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico,
Napoli 1997, p. 48). Una risposta alla questione dell’origine del dovere,
che non sia quella propugnata dalla teoria del fatto normativo, verrà
stimolata in particolar modo da due fattori: «[D]a un lato, la convinzione
che un dovere può essere derivato soltanto da un dovere, dall’altro
la consapevolezza che il problema della fondazione ultima del dovere conduce
oltre la riflessione scientifica sul dovere» (p. 42).
Chi apporterà un contributo e uno stimolo decisivo alla formulazione
del carattere ipotetico della norma fondamentale, escludendo il ricorso ad una
costituzione in senso storico-positivo, e dunque, in ultima analisi, ad un fatto
a partire dal quale venga prodotto diritto (fatto normativo), sarà
da una parte Alfred Verdroß nel 1916 (Zum Problem der Rechtsunterworfenheit
des Gesetzgebers) e dall’altra Leonidas Pitamic nel 1917 (Denkökonomische
Voraussetzungen der Rechtswissenschaft); per la prima volta, come ultimo
fondamento logico della validità delle norme appartenenti all’ordinamento
giuridico viene individuata una norma solo presupposta come vigente
e, soprattutto, non più qualificata come un fatto metagiuridico, esterno
all’ordinamento (al punto da rinunciare ad una ulteriore giustificazione
giuridica della sua vigenza), bensì come norma solamente pensata o immaginata,
come “assunzione ipotetica”: «Con la norma fondamentale si
tratta di una norma preposta al diritto positivo, semplicemente ipotizzata,
non dimostrabile» (p. 54).
Il primo significato della norma fondamentale è dunque di tipo logico-trascendentale.
Conformemente al progetto di actio finium regundorum della Reine
Rechtslehre, e cioè al tentativo di comprendere come e in base a
quale principio la scienza giuridica possa procedere nella conoscenza del suo
oggetto, il diritto positivo, le riflessioni circa la norma fondamentale effettuate
da Kelsen possono essere considerate ‘in parallelo’ a quelle svolte
da Kant sulla conoscenza trascendentale; nello stesso modo in cui per Kant ‘trascendentale’
deve dirsi quella conoscenza «che si occupa […] non di oggetti,
ma del nostro modo di conoscere gli oggetti» (Critica della ragion
pura, Bari 1981, p. 58), così la norma fondamentale non concerne
l’ordinamento giuridico bensì la possibilità della sua conoscenza:
«Rispetto alle riflessioni di Kant sulla conoscenza trascendentale, quelle
della dottrina pura del diritto stanno dunque solo in parallelo, giacché
le considerazioni di Kant servono alla conoscenza della natura, quelle della
dottrina pura del diritto alla conoscenza della norma. Kelsen ha parlato pertanto
precisamente di un utilizzo analogico della teoria della conoscenza di Kant»
(Walter, p. 60).
Il terzo e ultimo saggio del volume (Hans Kelsen, la dottrina pura del
diritto e il problema della giustizia) è intitolato alla questione
della giustizia e ai suoi rapporti con la dottrina pura del diritto. La posizione
di Kelsen al proposito è nota: la determinazione della giustizia è
una questione che si pone al di fuori dell’ambito di ricerca di una dottrina
pura. Ius e iustum occorre siano disgiunti senza residui,
se si vuole rimanere all’interno di un’indagine scientifico-positiva.
Nonostante questo, bisogna dire che «proprio il fatto che Kelsen abbia
indagato criticamente la possibilità di determinare la giustizia, mostra
che egli prese seriamente il problema della giustizia, che non intese le proposizioni
concernenti la giustizia come fin da principio “prive di senso”
[…], ma fu sempre pronto ad esaminare quale contenuto abbiano queste proposizioni»
(Walter, pp. 67-68). L’esito delle investigazioni kelseniane ha quindi
certamente condotto all’affermazione dell’impossibilità di
determinarne razionalmente il contenuto, ma non ha per nulla comportato «un
rifiuto di ogni fondazione della giustizia, giacché, anzi, può
essere senz’altro intrapreso il tentativo di introdurre una formula centrale
di giustizia come assunzione fondamentale» (p. 72).
L’eventuale esposizione di una pars costruens è preceduta
da una meticolosa critica delle posizioni precedenti in materia di determinazione
di una regola di giustizia. Particolarmente istruttive sono le critiche condotte
al noto comandamento del suum cuique, al tentativo di rintracciare
una formula etica fondamentale dell’umanità, la cosiddetta
regola aurea, e infine all’imperativo categorico di matrice kantiana.
Il difetto del primo comandamento è palese; risulta infatti piuttosto
chiaro che, se si omette di specificare che cosa sia il “proprio”
che ognuno dovrebbe ricevere, la formula decade nella vuota tautologia secondo
la quale a ognuno debba essere assegnato ciò che gli deve essere assegnato:
«L’applicazione di questa “norma di giustizia” presuppone
con ciò la vigenza di un ordinamento normativo che già abbia determinato
ciò che di volta in volta è il “suo”, vale a dire:
ciò che gli spetta» (p. 74).
Una discussione della plausibilità della regola aurea (solitamente
esposta in due tempi: “Non fare agli altri ciò che non vorresti
si facesse a te”; “fate agli altri tutto ciò che vorreste
gli altri facessero a voi”) richiede invece più impegno, dal momento
in cui «il pensiero contenuto in essa è osservabile fin dall’antichità
e gioca a tutt’oggi un certo ruolo all’interno della discussione
etica» (p. 75). Un tale principio presenta immediatamente due vantaggi
– in primo luogo, quello di essere «un principio chiaramente
posto nei fatti: cioè nella volontà reale degli
uomini ai quali essa è destinata» (p. 76); in secondo luogo, quello
di essere una regola «indubitabilmente adatta a produrre una certa prestazione
come massima morale soggettiva» (p. 76) – e, altrettanto
immediatamente, pone un dilemma: se la regola aurea sia cioè in grado
di offrire, oltre una massima di azione fondata soggettivamente, la possibilità
di fondare oggettivamente (ossia, intersoggettivamente) norme della morale o
della giustizia.
Una prima risposta a questo dilemma deve essere negativa. La regola aurea non
ha il potere di consegnare alcuna informazione utile sulla qualità morale
dell’azione: «può un sadomasochista picchiare un altro giacché
è pronto a farsi picchiare da lui? Può qualcuno pretendere da
un altro che rubi per lui un determinato oggetto, giacché anch’egli
è pronto a commettere un furto per lui?» (p. 77). Il nodo problematico
del principio in questione viene ben colto da Kelsen nell’osservazione
per cui gli uomini non sono affatto d’accordo su quel che desiderano e
che quello che l’uno vorrebbe fare all’altro e vorrebbe fosse fatto
a sé verosimilmente non coincide con ciò che l’altro vorrebbe
gli si fosse fatto e che vorrebbe fare al primo. Con ciò, dice Walter,
tocchiamo il “punto saliente” della questione: «L’incapacità
della regola aurea di fondare norme obiettive (intersoggettive) della morale
o della giustizia» (p. 81).
Lo stesso destino sembra toccare in sorte all’imperativo categorico formulato
da Kant, il quale diverse volte viene definito da Kelsen una tautologia priva
di significato. Sono molti, infatti, i filosofi morali successivi a Kant (per
esempio Hare), nota Walter, che si sono richiamati alla dottrina della regola
aurea e alla dottrina di Kant. In effetti, le critiche mosse a quella
possono essere mosse anche a questa. Nella più corrente delle sue differenti
formulazioni, l’imperativo categorico suona: «Agisci solo secondo
quella massima che in pari tempo potresti volere che diventasse una legge universale»
(Fondazione della metafisica dei costumi, Bari 1970, p. 49). Premesso
che una massima è il principio secondo cui il soggetto agisce, mentre
la legge è il principio secondo cui egli deve agire, si agisce
in modo moralmente buono se si agisce secondo una massima della quale si potrebbe
volere che diventasse una legge universale. La critica si appunta inizialmente
sull’espressione “poter volere”: «se conta che cosa
si può volere, bisogna rendersi conto che si può
volere qualcosa di assolutamente diverso – il “buono”
o il “cattivo”. Ed in effetti di qualsiasi massima un uomo può
volere che diventi una legge universale. […] Kant crede di poter provare
che di certe massime non si possa volere che diventino una legge universale
sforzandosi di mostrare che da una parte la volontà di elevare una massima
immorale a legge universale e dall’altra parte la legge a cui questa massima
viene elevata “si contraddirebbero”» (p. 86) Ma una contraddizione,
sostiene Walter, è possibile solo nella misura in cui si presupponga
un valore in base al quale elevare una determinata massima a legge universale
costituirebbe una contraddizione, cioè si opporrebbe al valore presupposto.
A proposito del modo in cui Kant non condivide l’assunzione a legge universale
della massima di porre fine alla vita col suicidio qualora essa minacci maggiori
mali che agi, Walter osserva: «La “contraddizione” sussiste
solo fra la massima e una legge morale presupposta da Kant che vieta il suicidio
in tutte le circostanze e in base alla quale la massima in questione non deve
essere voluta» (p. 87). In effetti, della massima in base alla quale a
una vita insopportabile si debba mettere fine con il suicidio non si può
verosimilmente sostenere che non possa essere voluta come legge universale,
sebbene sia certo inammissibile che il suicidio venga elevato a legge universale
senza ulteriore specificazione di circostanza, poiché «una natura
la cui legge consistesse nel distruggere la vita proprio in virtù di
quel sentimento che è destinato a promuoverla, cadrebbe in contraddizione
con se stessa, quindi non sussisterebbe come natura» (Fondazione,
p. 51): «Kant stesso “produce” in un certo qual modo la contraddizione
giacché egli generalizza in modo così accentuato da rendere impossibile
ogni distinzione. E’ quindi egli stesso che nella sua argomentazione produce
precisamente il risultato che vuole produrre. […] [S]i può benissimo
volere che il suicidio in generale sia certo inammissibile, ma che
debba essere consentito in determinati casi eccezionali, dai quali il generale
divieto di suicidio sarebbe delimitato» (Walter, p. 87).
Di seguito, una concisa analisi della kelseniana Die Illusion der Gerechtigkeit,
dunque dei tentativi effettuati da Platone e da Aristotele, mostra come anche
in quei filosofi antichi che se ne sono lungamente occupati il problema della
determinazione della giustizia non trovi una soluzione efficace e definitivamente
accettabile. L’unica indicazione che sembra profilarsi dopo un’analisi
delle posizioni platoniche consiste nell’affermazione dell’indeterminabilità
della giustizia assoluta e in una definizione del diritto positivo come l’approssimativamente
giusto – come imitazione della verità (Politico, 300 c
– 301 a). La qualificazione del diritto positivo di fronte alla quale
ci troviamo davanti si sviluppa chiaramente giusta naturam: «La
giustificazione giusnaturalistica del diritto positivo procede in Platone certamente
con l’accettazione di una giustizia ultraterrena che integra e completa
la giustizia terrena. Il diritto positivo diventa per così dire diritto
naturale di seconda scelta, come appunto è possibile tra gli uomini»
(Walter, p. 95). La più strenua difesa dell’obbedienza di fronte
alla leggi della città, e dunque la più rappresentativa affermazione
del valore del diritto positivo, avviene nel Critone, in cui le leggi
positive vengono affratellate alle inconoscibili leggi eterne, entrambe partorite
dalla divinità: «E la divinità è ciò che Socrate
è convinto di seguire quando si sottopone alle leggi positive. E così
il dialogo Critone si conclude con le seguenti parole di Socrate: “Allora
basta, Critone, e facciamo così, perché così indica la
divinità”» (p. 96).
Al termine di queste considerazioni, Kelsen giunge alla tipica conclusione scientista:
non è possibile determinare razionalmente un valore come quello della
giustizia; i valori possono essere solamente oggetto di convinzione, non di
conoscenza, di professione di fede, non di scienza: «La via che il singolo
può percorrere può essere solo quella attraverso la consapevolezza
del valore. Questa consapevolezza del valore […] si può
chiamare coscienza. Kelsen si rifà a tutto questo, quando dice
che la decisione sul problema (che cosa è giusto e che cosa ingiusto)
“soltanto noi possiamo prender[la], ognuno di noi singolarmente”,
ciò che è “il vero significato dell’autonomia della
morale”» (pp. 101-102).
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