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Benedetto Croce, Taccuini di guerra , Adelphi, 2004.
di Daniele Mastrangelo

Animato da una costanza inflessibile, Benedetto Croce registrò dall’anno 1906 al 1950, quasi giorno dopo giorno, il progresso anzitutto dei propri studi, nei quali, in un’unità di sobrietà e intransigenza, vedeva e voleva che fosse essenzialmente risolto il ritmo della sua vita. Queste note, per gran parte affidate ad una duplice redazione e, nella seconda, con un’estensione pari a sei volumi di uguale formato per un numero di circa 5000 pagine, vennero raccolte dal Croce sotto l’indicazione di Taccuini di lavoro: «non contengono già un diario dei miei sentimenti e pensieri, ma semplicemente – così Croce nella nota apposta alla prima pagina fuori testo del primo volume – il resoconto delle mie giornate, che quasi per controllo di me stesso sono solito di fare; e, insieme, segnano la cronologia dei miei libri e della loro preparazione».
Nell’idea attorno alla quale questi taccuini nacquero e, potrebbe dirsi, nella loro materiale consistenza, essi contengono e rappresentano la concezione stessa che Croce aveva di sé, della sua vita. Essa doveva realizzarsi nel lavoro, essere uno svolgimento intellettuale, vera soltanto come attività che i diversi compiti volta per volta rinnovano, quotidiano esprimersi di come “l’opera è tutto”.
“L’opera è tutto”, è lo spazio entro il quale soltanto con calvinistico rigore, vivono la loro parabola avventura, fede, passione.
I Taccuini non sono dunque un diario, un journal intime, non una raccolta di memorie o un libro di confessioni e la ragione potrebbe quasi dirsi morale. Parlare riferendosi a Croce di tentazioni della dispersione, di una negatività che come un basso continuo insidiò il regolare procedere del lavoro, di angoscia e perfino di un desiderio di morte sembrerebbe quasi un’invenzione, l’introduzione di un accordo dissonante in un tessuto musicale dove vige il principio della più pacata armonia.
Eppure lo spettro di soccombere al proprio genio o a quell’angoscia che – come scrisse nel Contributo alla critica di me stesso – da «selvatica e fiera» era come stata disciplinata, resa «domestica e mite» doveva intrecciarsi con ragioni, le più profonde del suo operare e dare a questo la natura di un bene, il più prezioso, da poter esser tutelato fintanto che alta si teneva la soglia dell’invigilare”.
Quando le prove e responsabilità a cui la storia lo sottopose, si fecero più difficili, il lavoro finì con l’essere anche un rifugio contro la penetrabilità che il riposo lasciava al rammarico ed alla sofferenza per le sorti di quella che voleva e sentiva che fosse l’Italia e la patria: «la vita mi si è fatta penosissima e non me ne lamento solo pensando che il medesimo o peggio accade a innumeri altri in Italia e nel mondo. La fatica è ora per me il solo riposo, e il tempo del riposo, del passeggiare, del conversare, dello stare a letto mi è fatica, perché tutto occupato da tristi pensieri». Così si può leggere in una nota del 1938 quando l’Europa si avviava verso l’esperienza di un secondo conflitto mondiale. Così sei anni dopo, in data 12 dicembre 1944: «stanotte mi sono svegliato prima delle quattro, e sono rimasto in letto fino alle sei e mezzo; e ho sempre meditato sulle condizioni gravissime e quasi disperate dell’Italia. Per fortuna, quando mi rimetto in piedi e ripiglio il qualsiasi lavoro, l’avvilimento è vinto e quasi dimenticato. Così sperimento in me, quotidianamente, che “l’opera è tutto”». “L’opera è tutto” dunque, la cronaca della vita dello studioso, si risolve nella cronologia e nella bibliografia dei lavori letterari, così Croce voleva che si potesse dire di sé.
Ma riuscì a tener fede a questo ideale?

Con il titolo di Taccuini di guerra vengono ora raccolte le note che Croce stese in quell’arco di tempo che va dal 25 luglio 1943, con la caduta di Mussolini e l’inizio del drammatico epilogo dell’esperienza fascista, al 31 dicembre 1945, quando ai segni del personale indebolimento fisico si aggiungevano quelli altrettanto grevi relativi ad una realtà da poco nata quale era l’Italia liberata.
Rinviando al termine alcune considerazioni sulla natura di questa edizione adelphiana, si vuole anzitutto far presente ai possibili lettori che di uno degli aspetti più importanti di quest’opera, quello storico-documentario chi scrive può soltanto limitarsi a metterne in evidenza l’impressione di trovarsi di fronte a documenti fondamentali per ricostruire la storia politica di «quando l’Italia era tagliata in due». A partire dalla ripresa dell’attività politica, la personalità di Croce è come una pietra di paragone per valutare la coerenza dei partiti dell’opposizione antifascista. Per questi egli svolse la decisiva funzione di raccordo con il governo del re, presieduto dal maresciallo Badoglio e poi, quando Roma venne liberata, in qualità di presidente del ricostituito Partito liberale, fu riconosciuto da molti come il simbolo della continuità con la migliore Italia prefascista.
Accanto ai dati storici, testimonianza delle importanti responsabilità assunte dal Croce in questi anni, i Taccuini di guerra possono esser letti anche misurando il riflesso sull’esistenza del filosofo di questi impegni. Riconoscendo anzitutto come altri contenuti assunse la fedeltà all’idea dell’operare rispetto agli anni in cui seppur colpito da eventi drammatici, saldo al centro della sua esistenza era rimasto il lavoro letterario, storico e filosofico. I drammi che avevano minacciato la continuità della sua vita piuttosto finivano col rafforzarla, quasi come scosse di assestamento. Ma questo vale soltanto per lo sguardo che, rivolgendosi al passato ha chiaro davanti a sé il percorso di un’esistenza. Altro doveva dirsi del presente. Lo scenario che offrono questi Taccuini di guerra è invece quello di un tramonto vissuto, si potrebbe dire quasi in simbiosi, dall’individuo e dall’epoca.

Consueta nelle note di questi mesi ed anni è la tonalità della tristezza o quella più aspra dell’angoscia. Esse lo visitavano rendendogli breve il sonno, lunga la giornata. Al mattino Croce spesso annota di essere «oltremodo pensoso». Nascevano questi sentimenti dall’illusione che l’impegno politico, con il suo ritmo di incontri, scontri, interventi e responsabilità pur avendo con la caduta del fascismo assorbito gran parte del suo tempo e delle sue forze, potesse ancora considerarsi ‘temporaneo’, transitorio.
Difficile portare a consapevolezza questa illusione. Il non poter tornare agli studi e come in essi rinchiudersi passava per il riconoscimento di come giammai sotto il segno della continuità gli era concesso ora di vivere: «nel moto generale delle cose – così annota in data 15 luglio 1944 - e specialmente in quello vorticoso che è ora del mondo tutto, mancano non solo le condizioni propizie ma anche un disegno generale che noi possiamo affermare buono».
Pervenire a questa consapevolezza significava riconoscere «che noi, nel tenace fondo del nostro animo, siamo ancora nell’attesa che risorga un mondo simile a quello, continuazione di quello in cui già vivemmo per più decenni, prima della guerra del 1914, di pace, di lavoro, di collaborazione internazionale. E in ciò è la sorgente della nostra implacabile angoscia […]».
Così accadeva di scoprire riflessa nell’esistenza individuale la luce tenue del tramonto di un’epoca. Croce pensa ad un futuro fatto di rivolgimenti e guerre tali da poter «condurre alla finis Europae». Tragedia della patria, crisi della civiltà, unite al sentimento di una vita che riluttava a pacificarsi coi doveri ai quali, come ad un giogo, pure si sottoponeva, fanno sì che alcune e non secondarie di queste pagine siano visitate da una disposizione verso la morte insieme amara e consolante.
Chi si troverà a leggerle avrà l’occasione di scoprire quanto qui il taedium vitae o la morte, si presenta priva del velo di qualsiasi retorica. E’ una speranza, il frutto di un motivato abbandono, più un’ipotesi amica eppure dalla quale dissuadere, che un sentimento. Una ‘debolezza’ inferta allo stile di questi Taccuini e dunque un paradossale ritorno dell’io preso per sé, dell’individuo e non dell’opera. Per essa poteva valere, come Croce aveva imparato sin da giovane, quel motto di Faust che pure agli inizi di gennaio ’44 volle fissare sulla pagina scritta, quasi per infondere a se stesso interiore tranquillità: «Erquickung hast du nicht gewonnen, wenn sie nicht aus eigner Seele quillt».

Nell’espressione di questi sentimenti la novità ‘letteraria’ degli anni raccolti in questi Taccuini di guerra. Conviene inoltre informare che la presente edizione può considerarsi un ampliamento di quell’estratto di ‘diario’ che, sotto il titolo Quando l’Italia era tagliata in due, ebbe la sua prima pubblicazione sui ‘Quaderni della critica’ del 1946 e 1947 e, successivamente nell’edizione degli Scritti e discorsi politici (1943-47). Il ‘diario’ allora si arrestava alla nota dell’ 8 giugno 1944. E’ un peccato che l’edizione adelphiana manchi di riferire, magari in nota, di importanti varianti fra le tre redazioni che riguardano alcuni episodi, fra tutti quello della morte di Gentile, annotati nell’arco di tempo qui compreso (alle due redazioni scritte è infatti da aggiungere una terza, quella data alle stampe, che fu dal Croce ulteriormente modificata). L’edizione è invece accompagnata da un saggio-postfazione di Piero Craveri Vale infine ricordare il libro fondamentale ed altamente istruttivo che Gennaro Sasso dedicò a questi ‘diari’, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, edito da Il Mulino.

PUBBLICATO IL : 20-05-2005

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