Articolato in tre capitoli, attraverso il confronto con autori dell’Ottocento
e del Novecento il volume analizza le caratteristiche di una elaborazione filosofica
del sacrificio e il suo rapporto con le strutture proprie della ragione. Il
chiarimento preliminare dell’impianto metodologico della ricerca permette
di delimitare attentamente l’ambito dell’indagine. Da un lato infatti
l’analisi è ristretta alle riflessioni filosofiche sul sacrificio,
con l’esclusione di approcci teologici o religiosi, dall’altro essa
è condotta con metodo non storiografico ma di tipo rigorosamente ermeneutico.
Il primo capitolo esamina quegli autori che, ponendo il sacrificio al centro
della loro riflessione, lo hanno collegato ad una dimensione estranea alla ragione.
«L’irriducibilità del sacrificio rispetto al concetto che
lo esprime» si manifesta, secondo Bubbio, in una prima modalità
che è quella del trascendente. Joseph de Maistre, Solger, Kierkegaard,
Girard, esprimono tutti, nella differenza che è propria di ciascuna prospettiva,
quell’altrove della ragione costituito dal sacrificio nella modalità
del trascendente. In Maistre, di cui viene acutamente recuperato il valore filosofico
della polemica anti-illuministica superando una convenzionale tradizione esegetica
di tipo meramente politico, la verità del sacrificio si colloca nel difficile
equilibrio tra ragione e ciò che trascende la ragione stessa in modo
tale che solo «in questo difficile equilibrio di tanto in tanto si apre
uno squarcio che consente di gettare uno sguardo sulla trascendenza» (p.
25). Ciò che nella prospettiva di Maistre appare come problematico equilibrio,
nel pensiero di Solger si configura come «dialettica tragica». Il
luogo del sacrificio, nella prospettiva del pensatore tedesco, è in quella
«sproporzione ontologica» tra il finito e l’infinito, in quella
singolare «dialettica duale in cui la contraddizione permane aperta».
In Kierkegaard, nel complesso e per molti versi ambiguo confronto con Hegel
(confronto che è determinante anche per intendere la dialettica di Solger),
il Cristianesimo è coessenziale al sacrificio. La teoria mimetico-vittimaria
di Girard, in cui l’originario desiderio mimetico produce quella violenza
di cui viene caricato il capro espiatorio, diventa la chiave per intendere il
potere demistificante dei Vangeli in cui tale meccanismo originario viene svelato.
Qui l’altrove della ragione costituito dal sacrificio è
«il passaggio dalla trascendenza deviata del desiderio metafisico al sapere
demistificante della trascendenza verticale» (p. 41). Se nella modalità
del trascendente il sacrificio si offre come superamento sovrarazionale
della ragione, nella modalità della vita esso indica la possibilità
di un altrove prerazionale. Nella critica di Nietzsche al dualismo
metafisico dell’Occidente e nel recupero, in nome della «fedeltà
alla vita», di un altrove della ragione costituito dalla dimensione dionisiaca,
il sacrificio ebraico-cristiano, con la soppressione della sua originaria dimensione
cruenta, appare come un capovolgimento dell’autentica esperienza sacrificale.
Bataille, nel suo ricollegarsi a Nietzsche, identifica il sacrificio con quella
dépense che si contrappone alla totalità razionale e
in cui, attraverso l’identificazione di sacerdote e vittima, si giunge
alla perdita della distinzione tra soggetto e oggetto e al ritorno all’originario
indistinto prerazionale.
Una volta determinato il modo in cui nei diversi autori il sacrificio si ricollega
a una dimensione estranea alla ragione e ai suoi criteri, l’analisi critica
di Bubbio si concentra nel secondo capitolo sui problemi di coerenza interna
e di rigore logico che emergono nell’inserire la nozione di sacrificio
all’interno di un sistema filosofico. In altri termini, «che conseguenze
ha la presenza del concetto di sacrificio all’interno di un pensiero filosofico?»
(p. 59). Il nucleo aporetico su cui Bubbio concentra immediatamente l’attenzione
è quella dialettica insopprimibile di soppressione e oblazione presente
nel concetto di sacrificio. «Tale dialettica è uno degli elementi
che induce il lógos a sospendere se stesso nell’alogon»
(p. 64). Ma in che modo esprimere quest’alogon senza ricorrere
agli strumenti e ai criteri del lógos? In che modo è
possibile dire ciò che per sua natura è indicibile? Come tradurre
in termini concettuali una esperienza esistenziale? Tutti gli autori presi in
esame, sottolinea Bubbio, si riferiscono sempre all’esperienza
del sacrificio, ossia alle sua dimensione esistenziale, per così dire
a-logica o pre-logica, e non al concetto di sacrificio. Qui Bubbio
riconosce quella paradossalità interna alla nozione di sacrificio
che fa vacillare la coerenza logico-teoretica dei sistemi filosofici presi in
esame; paradossalità che non viene colta nel suo senso meramente logico
ma considerata come la insopprimibile relazione reciproca tra il dicibile e
l’indicibile.
La dinamica della relazione tra lógos e alterità indicibile
è seguita nel terzo capitolo. Analisi concettuale (in de Maistre,
Solger e Kierkegaard) e narrazione esistenziale (in Nietzsche e Bataille)
sono le due direzioni in cui la relazione tra dicibile e indicibile, lógos
e alogon viene impostata nelle diverse prospettive, illuminando la
originaria inseparabilità dei due poli del rapporto. La paradossalità
del sacrificio, che deriva dall’insopprimibile dialettica di soppressione
e oblazione, conduce allo scacco del lógos ma, al tempo stesso,
alla necessità di esprimere l’alogon, l’altro dalla
ragione. Di fronte a questa alternativa tra riduzione e afasia Bubbio indica
una possibilità terza: non «pensare il paradosso secondo il lógos
o fuori dal lógos, ma pensare il lógos del paradosso»
(p. 117).
Nel suo complesso il volume unisce al rigore ermeneutico nella interpretazione
dei testi degli autori presi in esame un notevole impegno teoretico, soprattutto
nell’analisi della autoreferenzialità e circolarità costitutive
del concetto di sacrificio e nel tentativo di elaborazione di una logica
del paradosso.
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