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Emilio Garroni, Immagine Linguaggio Figura , Laterza, 2005.
di Roberta Costantini

E’ il quarto volume della pregevole serie “Temi per l’estetica” diretta dallo stesso Garroni per la Biblioteca di Cultura Moderna di Laterza – comprendente (vale la pena ricordarlo), in ordine di pubblicazione, i volumi di Paolo D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale; Stefano Velotti, Storia filosofica dell’ignoranza; Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità – questo bel libro di Emilio Garroni. E che valga la pena citare in questa sede anche gli altri è riconducibile non solo e non tanto ad un intento di carattere meramente informativo, quanto, piuttosto, ad uno di carattere scientifico-esplicativo. L’estetica, infatti, è una disciplina non specialistica e in quanto tale aperta a vari ambiti il cui rapporto con essa è stato sostanzialmente poco esplorato. Per questo motivo il libro pone il problema di cosa sia, come si produca e in cosa consista quel vero e proprio enigma dell’“immagine interna” – con cui si intende sia il precedente di un’immagine (la sensazione), sia l’immagine in quanto attualmente prodotta (la percezione), sia l’immagine in quanto ricordata-rielaborata (l’immaginazione) (cfr. p. IX) – e, quello sottostante, di «quali siano le condizioni e i modi del nostro adattamento e quindi del nostro essere finora sopravvissuti come specie, del nostro operare, del nostro conoscere e comunicare, o insomma, per dirla con un’espressione un po’ pomposa, lo statuto del nostro essere nel mondo» (p. X). Affrontare l’enigma dell’immagine, inoltre, significa – dopo aver sgombrato il campo tanto da concezioni referenzialistiche, che considerano l’immagine percettiva come il doppio puntuale e complessivo dell’oggetto, quanto, all’opposto, da concezioni soggettivistiche, che nullificano la portata oggettiva della sensazione – affrontare il problema del suo rapporto con il linguaggio. Escludendo l’idea di una dipendenza dell’immagine della percezione dal linguaggio come quella, inversa, del linguaggio dipendente dall’immagine prodotta da una capacità percettiva fine e flessibile, l’unica ipotesi plausibile sembra essere quella di una stretta correlazione tra percezione e linguaggio. L’ipotesi, cioè, che «un qualche linguaggio originario preveda una base percettiva e si manifesti anzitutto come intelligenza senso-motoria associata a quasi-segnali (solo apparentemente simili ai segnali degli animali non-umani) o a declinazioni espressive, ostensive, mimiche, eccetera, così che l’uomo sia abilitato ad avvertire e a esprimere significati contestualmente circostanziati, capaci di cogliere e comunicare, in quel contesto, l’aspetto interpretativo pragmaticamente pertinente dell’immagine percettiva» (p. 42). Ma anche l’ipotesi che «la stessa immagine percettiva preveda un qualche linguaggio di tipo operativo e quasi-segnaletico, dal momento che la sua ambiguità deve risolversi in interpretazione e in operazioni opportune, e generalizzarsi linguisticamente per essere adattivamente efficace» (Ibidem). E che, infine, tale base vetero-linguistica sia una condizione necessaria e sufficiente perché il linguaggio giunga al livello delle lingue storico-naturali.
Non è però solo la problematicità del rapporto con il linguaggio a motivare il carattere enigmatico della percezione. La dimensione più rilevante di tale enigmaticità, afferma l’A., è che l’immagine è tale in quanto per un verso determinata e per altro verso indeterminata. E lo è sia nella misura in cui, per percepire un oggetto e avvertirlo nella sua flagranza, è necessario che non tutti i suoi aspetti siano attualmente presenti e che si perdano invece di vista quelli abbandonati nell’attimo in cui si passi ad altri aspetti; sia nella misura in cui, percependo un oggetto, si organizzano non solo certi dati relativi proprio ad esso (e già di per se stessi incompleti), ma anche dati contestuali via via sempre più sfumati quanto più lontani dall’oggetto focalizzato. «In realtà, la totalità determinata-indeterminata della percezione è affidata all’intera capacità di interagire con l’ambiente del nostro corpo, dei suoi organi sensori e della nostra capacità-esigenza di trarne un’immagine interna interpretativamente adeguata» (p.30), spiega in modo estremamente chiaro Garroni. Immagine che è, e nello stesso tempo non è, immagine, cioè qualcosa di assimilabile alla figura con la quale, invece, è stata spesso e ingenuamente confusa. Poiché è sì qualcosa di flagrante, ma non di organizzato staticamente. E’ piuttosto qualcosa che risulta flagrante proprio perché costituito da una moltitudine di scorci che si compongono scompongono e ricompongono in un complesso in continuo movimento che tuttavia appare come stabile. Ed è proprio tale dinamicità-stabilità a costituire il tratto più interessante della percezione. Mettendo a fuoco oggetti determinati si avverte nella percezione la totalità indeterminata come il negativo della determinatezza. Cosa che accade esemplarmente nell’esperienza artistica, nel senso che essa non è che il caso-limite dell’esperienza comune perché vi accade ciò che in primo luogo accade lì. Con una differenza: che «l’arte ce ne fa accorgere» (p. 98), laddove nella percezione quotidiana quasi sempre non ce ne accorgiamo. Attraverso la figura – riduzione ed esteriorizzazione dell’immagine dalla quale si distingue per essere né naturale né interpretante, ma interpretabile, e per avere con essa, a seconda della tipologia, somiglianze e dissomiglianze sia rispetto alla sua mobilità-stabilità che alla sua configurazione visiva – l’arte suggerisce «con la sua forma positiva e presente qualcosa di negativo e assente oltre la stessa forma» (p. 111) e costituisce «una sorta di riflessione in azione sull’immagine interna» (p. 98): ne ostende l’interna mobilità e l’inesprimibile totalità, mimando, così, la percezione nel suo genuino statuto. Ogni opera d’arte riuscita, perciò, potrebbe essere pensata secondo il paragone suggestivo ed efficace proposto da Garroni, come la siepe leopardiana. Come questa, infatti, permette di “fingersi nel pensiero” l’infinito al di là di essa.
Non tutte le figure, ad ogni modo, sono figure artistiche e pur nella parità di costituzione di qualsiasi tipo di figura, nota l’A., vi sono figure correnti che hanno il torto di nascondere il processo percettivo-immaginativo che le sottende, facendo credere, come nel caso della televisione, di essere immediatamente doppi di oggetti reali e determinati. Così, laddove queste «dipendono inevitabilmente da un’indeterminatezza totalizzante solo in funzione del suo, forse in gran parte voluto, non riconoscimento mentale» (p.118), quelle meno corrive e quelle artistiche, invece, la mettono in evidenza. Che poi «è la stessa differenza che passa tra un vivere ottuso, abbandonato esclusivamente al risaputo e ai piccoli affari quotidiani e un vivere attento, pensante e comprendente, che non coincide affatto con una differenza di classe, neppure tra intellettuali e non-intellettuali, e ancora meno tra poveri e ricchi» (p. 118).
Con un «apologo politico di trista attualità» (p. 118) l’A. conclude il suo saggio, che, come si legge nella premessa, ha pensato più come un monologo, una riflessione giornaliera, un informale esercizio osservativo, che come un trattato tecnico-scientifico. Gli siamo grati per avercene resi partecipi.

PUBBLICATO IL : 22-05-2005

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